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Il Covid-19 e la “nuova” visione del mondo

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Ci sono stati eventi che hanno cambiato irreversibilmente il modo di percepire l’immagine. Negli ultimi vent’anni forse il più emblematico è stato l’attacco terroristico alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Nessuno potrà mai dimenticare quell’aereo che si infila nella Torre Nord del World Trade Center né il corpo di quell’uomo che, lanciatosi dal grattacielo, cade nel vuoto preferendo morire schiantato al suolo piuttosto che arso vivo.

Visioni inimmaginabili prima di allora, che hanno dato il via allo spettacolo del terrore. All’epoca si parlò di “estetica” dell’evento, ci fu persino chi arrivò a trovare sublime la messa in scena dell’attentato, come se la sua forma fosse stata accuratamente studiata per assumere una valenza principalmente visiva.

 

La pandemia generata dal virus Covid-19 ha imposto un nuovo modo di fruire gli eventi pubblici. Dopo il periodo di lockdown che ha visto la chiusura pressoché totale di queste attività, è divenuto essenziale far emergere nuove modalità di incontro con il pubblico. Si potrebbe sostenere che tale evento non abbia lo stesso peso dell’attentato alle Torri Gemelle ma sappiamo che così non è. Certo si tratta di un cambiamento molto meno spettacolare, più subdolo, ma altrettanto e forse ancor più epocale.

È successo infatti che mentre il virus circolava indisturbato l’uomo sia stato costretto a rinchiudersi in casa. Una condizione impossibile da credere prima d’ora poiché mai l’essere umano avrebbe immaginato di non poter disporre della propria “libertà” – o di quello che crediamo esserlo – a causa di qualcosa che non è possibile vedere.

 

Questa costrizione ha generato nuove forme di comunicazione che sono tali solo in apparenza poiché lo spostamento verso le attività virtuali è già stato ampiamente sperimentato e imposto attraverso l’uso sempre più massiccio dei social media. Ci si potrebbe quindi chiedere cosa è accaduto di veramente nuovo che già non esistesse prima del diffondersi del virus? La legittimazione totale e definitiva dell’era virtuale da parte di ogni segmento della società. Tale legittimazione ha permesso e sta permettendo ad ogni spazio fisico, ad ogni attività svolta in presenza la contingentazione della fruizione sia nell’ambito dei servizi sia in quello delle attività lavorative come in quelle dell’intrattenimento. E contingentare non significa soltanto tutelare la salute delle persone in condizioni che normalmente si manifestano sotto forma di assembramento, vuol dire anche “controllare” meglio i flussi. Il controllo è infatti uno dei fattori che, nel bene e nel male, emerge con prepotenza dalle nuove regole di convivenza sociale. 

 

Per restare nell’ambito dell’immagine gli eventi che si sono svolti o che sono in corso da marzo in poi, hanno visto in molti casi la propria cancellazione con il rinvio al 2021; in altri è avvenuto un adattamento delle modalità di fruizione che si sono parzialmente o totalmente trasferite dai luoghi fisici al web. Questo atteggiamento continua anche post lockdown e non è per nulla certo che si possa tornare a come era prima.

 

© Julia Fullerton-Batten, Otto, Lockdown Day 82. #ICPConcerned Global Images for Global Crisis 2020.


Negli Stati Uniti, il Paese più colpito al mondo per numero di contagi e di morti, l’Internationl Center of Photography ha trasferito gran parte delle proprie attività in rete. Fondato da Cornell Capa nel 1974 il Centro è noto per l’alto profilo formativo che propone e l’elevato numero di mostre e artisti che nel tempo ha promosso, sempre con un occhio molto attento a quei fotografi in grado di far emergere l’immagine in una forma innovativa che potesse fare scuola. 

Una delle attività più interessanti che ICP ha posto in campo durante la pandemia è una mostra virtuale in costante evoluzione – #ICPConcerned Global Images for Global Crisis– che il noto critico David Campany ha ideato, assieme a Sara Ickow, in contrapposizione alla eccezionale condizione di vita imposta dal diffondersi del virus.

Il progetto è partito il 20 di marzo con un invito rivolto a chiunque utilizzasse abitualmente la fotografia (sia in forma professionale, sia amatoriale), a pubblicare in rete le immagini di quanto stava loro accadendo associate all’hashtag “#ICPConcerned”. Nel giro di poco tempo – e mano a mano che il contagio si è diffuso esponenzialmente nel mondo – il numero di visioni immesse nel web è altrettanto cresciuto dimostrando un’improvvisa “utilità” delle centinaia di migliaia di immagini che abitualmente popolano la rete. È avvenuta una reale, seppur virtuale, unione tra individui che stavano vivendo connessi un momento storico preciso. In questa direzione va inteso il mutare epocale del senso dell’immagine, la sua realizzazione, la sua fruizione. A differenza della spettacolarità delle visioni di venti anni or sono, adesso ciò che abbiamo di fronte è una dimensione molto più intima dell’evento, che fa i conti con la nostra percezione della quotidianità improvvisamente messa in risalto. Una sorta di attenzione al disagio che non è soltanto sociale ma che diviene consapevole del corpo, della casa, dei sentimenti posti al centro di un’evoluzione del pensiero.

A partire da giugno, mese per mese le immagini contrassegnate da #ICPConcerned, che su Instagram hanno raggiunto a settembre il numero di oltre 46.000 unità, vengono selezionate dai curatori di ICP, stampate e esposte nella maggiore galleria dell’International Center of Photography e si avvicinano ad essere all’incirca un migliaio in quella che paradossalmente diviene la più vasta mostra “fisica” mai realizzata. Quello che può apparire un evento in netto contrasto con l’imposizione del virtuale, rappresenta in definitiva un atto di interconnessione dove realtà e virtualità si legano molto strette tra loro.

 

In Italia, dopo la cancellazione di tutti i principali eventi commerciali e culturali primaverili, l’autunno è ripreso con un senso di timidezza mischiato alla determinazione di voler continuare. Consapevoli di non poter offrire la stessa fruibilità degli anni passati, le principali manifestazioni di fotografia si stanno svolgendo all’insegna della “sicurezza”. Distanziamento, ingressi contingentati, mascherine e gel disinfettanti sono presenti ovunque accompagnati da squadre di volontari preposti al “controllo”. Tutto per garantire al pubblico una fruizione che non faccia sentire troppo la differenza tra il prima e il dopo come a voler mitigare il più possibile un cambiamento che però appare inevitabile e irreversibile.

Ma prescindendo dal tema sicurezza non ci si è potuti esimere, naturalmente, dal raccontare come ha reagito la narrazione fotografica alla pandemia e al disagio trasversale che ha provocato: dall’emergenza sanitaria allo smart working, dall’insegnamento a distanza allo smarrimento del non sapere come affrontare la vita quotidiana costretti in casa e, non ultimo, per molti, l’assenza totale di relazione fisica con l’altro.

 

© Bertuccio_Main, Dal progetto Il silenzioso battito delle loro mani, vincitore Premio Canon Giovani Fotografi. Festival Internazionale Cortona On The Move 2020.


Completamente dedicato all’esperienza della convivenza con il coronavirus, Cortona On The Move 2020 (7 luglio – 1 novembre) è stato il primo festival italiano a ripartire dopo l’emergenza sanitaria ed il primo a proporre l’utilizzo del web come svolta espositiva in costante evoluzione attraverso il contest The COVID-19 Visual Project, una piattaforma multimediale pensata per diventare archivio permanente sulla pandemia tutt’ora in corso. Lo spazio virtuale si sa non pone limiti all’archiviazione e gli organizzatori del festival, giunto quest’anno alla sua decima edizione, hanno voluto offrire ai fotografi, documentaristi e non, uno strumento che permettesse loro di condividere racconti legati all’impatto che il virus ha avuto sulla vita di tutti i giorni a tutti i livelli. 

L’idea è quella di costituire un “centro raccolta immagini” su temi legati all’emergenza sanitaria, alle conseguenze subite da lavoro e economia, ai cambiamenti sociali e personali cui gli individui vengono sottoposti loro malgrado, che possa fungere da memoria e creare momenti di analisi su quanto accaduto. Tutto ciò pone però in evidenza una questione forse non chiara a tutti: l’archivio in quanto tale svolgerà l’unica funzione per cui è preposto, vale a dire documentare un momento storico. Si tratta di una registrazione di ciò che accade che non può essere guardata nell’oggi poiché non è ancora presente l’elaborazione. Le analisi e le letture che si potranno fare saranno giocoforza parziali, le scelte stesse che guideranno gli organizzatori nella selezione dei lavori presentati saranno inevitabilmente dettate da una modalità visiva superata dagli eventi. Nonostante ciò resta imprescindibile raccogliere immagini che testimoniano il presente, perché nel futuro si possa dare un senso alla memoria. L’immagine fotografica ha dunque questa funzione, molto più della parola.

 

© Mariagrazia Beruffi, Chinese Whispers. Lago zona residenziale periferia Nanchino. SI Fest - Savignano Immagini Festival 2020.


Analogamente il SI Fest 2020 di Savignano sul Rubicone – uno dei più longevi, giunto alla sua 29ª edizione – ha intitolato la manifestazione di quest’anno “Idee. Storie, memorie e visioni” sottolineando il carattere anche qui documentale di uno “stato” indefinibile a parole. Le immagini affrontano di nuovo la necessità di mostrare il cambiamento nel suo divenire, come fosse un’urgenza alla quale è impossibile sottrarsi. La sospensione di ogni attività pubblica e privata imposta durante il periodo di chiusura ha dato origine a una pausa per molti innaturale durante la quale la mente non solo ha continuato a lavorare freneticamente ma ha addirittura varcato i limiti del pensiero attivo rimanendo imprigionata e le innumerevoli iniziative sviluppatesi virtualmente hanno rappresentato metaforicamente proprio questa impossibilità di “uscire dalla testa” per divenire “azioni” fisiche.

SI Fest torna alle origini – recitano gli organizzatori – di una manifestazione pensata invece per essere vissuta all’esterno, nelle piazze della città con la lettura dei portfoli, nelle strade con installazioni e gigantografie che appaiono come “stazioni” di un percorso che vuole restituire identità alle persone affinché non si sentano più smarrite nei propri luoghi. 

Si Fest partecipa al progetto europeo IDE Reconstruction of Identities, altra iniziativa che possiede una solida base virtuale e che mette in collegamento Savignano sul Rubicone con altre tre città europee operanti in altrettanti contesti in cui la fotografia funge da collettore tra individui che appartengono a diverse culture e diversi modi di esprimerle. IDE (Identity-Dialogues-Europe) associa quattro realtà europee attive nel settore della fotografia: oltre a Savignano sul Rubicone con il SI Fest partecipano al progetto il Copenhagen Photo Festival, l’agenzia Ad Hoc Gestión Cultural di Saragozza e l’agenzia NOOR Images di Amsterdam. Partendo dal concetto che le immagini sono più di ogni altra cosa capaci di innescare domande sulle implicazioni del vivere, IDE ha organizzato delle residenze transnazionali per fotografi professionisti allo scopo di stimolare attività sul territorio che restituissero percorsi di dialogo partecipativo con le comunità incoraggiando il confronto. Come per Cortona, anche questo progetto crea un archivio online allo scopo di “mettere in contatto” individui uniti non soltanto dalla passione per la fotografia ma anche dal desiderio di discutere su quanto sta accadendo dentro e fuori di loro.

 

© Francesca Mangiatordi – La vita al tempo del coronavirus (Codogno). Festival della Fotografia Etica di Lodi 2020.


Cos’è il bene comune e perché ci si sacrifica per esso? Il Festival della Fotografia Etica di Lodi 2020 (26 settembre – 25 ottobre) vive una vicinanza quasi promiscua con il luogo che è stato il nucleo da cui tutto, qui in Italia, è partito: Codogno. Analogamente ai precedenti esempi menzionati, anche in questo caso gli organizzatori hanno sentito l’esigenza di promuovere una call internazionale che desse risalto a come diverse realtà hanno vissuto e vivono questa evoluzione. L’iniziativa ha raccolto in pochi mesi oltre 10.000 immagini provenienti da ogni parte del mondo: Brasile, India, Inghilterra, Spagna, Iran, Nepal. Una selezione di questo universo visivo viene proposta nella mostra “La vita al tempo del Coronavirus” a Codogno ma l’intero corpus di immagini pervenute forma, anche qui, un archivio del presente a futura memoria.

 

© Dario De Dominicis, To the Left of Christ. Festival della Fotografia Etica di Lodi 2020.


Ognuna di queste realtà si è sentita spinta verso la necessità di documentare ma ha ancora senso farlo? Ha senso raccontare nello stesso modo “di sempre” gli eventi? Cosa possono aggiungere immagini puramente illustrative a un vissuto del quale non si percepisce la sostanza? Oggi più che mai occorre tornare a fare “spazio”. L’enorme quantità di immagini con cui, in questo preciso momento, chi pratica la fotografia si è sentito in dovere di invadere il web e i luoghi fisici che hanno potuto esporla è arrivata a un punto di non ritorno, al momento in cui gli occhi si rifiutano di guardare. Persino la fotografia documentaria, etica o meno che sia, deve darsi una battuta d’arresto. Cosa aggiungono milioni di visioni riversate nella rete a un vivere quotidiano fatto sempre più di incertezza? Nulla. Rimane, forse, soltanto il conforto di essere (o sembrare di esserlo) uniti nella disgrazia. Analogamente all’elaborazione di un lutto comprendere cosa accade non appartiene alla sfera del fare ma a quella dell’ascoltare, in primis la propria coscienza.

Non è più questo il tempo di mostrare ogni cosa, soprattutto non è più questo il tempo dell’accumulo. Le immagini si ripetono tutte uguali, omologate a un senso del guardare che non riesce ad andare oltre. Ma la soluzione è semplice quanto inaccettabile per una forma mentis ove tutto appare affastellato, senza ordine alcuno. Trovare “interessanti” immagini che registrano le reazioni alla pandemia nel mondo appare nella maggioranza dei casi un esercizio fine a se stesso.

C’è un tempo di elaborazione che non può prescindere dal tempo stesso. Voler tornare alla “normalità” praticando una corsa vertiginosa alla documentazione non conduce più a una riflessione bensì a scorrere gli elementi di un file virtuale che possiamo aprire e chiudere quando vogliamo. Qual è allora l’identità da recuperare di cui stiamo parlando? Qual è la nostra identità? Occorre guardare non con occhi diversi come molti organizzatori di queste manifestazioni auspicano, occorre guardare con i propri occhi, quelli che non conosciamo più. 

 

“Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti” dice Marisa Merz in una sua mostra di quarantacinque anni fa: un tempo lontano? Un tempo finito? Forse un tempo mai cominciato.

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