
Primo Levi che fuma è un’immagine inconsueta, ma non rara. Ci sono diverse fotografie che lo ritraggono con la sigaretta in mano come nello scatto di Giuseppe Varchetta. Questo è particolarmente bello perché lo coglie di scorcio. Si vede distintamente la sua mano che tiene la sigaretta tra l’indice e il medio, mentre il pollice si appoggia alla guancia. Aspira con voluttà, almeno così pare dall’espressione del viso. Si scorgono i capelli e la fronte, e non porta gli occhiali. La maggior parte delle fotografie che gli sono state scattate a partire dalla metà degli anni Settanta, lo mostrano frontalmente con il suo inconfondibile pizzetto. Questa è stata fatta nel settembre del 1979 alla Festa dell’Unità a Milano. Levi ha pubblicato da un anno La chiave a stella. Ha ricevuto il Premio Strega e il libro è un successo di pubblico. Da quasi quattro anni è in pensione e si può dedicare al sogno della sua vita: scrivere. L’aveva sperato sin dal 1946, eppure sono trascorsi trent’anni prima che potesse farlo. A Milano l’hanno chiamato a discutere con un altro scrittore che si occupa di lavoro, Paolo Volponi, che l’anno prima aveva pubblicato Il pianeta irritabile, un romanzo post-apocalittico, presso il medesimo editore di Levi. Fumare è stata per più di una generazione di scrittori e intellettuali un’abitudine consueta.
Ci sono innumerevoli fotografie che li ritraggono con la sigaretta tra le dita o in bocca, da Sartre a Hannah Arendt, da Fenoglio a Celati. Si fumava dappertutto: al bar, al ristorante, al cinema; persino nelle aule scolastiche i professori fumavano. In Se questo è un uomo e in La tregua chi può farlo fuma. In un capitolo del suo primo libro, Al di qua del bene e del male, Levi parla diffusamente del Mahorca, il tabacco di scarto, in forma di schegge legnose, che è in vendita nel Lager di Monowitz in pacchetti da cinquanta grammi. Il tabacco Mahorca diventa l’occasione per spiegare come funziona l’economia della borsa nera nel Campo. Tutti fumano, tutti scambiano il tabacco con il pane. Come ha scritto in un piccolo libretto, Smoke, John Berger, oggi fumare è diventata una perversione solitaria. Qualcosa da fare di nascosto, lontano da tutti. Berger spiega che il fumo è stato invece per la sua generazione – era nato nel 1926 – un fatto sociale: si fumava insieme ad altri. Roland Barthes ha raccontato il gesto di tenere la sigaretta tra le mani proprio dei suoi coetanei. Il fumo era un compagno consueto.
Levi fumava pochissimo, solo in occasioni sociali, e poi sigarette al mentolo. Varchetta l’ha fissato in questo gesto che lo rende così simile a tanti suoi contemporanei. In Se non ora, quando? uno dei personaggi del romanzo, Leonid, offre una sigaretta a Mendel, l’orologiaio, che però subito la rifiuta per via dei bronchi. Poi ci ripensa e la prende. La scena si svolge luglio 1943, nel mezzo della guerra partigiana contro i nazisti. Mendel spiega: “Come se fumare o non fumare avesse importanza quando tutto il mondo ti crolla intorno. Su, dammi questa sigaretta; è dall’autunno che io sono qui, e forse è la terza volta che trovo da fumare”. Nell’articolo Il segno del chimico, raccolto in L’altrui mestiere, Levi ricorda come da giovane durante le ore del laboratorio chimico all’università si andava a fumare e insieme a corteggiare le ragazze. Così si faceva, e forse ancora si fa.
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