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Tondelli: Sette parole per Altri libertini

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1. Presenza 

 

Non tutto è andato perduto, come diceva uno slogan. Non tutto è sparito o è stato fatto cadavere dai decenni successivi e dalla retorica dominante del buio con cui troppe volte si è oscurata l’epoca del Settantasette, usando l’immagine unica della lotta armata e occultando, a distanza, la molteplicità di esperienze e i colori che animarono quel periodo. Di tale policromia, di tale vitalismo a tratti anche autodistruttivo, ma non per questo monotonale, resta, per esempio, la scrittura di uno dei libri più significativi usciti da quegli anni, Altri libertini: uno tra i migliori e, forse, il più capace di formalizzare e trasmettere un sentimento di “presenza” con il proprio tempo. 

 

Altri Libertini esce nel gennaio 1980 (pochi mesi dopo Se una notte d’inverno un viaggiatore, di Calvino; nel medesimo anno de Il nome della rosa, di Eco, e del film di Giordana Maledetti vi amerò). L’editore è Feltrinelli, che lo manda in stampa dopo una laboriosa riscrittura guidata da Aldo Tagliaferri. Il libro segna l’esordio di un venticinquenne nato a Correggio e iscritto al corso di laurea in Discipline Arte Musica e Spettacolo (DAMS) dell’Università di Bologna – si laureerà a febbraio dell’Ottanta, con una tesi sul romanzo epistolare settecentesco. Si tratta di un romanzo a episodi, come lo definiva il suo autore, o meglio ancora «a scenari», come scrive Fulvio Panzeri nel primo dei due volumi delle Opere dedicato a Tondelli (Bompiani, 2000, p. XV). È un costruito assemblaggio di sei racconti che hanno più il senso della scena che della trama – ricordando, nell’idea di rappresentazione come sperimentazione di un mondo attraverso il suo “degenerato” linguaggio, qualcosa dell’Anonimo lombardo, di Arbasino, al quale del resto la nota finale della prima edizione rendeva esplicitamente omaggio. 

 

Postoristoro, Mimi e istrioni, Viaggio, Senso contrario, Altri libertini, Autobahn sono sei racconti antipatetici («bohème, sempre bohème che due maroni») ambientati in Emilia, nella seconda metà degli anni Settanta, e costruiti attorno alla messa in scena di un’umanità ventenne promiscua e polimorfa: come la Giusy, un drogato, e i suoi compagni tossici tra cui Bibo; o le Splash, quattro amiche – tra cui Benny, un travestito; o un ragazzo gay che in prima persona racconta quattro anni della sua vita, passata tra le prime storie importanti e gli spostamenti vari tra Bologna, Milano, Parigi, Bruxelles, Londra, fino al Postoristoro, a Reggio Emilia, dopo essere stato licenziato perché omosessuale. 

Altri libertini ha un successo di pubblico immediato: come ha ricordato Belpoliti le quattromila copie della prima edizione vanno subito esaurite; segue una tiratura di tremila sparita dalle librerie, mentre la terza di diecimila, pronta in tipografia, è bloccata dal sequestro stabilito dal procuratore generale dell’Aquila, Donato Massimo Bartolomei (molto famoso all’epoca per le sue crociate contro la letteratura e il cinema considerati immorali; per due volte, tra il 1979 e il 1980, aveva sequestrato La vita interiore, di Moravia). Il libro di Tondelli è messo sotto inchiesta per le oscenità e le bestemmie che contiene. La versione di Altri Libertini nelle opere edite da Bompiani è purificata per volontà stessa dell'autore, poco prima di morire, mentre l'edizione Feltrinelli conserva bestemmie e parole sporche come nella prima esuberante versione. Nel 1981 al processo Pier Vittorio è assolto con formula piena, e il libro torna in circolazione. 

 

Intorno a Altri Libertini, a partire dai suoi materiali narrativi, e, ancor di più, attraverso le vicende della sua ricezione, è possibile, insomma, recuperare e capire meglio un mondo intero, compreso, soprattutto, il Settantasette. Ma questa particolarità documentaria, nella lunga distanza, forse ha sfavorito il libro, perché ne ha fatto apprezzare soprattutto il valore sociologico, oppure, e in maniera analoga, ne ha trattenuto più che altro la funzione di testo di riferimento della cultura e della militanza gay, facendo rimanere più opachi i suoi meriti letterari. Meriti che invece sono significativi, e doppiamente, perché le qualità, anche politiche, di Altri Libertini passano pure da lì, cioè dalla capacità di creare, lavorando sui significanti, un forte senso di presenza e empatia col proprio tempo, sperimentando, attraverso la scrittura, nuove occasioni di scambio tra forme e cultura, nuovi codici, che impastano forme provenienti anche da linguaggi diversi. (Coincidenze: Another One Bites the Dust, dei Queen, esce nel medesimo anno.)

 

2. Forma

 

Altro che una pietra sopra – per citare un altro titolo del 1980. Proviamo a rileggere il capoverso con cui si apre il libro: 

 

Sono giorni ormai che piove e fa freddo e la burrasca ghiacciata costringe le notti ai tavoli del Posto Ristoro, luce sciatta e livida, neon ammuffiti, odore di ferrovia, polvere gialla rossiccia che si deposita lenta sui vetri, sugli sgabelli e nell’aria di svacco pubblico che respiriamo annoiati, maledetto inverno, davvero maledette notti alla stazione, chiacchiere e giochi di carte e il bicchiere colmo davanti, gli amici scoppiati pensano si scioglie così dicembre, basta una bottiglia sempre piena, finché dura il fumo. (P. V. Tondelli, Postoristoro, in Altri libertini, Feltrinelli, 1995 [1980], p. 9 (d’ora in poi Al).

 

Sembra quasi la reinterpretazione di un quadro di Hopper, per la capacità, simultanea, di trattenerci davanti a un luogo e di farcelo osservare dal di fuori, riuscendo, nel medesimo tempo, a percepirne l’anima interna: a cogliere i contrasti di luce e gli odori degli anni che appartengono proprio agli sguardi e ai corpi che da sempre vivono tra gli oggetti di quella scena. L’effetto di immediatezza della rappresentazione, come accade sempre, è l’esito, invisibile, di un elaboratissimo trattamento del linguaggio. 

Entriamo più nel dettaglio. Postoristoro comincia con un attacco dinamico, percussivo, che al ritmo dell’anapesto (due sillabe atone e una tonica) e del giambo (atona - tonica), quasi a tempo di marcia, o di rap, introduce un enunciato narrativo generico: 

 

So-no-giór-nior-mái-che-pió- ve(e)-fa-fréd-do

 

che subito dopo si fissa, in un tempo e in uno spazio particolari, costruendo, anche in assenza di marche grammaticali, una situazione, per così dire, deittica, cioè agganciata a dettagli ambientali:

 

e la burrasca ghiacciata costringe le notti ai tavoli del Posto Ristoro,

 

che inserendo, senza nessi esplicativi ma per via di un accumulo in presa diretta, come in una veloce successione di zoomate, dettagli visuali e sensoriali precisi, concentrati su un effetto di presenza: 

 

luce sciatta e livida, neon ammuffiti, odore di ferrovia, polvere gialla rossiccia che si deposita lenta sui vetri, sugli sgabelli

 

crea rapidamente, e in salire, l’impressione di una progressiva fusione tra chi parla e chi vede che si completerà nella frase successiva:

 

e nell’aria di svacco pubblico che respiriamo annoiati, maledetto inverno, davvero maledette notti alla stazione

 

dove la prima persona plurale («respiriamo»), il presente narrativo, le imprecazioni prelevate dal parlato collaudano una situazione enunciativa assimilabile al soliloquio in forma diretta. Ma in una modalità stilistica tutta personale e originale, e su cui torneremo, perché il procedere del soliloquio non funziona, alla maniera classica, per consentire l’accesso a pensieri intimi, a segreti individuali, ma serve, qui come anche più avanti, a mettere in scena una modalità di discorso rivissuto che non parla di una soggettività unica e separata, ma esprime una soggettività, potremmo dire, plurale, o meglio ancora fusionale, perché nel discorso si amalgamano spesso la voce del narratore e quella dei personaggi, che si accavallano e si mescolano in forma di soliloquio o, come nel caso qui sotto, di discorso diretto libero: 

 

gli amici scoppiati pensano si scioglie così dicembre, basta una bottiglia sempre piena, finché dura il fumo.

 

Dalla costruzione di questa corrente impura di voci in azione consegue, sul piano degli effetti della rappresentazione, la messa in scena di un “noi”, invece che di un “io” individuale, che da subito stringe un patto narrativo che potremmo riassumere così, inventando, per intenderci meglio, una voce immaginaria della pagina di Altri Libertini: «se mi leggi, e continui a farlo, ti farò vivere dentro tante esperienze in movimento». 

 

 

3. Alterità

 

Anche il titolo, del resto, dice già molto: tanto dell’opera che stiamo per leggere quanto dell’intreccio di storie e di voci tra il libro d’esordio di Tondelli e il Settantasette. I libertini sono coloro che si dedicano a una vita disordinata, in senso sessuale e sociale; sono inattese figure di richiamo ai personaggi di quella letteratura settecentesca che di certo Tondelli frequentò per preparare la sua tesi di laurea sul romanzo epistolare. Ma la parola più impegnativa, per capire il libro, probabilmente è l’aggettivo (Altri), usato senza articolo e dunque in funzione indeterminativa, quasi anarchica, indisponibile alla classificazione; “altri” afferma un’alterità come “nuova” differenza e, soprattutto, come “immediata diversità” che esplode, sulla pagina, per introdurre un mondo, anche un popolo, che esiste, narrativamente, anzitutto come personalità linguistica, come identità non conforme, sia in senso sociale che letterario, perché la scrittura che le dà vita è tutta tesa a rompere l’unità del linguaggio e della rappresentazione che così tante volte, anche dopo Tondelli, è rimasta legata a uno sguardo superiore, extradiegetico: 

 

I Maligni noi ci chiamano le Splash, perché a sentir loro saremmo quattro assatanate pidocchiose che non han voglia di far nulla, menchemeno lavorare e solo gli tira la passera, insomma altro non faremmo che sbatterci e pergiunta anche fra noi quando il mercato del cazzo non tira; ma noi si sa che è tutta invidia perché un’uccellagione come la nostra non gliel’ha nessuno in zona per cui è del tutto inutile che quando ci vedono passare a braccetto o in auto ferme al semaforo, ci gridino dietro uscendo dai bar e dai portici o abbassando i finestrini delle loro Mercedes: “Veh, le Splash, i rifiút ed Rèz” (Al, p. 35).

 

Altri libertini non è, evidentemente, un romanzo scritto alla maniera di un intellettuale intenzionato a mostrarci come è bravo a mimare i dialetti di un’umanità che resta guardata dall’alto, o da parte, attraverso un punto di vista di classe su cui si assesta, senza mai spostarsi, l’io narrante. L’alterità guardata è spiazzante, perché trasforma il linguaggio, anche per i lettori, in un luogo dove i fatti accadono senza un ordine.

 

 

4. Celati

 

Attraverso il lessico, la sintassi, le focalizzazioni, i testi di Altri libertini cercano di inventare soluzioni radicali di presa diretta sulla realtà; al concetto di immediatezza, dunque, va affiancato, proprio come strategia retorica, lo stordimento: siamo dentro un libro che risuona di voci creando continuamente un’impressione di stordimento psichedelico, secondo una sensibilità per la pagina che a Tondelli, come a molti altri, arriva da Gianni Celati, nel concetto dell’opera come laboratorio di idee e di storie dove, lavorando sull’espressione, si arrivi a restituire agli esseri altri e particolari non solo visibilità linguistica ma vissuto emotivo. Il linguaggio inteso come luogo dove il mondo accade (Wittgenstein) diventa teatro, atto performativo, attraverso libri come Comiche (1971), Le avventure di Guizzardi (1972), e La banda dei sospiri (1976): è il «parlato come spettacolo», per usare il titolo di un altro saggio di Celati (1968); è, dunque, «liberarsi della letteratura attraverso la letteratura stessa», come scrive Belpoliti per commentare l’attività saggistica degli anni Settanta, nel recente Meridiano (2016) dedicato a Celati (p. XXV; curato anche da Nunzia Palmieri). 

 

Pier Vittorio Tondelli non è citato tra i partecipanti agli incontri del gruppo Alice/DAMS (1976-77) da cui nacquero i testi di Alice disambientata. Materiali collettivi (su Alice) per un manuale di sopravvivenza (1978) – ristampato nel 2007, a cura di Celati e con postfazione di Andrea Cortellessa). Eppure Altri libertiniè impensabile senza l’aria di quel tempo, vale a dire, per esempio, senza la tensione a far lavorare gli sguardi, e le vite, sulle possibilità di disambientamento simbolico e spaziale indotti da un’esperienza collettiva. I passaggi stravaganti, proprio in senso tecnico, messi in scena in Viaggio, il terzo racconto di Al, per esempio, con gli spostamenti dalla provincia emiliana a Bologna, Milano, Berlino, Bruxelles; o gli scenari del libro italiano più importante per capire il clima degli anni Ottanta (Un weekend postmoderno, 1990) costruiscono, in senso politico come estetico, un progetto radicale di ripensamento della rappresentabilità del mondo. E non solo perché diventano rappresentabili (non descrivibili: rappresentabili) forme di umanità essenzialmente altre, ma perché Tondelli ribalta anche il modo in cui si può guardare e raccontare l’Italia: oltrepassando tanto i miti delle capitali quanto le contrapposizioni piccoloborghesi tra città e provincia, e raccontando, per esempio, la modernità e il postmoderno dai margini. Un po’ come accadrà anche con un’altra opera rivoluzionaria e, non per caso, uscita dal medesimo ambiente: un ibrido, anch’essa, vale a dire il reportage fotografico e narrativo Viaggio in Italia, curato da Luigi Ghirri, Gianni Leone, Enzo Velati, con testi di Arturo Carlo Quintavalle e un diario di viaggio di Gianni Celati – su doppiozero se ne è parlato qui

 

Ph Luigi Ghirri.

 

5. Corpo

 

In un certo senso, gli eroi di Altri libertini sono fatti esistere e fatti agire, narrativamente, come corpi in meno, un po’ come gli oggetti di Michelangelo Pistoletto, nel senso che sono altri, diversi in quanto portatori di un’alterità spiazzante, di un’erotica del corpo differente e resistente. A cosa? Per esempio anche ai codici di Innamoramento e amore, il bestseller di Alberoni uscito nel 1979 – il medesimo in cui arriva in traduzione italiana di Fragments d’un discours amoureux Di Roland Barthes (1977). Per precisare l’aria di quel tempo, d’altra parte, vale la pena di ricordare che al 1980 risale Mille plateaux, vale a dire il secondo volume di Capitalismo e schizofrenia, di Deleuze e Guattari.

L’umanità libertina traccia, disperdendo il corpo nella droga, nel sesso, nell’alcool, linee di fuga rizomatiche rispetto a un’idea produttiva di famiglia, di società, di politica; esprime non tanto figure del consumo edonistico, quanto alterità irriducibili che nell’immediato giro di anni saranno oscurate, in senso economico, politico e spesso anche culturale. Ma alla lunga distanza non è così scontato che i racconti di Tondelli abbiano smesso di parlare, perché quelle storie così trasgressive (in senso pieno e non banale) possono svolgere una verità che, nel ventunesimo secolo, può diventare sempre più evidente e contemporanea, cioè la fine di un mondo che poteva essere ordinato da un pensiero unico e senza ombre, sicuro di riuscire a esprimere, a partire dal proprio solitario e limitato spazio, classificazioni teoriche universali indifferenti agli scarti. Altri libertini è anche l’espressione, politica come letteraria, del diritto a esistenze corporee che, spesso in maniera autodistruttiva, affermano senza mediazioni una gioia di vivere che solo il benpensante potrebbe chiudere nella formula stretta e ossessiva del godimento. L’uso del corpo, il suo consumo, agisce come una forma di conoscenza (tanto più urgente rispetto alla repressione dell’identità omosessuale).

 

In questa prospettiva, non posso né voglio dirlo in maniera perentoria, ma sono abbastanza convinta che il titolo Altri libertini dialoghi, anche nel senso di una suggestione creativa più che di un riferimento diretto, con The Other victorians (1966), il famoso studio di Stephen Marcus sulle relazioni tra pornografia sessualità e repressione emotiva durante il periodo vittoriano, citato e discusso prima da Michel Foucault, nel capitolo «Noialtri vittoriani» di La volontà di sapere (il primo volume dell’Histoire de lasexualité, 1976), e poi da Celati in Alice disambientata.

 

 

6. Suoni

 

Provate a rileggere i racconti di Altri libertini, per esempio, ascoltando Giovanni Lindo Ferretti che canta con i CCCP Emilia paranoica

 

 

la pagina scritta di Altri Libertini, se ci abituiamo a farla risuonare, si capisce meglio, si sente meglio; perché c’è, in entrambi i casi, una postura analoga, come diremo meglio nell’ultimo paragrafo.

La prosa di Altri Libertini funziona continuamente anche come una trama fonica, che mima le intensità emotive del parlato allestendo, in simultanea, una drammaturgia ritmata, quasi rock – Tondelli è pure l’autore di Quarantacinque giri per dieci anni, una cronaca degli anni Ottanta attraverso un disco o un concerto per ogni anno. E così di nuovo torna, anche di questo già si è discusso, l’intreccio continuo di voci che Altri libertini ha stabilito con l’esperienza del Settantasette, compresa l’importanza di rappresentare un mondo che vive, oltre che di parole e azioni, di suoni: la polizia chiuse Radio Alice con «l’accusa è di aver guidato gli scontri di piazza attraverso i microfoni e la diretta» ricorda qui Marco Belpoliti. 

 

 

7. Vissuto dei luoghi

 

L’opera tutta di Tondelli, non solo Altri libertini, disambienta l’Italia, il suo immaginario più legato agli stereotipi: solo l’esperienza toscana di Bill Viola, recuperando le sue testimonianze, per fare un nuovo esempio, sa farci intravedere altrettanto bene come Firenze sia stata anche, tra gli anni Settanta e Ottanta, un’officina straordinaria della sperimentazione e della controcultura. Certamente però è l’Emilia la grande protagonista della scrittura di Tondelli e in particolare di Altri libertini. E vale la pena di insistere su questo aspetto perché le pagine di quel libro nella loro capacità di far parlare, a partire dai luoghi, singolarità e collettività, sanno mostrarci qualcosa che forse non è stato ancora visto del tutto, e meno ancora studiato, vale a dire la narratività tutta particolare legata allo spazio emiliano – che non ha niente a che fare con il folklore o con un concetto consumistico di popolare – e che qui si può intanto fissare almeno in due costanti che sembrano tornare in quasi tutti gli autori, non solo letterari, legati alle finzioni che abitano quegli spazi. E dunque: il senso dell’Emilia come spazio-tempo che si esprime attraverso un vissuto fatto di un’“erranza” nervosa, che si esprime nei passaggi da un luogo all’altro, nella percorrenza veloce delle strade, in notturna, secondo un’idea di esistenza come movimento in territori “fuori campo” che il linguaggio artistico restituisce alla parola e alla visione; idea che unisce, per esempio, Tondelli, oltre che a Celati, a Ghirri, ai testi di Roberto “Freak” Antoni, a Vasco Rossi, a Paolo Nori, ai Wu Ming, a certo Cavazzoni, a Ligabue (ho fatto, deliberatamente, esempi sparsi, e molti altri ce ne sarebbero). Non siamo negli spazi di una deriva malinconica, ma di uno scarto vitale, espressivo. Come nell’attacco di Viaggio:

 

Notte raminga e fuggitiva lanciata veloce lungo le strade d’Emilia a spolmonare quel che ho dentro, notte solitaria e vagabonda a pensierare in auto verso la prateria, lasciare che le storie riempiano la testa che così poi si riposa, come stare sulle piazze a spiare la gente che passeggia e fa salotto e guarda in aria, tante fantasie una sopra e sotto all’altra, però non s’affatica nulla. Correre allora, la macchina va dove vuole, svolta su e giù dalla via Emilia incontro alle colline e alle montagne oppure verso i fiumi e le bonifiche e i canneti. Poi tra Reggio e Parma lasciare andare il tiramento di testa e provare a indovinare il numero dei bar, compresi quelli all’interno delle discoteche o dei dancing all’aperto ora che è agosto e hanno alzato persino le verande per godersi meglio le zanzare e il puzzo della campagna grassa e concimata (Al, p. 67). 

 

Che potrebbe essere l’attacco di una canzone di un autore emiliano, nel senso, certo, che i luoghi sono scenari dell’immaginario; ma anche nel senso, già esplorato nel primo paragrafo quando si commentava l’incipit di Postoristoro, di un’attitudine, che ricorre quasi fosse una costante, a far passare la voce e lo sguardo da una soggettività unica, solitaria, a un piano collettivo extraindividuale, dove chi parla e vede non è più una singola identità ma un vissuto dei luoghi: non un’anima magica, sia chiaro, ma storica, espressione dell’Emilia in quanto terra di lotte e esperienze in comune (si potrebbe dire lo stesso della Romagna, del resto), di canti delle mondine, di gente abituata a attivarsi e a raccontare per dire “insieme”. Come nelle ultime frasi del libro:

 

Con naso in aria fiutate il vento, stapazzate le nubi all’orizzonte, forza, è ora di partire, forza tutti insieme incontro all’avventuraaaaa! (Al, p. 195).

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Forza tutti insieme incontro all’avventuraaaaa!
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Franz Kafka, Tutto il Processo a Berlino

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Il 30 giugno, data esplicitamente non commemorativa (Kafka è nato il 3 luglio 1883 ed è morto il 3 giugno 1924), è stata inaugurata a Berlino una piccola mostra dedicata al Processo nel Martin Gropius Bau, un elegante edificio ottocentesco opera di un prozio di Walter Gropius, che contiene molteplici spazi espositivi e ospita contemporaneamente più mostre. Quella di Kafka occupa tre vani, uno centrale occupato quasi interamente da una lunga vetrina contenente le 171 pagine del manoscritto autografo del Processo, e due piccole sale laterali, una in cui sono esposte alcune fotografie e una raccolta delle prime edizioni del Processo uscite in vari paesi, l’altra adibita alla proiezione del film omonimo di Orson Wells del 1962.

 

Nonostante il minimalismo la mostra si intitola “Tutto il Processo”, alludendo evidentemente all’integrale esposizione del manoscritto. L‘apparato critico e informativo è scarno, ma mette subito il visitatore al corrente di una coincidenza storico geografica. Infatti a pochi passi dal Martin Gropius Bau si trovava l’albergo Askanischer Hof, in cui Kafka, il 12 luglio del 1914, si incontrò con Felice Bauer, da cui si era separato dopo un breve fidanzamento. A questo incontro parteciparono la sorella e un’amica di Felice, e Kafka, allora trentunenne, annotò nel suo diario di essersi sentito sottoposto a un vero e proprio “tribunale in albergo”(Gerichtshof im Hotel), a quello, insomma, che Elias Canetti, nel suo libro dedicato alle lettere di Kafka a Felice chiamerà “l’altro processo” (Der andere Prozess ,1968, pubblicato in Italia presso Guanda nel 2015 con il titolo L’altro Processo. Le lettere di Kafka a Felice, nella traduzione di A.Ceresa), un evento che non solo da Canetti viene messo in stretta relazione con la genesi del romanzo, scritto immediatamente dopo, tra i primi dell’agosto 1914 e una data non ben precisabile del 1915.

 

L’antico albergo Ascanischer Hof. 

Fonte: https://www.berlinerfestspiele.de/de/aktuell/festivals/gropiusbau/progra...


L’accento posto sulla vicinanza ai luoghi della biografia di Kafka allude già allo spirito evocativo e celebrativo della mostra. Come ha giustamente notato Andreas Kilb sull’autorevole pagina culturale della Frankfurter Allgemeine Zeitung, entrando nella sala si ha l’impressione di varcare la soglia di una cappella votiva nelle cui vetrine si conservino sacre reliquie. La luce fioca, l’ambiente dominato dell’esposizione del libro, una pagina accanto all’altra, come un rotolo della Torah, la devozione con cui i visitatori si chinano, o, bisognerebbe dire si inchinano, davanti alle teche, tutto contribuisce a creare l’impressione che non ci si trovi in un normale spazio espositivo, ma in un sacrario in cui si è chiamati a un deferente processo di decrittazione, aggravato dal fatto che i fogli autografi posso essere esposti solo a una luce di 35 Lux e che, appunto, per leggere, bisogna scomodamente piegarsi in due sulle vetrine.

 

Il manoscritto del Processo – Immagine della mostra. Fotografia: AFP/John Macdougall

Fonte: http://www.berliner-zeitung.de/27878944©2017

 

Ma che cosa si scopre decifrando le pagine del Processo? Innanzitutto che la scrittura è veloce ma chiara, che le correzioni sono poche, e che comunque le cancellature, anche là dove sono più frequenti, lasciano visibili i passi espunti. Salta poi agli occhi che alla terza persona riferita a Josef K., con una certa frequenza si sostituisce per errore o forse lapsus la prima, come accade esemplarmente nell’ultima scena, quella dell'esecuzione. E solo il confronto con il manoscritto rivela quanto Max Brod, primo curatore assoluto delle opere di Kafka, abbia manipolato gli originali, e quanto errori e lapsus possano rivelare. Come lui stesso spiega commentando la sua edizione del Processo, oltre a essere intervenuto sull’ordine dei capitoli, Max Brod ha corretto sviste e imprecisioni ascrivibili alla mancata revisione dell’opera o all’urgenza con la quale essa fu scritta. A questa stessa frettolosità Brod attribuisce il fatto che Kafka siglasse alcuni nomi, e quindi li corregge scrivendoli per esteso. Ma succede che, leggendo l’originale, si scopre che Fräulein Bürstner, la signorina Bürstner, è indicata con F.B., le stesse iniziali di Felice Bauer, indizio che conferma con assoluta evidenza l’importanza del “Gerichthofim Hotel” come nucleo generativo del romanzo e mette forse in dubbio la legittimità di alcuni interventi redazionali di Brod.

 

Tuttavia, non c’era bisogno di questa mostra per queste o altre rivelazioni, poiché il manoscritto originale non viene presentato al pubblico per la prima volta. L’esposizione berlinese è infatti una precisa replica di quella che nel 2013/14 ha avuto luogo al Literaturmuseum der Moderne di Marbach. Neanche le fotografie sono inedite, poiché provengono dalla collezione Wagenbach e sono quindi in massima parte inserite nel volume curato da Klaus Wagenbach nel 1983 Kafka. Bilder aus seinem Leben (e nello stesso anno pubblicato in Italia da Adelphi, ancora disponibile, con il titolo Kafka. Immagini della sua vita). E neanche può essere vero quanto sosteneva il quotidiano Berliner Zeitung con il titolo “Una mostra per germanisti”, e non solo perché il manoscritto del Processoè conservato in Germania nel Deutsches Literaturarchiv, l’archivio della letteratura tedesca di Marbach, ed è quindi accessibile a qualsiasi filologo, ma anche perché esso è stato fedelmente riprodotto in un’edizione critica, pubblicata da una piccola casa editrice, lo Stroemfeld Verlag, a cura di Roland Reuß, nel 1997. Questa casa editrice ha ottenuto dall’Archivo di Marbach il permesso di scannerizzare l’autografo del Processo per riprodurlo sul recto e sul verso di pagine facsimili, a cui è stata allegata una trascrizione diplomatica, che riporta dunque fedelmente le cancellature e correzioni presenti sull’autografo in una versione leggibile senza alcuna fatica.

 

L’edizione Stroemfeld

Fonte: https://lustauflesen.de/kafka-process-handschrift/

 

Questo pratico facsimile non entra del resto in concorrenza, nell’ambito della mostra, con l’esposizione dell’autografo, tanto che nella scarna scenografia della sala centrale sono affiancati alle vetrine due computer sui quali si può appunto consultare l’edizione Stroemfeld.

 

Lettura dell’edizione Stroemfeld al computer      © EPA

Fonte: http://www.faz.net/aktuell/feuilleton/buecher/themen/gropius-bau-zeigt-k...


L’edizione storico-critica Stroemfeld riproduce inoltre in fascicoli separati i capitoli del romanzo che, come è noto, non ha mai raggiunto una redazione definitiva e si presenta come una composizione di frammenti privi di una compiuta struttura narrativa, compresi fra il celebre inizio (“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato.”, nella traduzione di Primo Levi) e l’altrettanto celebre finale (“’Come un cane!’ disse e gli parve che la vergogna gli dovesse sopravvivere.”). Nella versione proposta da Roland Reuß, quindi, il lettore è invitato non solo a decifrare la scrittura di Kafka, ma anche ad assemblare le sequenze narrative del romanzo secondo un ordine che non deve coincidere con quello stabilito da Max Brod che, come primo e per lungo tempo unico curatore del romanzo, diede alle stampe il frammento già nel 1925, un anno dopo la morte di Kafka, e poi in seconda e terza edizione rispettivamente nel 1935 e nel 1946. Questo percorso di lettura è invece quello delle vetrine della mostra, che segue quindi la disposizione dei capitoli che Max Brod ha individuato seguendo, almeno in parte, le indicazioni più o meno esplicite di Kafka stesso.

 

La scelta di rispettare l’ordine brodiano può avere molte motivazioni, anche semplicemente di ordine pratico e consuetudinario, tuttavia la si potrebbe anche collegare all’alto valore testimoniale del manoscritto stesso e della storia della sua trasmissione, in cui Max Brod riveste un ruolo centrale. Non solo perché si rifiutò di distruggere il manoscritto, come gli era stato espressamente richiesto da Kafka, ma perché riuscì miracolosamente a metterlo in salvo, scappando in treno nel cuore di una notte del marzo 1939 da Praga, poche ora prima dell’invasione tedesca, portando con sé le carte che Kafka gli aveva consegnato, e raggiungendo infine, dopo un lungo viaggio, la Palestina. Ma questa storia rocambolesca non finisce qui ed è, anche in quel che segue, molto significativa, perché enfatizza il valore simbolico del romanzo per la cultura tedesca e spiega quindi la sacralizzazione dell’originale.

 

Infatti,in Israele, Max Brod lasciò gli autografi kafkiani in eredità alla sua segretaria e questa, negli anni ‘80, decise di cominciare a venderne alcuni. Nel 1987, per esempio, le lettere a Felice furono comprate all’asta da un anonimo acquirente privato, e da allora se ne sono perse le tracce. Quando nel 1988 l’autografo del Processo fu messo all’asta, venne mobilitata l’opinione pubblica tedesca e, grazie a una grande raccolta di fondi senza eguali nella storia della Repubblica Federale, a cui parteciparono oltre a istituiti e fondazioni, private e statali, anche moltissimi singoli donatori, si riuscì ad acquistarlo per l’Archivio di Marbach per una somma superiore al milione di sterline, corrispondente a circa 3,5 milioni di marchi, all’epoca la cifra più alta mai pagata per un manoscritto. E quindi solo dopo questa data fu possibile prendere visione del frammento originale del Processo, di cui fino ad allora si conoscevano solo le edizioni curate da Brod. La prima edizione critica del testo è datata infatti 1990, a cura di Malcolm Pasley.

 

Seconda pagina del manoscritto

Fonte: https://www.berlinerfestspiele.de/de/aktuell/festivals/gropiusbau/progra...


Se si pensa alla sterminata bibliografia sull’opera di Kafka, bisogna dire che, nella penombra della sala del Martin Gropius Bau, il confronto con il solo testo manoscritto, senza apparati storico critici, senza didascalie e tavole esplicative, consente un’esperienza assoluta e liberatoria di lettura. Kafka è l’autore di lingua tedesca più letto e sicuramente quello più studiato; la ricezione di Kafka è stata in Germania un fenomeno di ampissime dimensioni, e nel suo contesto il Processo, anche in quanto scrittura profetica di un autore ebreo, ha ricoperto sempre un posto privilegiato. La rinuncia quasi integrale a commenti interpretativi, che lascia il visitatore a tu per tu con queste pagine salvate dalla devastazione della storia, costituisce dunque il vero fascino della mostra berlinese. Se nella parabola “Davanti alla legge”, che non a caso Orson Wells antepone al suo film in forma di apologo illustrato, il sacerdote nel Duomo avverte Josef K. che “la scrittura (ma la parola tedesca Schrift significaanche ‘le sacre scritture’) è immutabile” e che le “interpretazioni (Meinung può voler dire‘opinione’, ma anche “significato di una storia”) sono spesso un’espressione della disperazione di fronte alla sua immutabilità”, (Die Schrift ist unveränderlich und die Meinungen sind oft nur ein Ausdruck der Verzweiflung darüber.“), bene, questa mostra rinuncia ad esse, per porci davanti alla forza evocativa dell’oggetto testimonianza, in quanto unicum avvolto da quella che Walter Benjamin avrebbe definito la sua aura, segno dell’autenticità dell’opera e del suo immutabile contenuto di verità.

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La rocambolesca storia di un manoscritto
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Michael Ackerman. Watermark

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Le immagini di Michael Ackerman esposte alla Leica Galerie sembrano le pagine di un album, una mappa silenziosa. Ricordano l’atlante di Aby Warburg, sono istantanee di “forme” del pathos. Molte non hanno cornice, stanno semplicemente sospese. È lo sguardo dello spettatore che deve generare un riquadro, che cerca, nel loro silenzio, nello spazio indefinito in cui si perdono, di creare una narrazione che le tenga legate. Alcune sono puntate con degli spilli, altre disposte intorno a un’immagine centrale, da cui si parte e a cui si torna dopo aver percorso un cerchio con lo sguardo, come quando si ruota la testa, la si muove, e ad occhi chiusi si cerca di ricordare qualcosa che in quel momento sembra perdersi in un tempo fuori dal tempo stesso. 

 

Forse Michael Ackerman vuole suggerire proprio questo: che lo sguardo si perda nelle forme, che il disorientamento sia la condizione ideale in cui ogni sguardo può davvero incontrare la propria forma. O forse è anche paradossalmente il tentativo di narrare la forma stessa del disorientamento, la possibilità di perdersi in uno spazio dentro la propria esistenza, poiché qui l’immagine fotografica riesce davvero a possedere un’esistenza a sé, che conduce a una visione dove il tempo, come lo spazio, non è lineare. “È un’interruzione nel corso naturale delle cose” racconta il fotografo, “e modifica l’esperienza. Addirittura ti scollega, ti allontana. O forse ti fa vivere l’esperienza più profondamente”. E il titolo lo fa intuire. 

 

 

“Watermark” significa segno lasciato dall’acqua. Corrisponde a ciò che non è “a fuoco”, a ciò che è labile, fluido, evanescente, una presenza eterea che talvolta pare incorporea. Potrebbe essere la scia che attraversa una sequenza di quattro immagini con una bimba che abbraccia la madre, la luce che scivola sul viso di una bambina sdraiata sul letto, l’insieme di cerchi concentrici generati dal corpo della stessa bambina, che si immerge in uno specchio d’acqua avvolta dalla luce. 

 

E cosa significa? La natura “fluida della verità”, ovvero che la realtà può essere ellittica, errante, oscillante. Un universo in grado di eludere le aspettative dell’interpretazione, delle sue griglie rigide, ma nello stesso tempo suscitare il desiderio di decifrare ciò che appare in tutta la sua inafferrabilità e leggerezza, come se queste immagini fossero costituite da pochi versi poetici, che trasmettono vulnerabilità e passione. 

E come riesce il fotografo a generare questo paradosso? Attraverso un’azione che riflette l’essenza stessa del medium fotografico: mostrare più che narrare ciò che resta di quello che viviamo, ciò che scompare e rimane solo nelle forme immateriali della memoria: l’idea di assenza. “Volevo eliminare il contesto, ottenere un certo tipo di vuoto” rivela il fotografo, “volevo sfuggire alle trappole della realtà, senza perdere il legame con il reale. Secondo me la fotografia è inscindibile dall’assenza. È da qui che nasce il bisogno di afferrare ciò che non hai”. 

 


E “ciò che non hai” è tutto ciò che sta dinnanzi agli occhi di chi guarda ed è difficile da capire. Per questo il passo successivo è quello di entrare nelle immagini come se fossero stanze e lasciarsi avvolgere dal loro vuoto, da quello che Genet, ricorda il fotografo, definiva “l’impossibile nulla” e che Ackerman chiama la “purezza impossibile”. È questo il mistero delle sue immagini: alleggerire le forme, permettere che qualcosa di indefinito circoli in esse, riuscire a guardare dentro ciò che è ignoto, come accade per la forma del frammento, che indica gli spazi e i silenzi tra le cose.

 

Ogni soggetto pare che abbia bisogno di essere portato oltre, di spingersi lontano dalla realtà, tanto che paradossalmente quest’ultima si spinge oltre se stessa. Così nello spazio espositivo non sorprende di trovare, accostate ad altre immagini, i volti di Anna Frank e del fotografo Robert Frank, come frammenti di esistenza, di ricordi di esperienza, che convivono accanto a tutti gli altri. E nonostante questo sembra che per Ackerman sia fondamentale creare il vuoto, per far scomparire gli stereotipi e per portare ciò che si guarda a una nudità che permetta di aprire lo spazio a qualcosa d’altro e consenta di assumere su di sé, trasformare in esperienza personale, ciò che appare nelle sue immagini, come accade in altre sue opere.

 

Michael Ackerman nasce a Tel Aviv nel 1967. Nel 1974 emigra a New York. Tra il 1993 e il 1997 viaggia spesso in India e le fotografie qui scattate sono oggetto del suo primo libro End Time City (Delpire, 1999), che ottiene il Prix Nadar. Nel 1998 gli viene conferito il prestigioso “Infinity Award for Young Photographer” dall’Icp di New York. Da allora ha esposto in numerose città, sia in Europa sia negli Stati Uniti.

 

 

Le immagini racchiuse nel suo libro Half Life mostrano New York, L'Avana, Berlino, Napoli, Parigi. Nel 1998 viaggia attraverso la Polonia dove si trasferisce per brevi periodi dell’anno fotografando Cracovia, Auschwitz, Varsavia e Katowice, ma i luoghi non sono riconoscibili. Nel 2000 le fotografie tratte dal suo lavoro Smoke, scattate a Cabbagetown, alla periferia di Atlanta, vengono utilizzate nel film di Jem Cohen e Peter Sillen intitolato Benjamin Smoke, dedicato a Benjamin, voce solista dell’omonimo gruppo Smoke. 

 

Così il segno dell’acqua sta ovunque, e il suo mistero, sempre sul punto di scomparire come le apparizioni, si sposta insieme al nostro sguardo: cade nell’immagine, si sovrappone ad essa, diviene l’immagine stessa, apre una breccia nella continuità delle cose. E infine fa in modo che ciascuno di noi si chieda ciò che ci attira maggiormente: la volontà di sapere o il desiderio di credere e abbandonarsi alle immagini che abbiamo di fronte ai nostri occhi? Una cosa è certa: le fotografie di Ackerman “restano, resistono, esistono”. E disorientano. 

 

Mostra: “Watermark” di Michael Ackerman, a cura di Claudio Composti, Leica Galerie & Store Milano, Via Giuseppe Mengoni, 4 in collaborazione con mc2gallery, dal 25 Luglio 2017 al 16 Settembre 2017. 

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The Ballad of Sexual Dependency

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“È il diario che voglio che la gente legga”, afferma la fotografa Nan Goldin. “È opinione comune che il fotografo sia per natura un voyeur, l’imbucato alla festa. Ma io non sono pazza. Questa è la mia festa. Questa è la mia famiglia, la mia storia”. Il diario ha un titolo: The Ballad of Sexual Dependency ed è composto da una proiezione di fotografie, che si è modificata nel corso del tempo, al cui centro viene posta la questione del vivere e dell’agire: i rischi, l’imprevedibilità, l’innocenza, l’indifferenza, il coinvolgimento, la passione.

I protagonisti sono gli amici della fotografa: la scrittrice ed attrice Cookie Mueller, il marito Vittorio Scarpati, entrambi morti di Aids a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, Trixie, che sembra una ragazzina, mentre fuma con il viso sconvolto e un abito a fiori, Brian l’uomo violento da cui è irresistibilmente attratta, Susan, in treno e in bagno, e poi i momenti in cui essi si divertono, fanno l’amore, litigano, si drogano, muoiono. 

 

Nan Goldin, Trixie on the cot, New York City 1979© Nan Goldin.


 

Nan Goldin, Twisting at my birthday party, New York City 1980 © Nan Goldin.


Ciò che la induce a scattare sono i sentimenti: amicizia, amore, attrazione fisica, che spostano il limite dell’immagine “dentro” il suo mondo e ridisegnano i confini di ciò che possiamo considerare un soggetto visivo credibile. L’impressione è che tutto ciò che esiste al di fuori sia completamente irrilevante. Chi guarda le immagini comprende che non può esserci nessuna aspettativa se non il soggetto colto nella sua purezza di referente: Cookie è Cookie, con il suo abito da sposa e gli occhi perennemente truccati di nero, è il suo essere indecifrabile, sofferente, innamorata. O meglio Cookie è una fotografia. Essa rappresenta “la scena stessa, il reale preso alla lettera”, anche se vi è indubbiamente una riduzione di proporzione e prospettiva. E anche se l’immagine non è il reale, essa è quanto meno ciò che Roland Barthes definisce l’analogon perfetto, ovvero la “perfezione analogica”, “un messaggio senza codice”, e di conseguenza un “messaggio continuo”. Le parole di Nan Goldin lo confermano: “la fotocamera è parte della mia vita quotidiana come parlare, mangiare o il sesso”. Vita e fotografia coincidono anche nella scelta di usare il colore: nulla è statico e tutto è inafferrabile. La slideshow con la colonna sonora ne è la perfetta sintesi: non è propriamente fotografia e non è nemmeno cinema, ma evoca entrambe le esperienze. Inoltre la musica disloca il senso nell’immediata referenza della suggestione fonica: la melodia, l’intensità, la durata, la quantità, le pause dettano il ritmo della Ballad e ne caratterizzano lo stile con cui la fotografa vuole conseguire un effetto di realtà, come avviene con le immagini di situazioni che consideriamo traumatiche. 

 

Poiché il trauma dipende dalla certezza che la scena abbia veramente avuto luogo o, per dirla nuovamente con le parole di Roland Barthes, “più il trauma è diretto, più la connotazione è difficile”, “nessuna categorizzazione verbale può aver presa sul processo istituzionale della significazione”. Ed è vero: è difficile dire di più delle sue immagini di quel che vediamo in esse. 

Per questo ci si chiede cos’è la dipendenza sessuale di cui parla l’artista. “Lo voglia o no, non sfugge alla sua sorte: la schiavitù sessuale è la più forte”, recita con un senso di ineluttabilità l’omonima ballata inclusa nell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht, alle cui parole si è ispirata la fotografa. Cosa resta oltre il suo autoritratto dal volto rigonfio, dopo essere stata violentemente percossa dal suo amante, o al di là della fotografia di un corpo con un livido a forma di cuore impresso sulla coscia? Resta la dipendenza da ciò che sembra essere perennemente vivo nella sua imperfezione. Tutte le immagini sono momenti di questa consapevolezza. Non c’è alcuno sfasamento tra la forma e la realtà. Le fotografie e il loro fluire contengono ciò che è inevitabile da riconoscere nella sua effettività, ciò che è empiricamente certo e legato alla libertà che alle immagini, dinnanzi ai nostri occhi, attribuisce attrazione o repulsione. 

 

Nan Goldin, Couple in bed, Chicago 1977 © Nan Goldin.


La Balladè tutto questo: il ritmo di una feroce intimità che resiste nella sua consistenza dinnanzi agli occhi di tutti, completamene esposta, al di là del tempo che scorre e consuma le cose. Essa suggerisce la certezza che il gesto della creazione può davvero colmare il vuoto della perdita. È l’eccesso della vita che si oppone al nulla. Non conta se le immagini sono mosse, sfocate, imperfette. La passione non è disordine? La vita di Nan Goldin ha questa forma ed è una forma sfatta e disperata, che riesce a tenere il nostro sguardo aderente ai volti e ai luoghi raffigurati, nello stesso modo in cui è accaduto a lei. Il suo è un modo di fotografare che ha aperto il vissuto della quotidianità e dell’eccesso e li ha trasformati in relazione, passaggio, contatto. La fotografia diventa una forma di esperienza, si potrebbe dire l’esperienza diretta dell’“originale”. Anche noi siamo dentro l’immagine: guardiamo il mare a Coney Island, siamo seduti sulle panchine in Tompkins Square Park, ammiriamo dall’alto i tetti di Bowery. E poi siamo a Boston, Merida, Londra, Monaco, Berlino travolti in una ballata, un flusso ininterrotto di fotografie, la storia di una vita: quella di Nan Goldin. 

 

Nan Goldin, The Hug, NYC 1980 © Nan Goldin.

 

Fin dai primi anni Settanta essa documenta ogni aspetto della propria esistenza e di quella dei suoi amici più cari. Le sue prime foto scattate a vent’anni, erano una serie di immagini intitolata Drag Queens, che ritraevano la cerchia di amici di due drag queen con cui lei viveva. Nel 1978 la fotografa si trasferisce nella Lower East Side di Manhattan e continua a fotografare gli amici e gli artisti che frequenta. Essa racconta che una delle prime volte in cui viene proiettata la Balladè in occasione del compleanno di Frank Zappa in un night club a New York nel 1979 e il pubblico è costituito per la maggior parte dagli amici fotografati. L’ultima volta che è stata in Italia risale al 1986, quando ha proiettato la Ballad al Plastic di Milano.

Nel 1985, l’inclusione alla Whitney Biennial a New York, segna il primo interessamento istituzionale di rilievo nei confronti del suo lavoro e la pubblicazione l’anno seguente del suo primo libro The Ballad of Sexual Dependency. Nel saggio introduttivo Nan Goldin racconta della sua infanzia, della voglia di fuggire, del suicidio della sorella a cui era molto legata e alla quale è dedicata la Ballad. Rievoca la storia del suo amore per Brian, il cattivo ragazzo “on the Bowery roof”, delle violenze da lui subite, della dipendenza dal suo corpo. 

 

Eppure non vi è nessuna nostalgia. Non si torna indietro perché tutto vive, tutto è nelle fotografie. “Se ogni immagine è una storia, allora l'accumulazione di queste immagini si avvicina all'esperienza della memoria”, afferma la fotografa. “È una storia senza fine". Per questo ognuna delle sue immagini non rappresenta il passato, ma molto di più: uno stralcio di ciò che potremo continuare a vedere nel suo infinito presente. Come dice una delle canzoni della colonna sonora: “I’ll be your mirror”.

 

Mostra: Nan Goldin, The Ballad of Sexual Dependency, a cura di François Hébel, presso La Triennale di Milano, dal 19 settembre al 26 novembre 2017.

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Che Guevara cinquant'anni dopo

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La morte di Che Guevara coincide per noi con la fotografia di Freddy Alborta che ritrae il suo corpo tra soldati, ufficiali, fotografi . È una foto-icona, si dice, e come tale è diventata celebre: è finita, ad esempio, sul Lodger Album di David Bowie (1979), oppure è stata parodiata (Zbigniew Libera, Che. Next Picture, 2003).

 

 

Non fu questa la foto distribuita alla stampa internazionale, almeno in un primo momento, ma un’altra presa più da vicino, con solo tre personaggi attorno al morto: un tecnico, un signore con macchina fotografica al collo, un ufficiale con un fazzoletto sul naso. In Italia, sulla prima pagina della “Stampa” (12 ottobre) ne compare un’altra, scattata da questo secondo fotografo, qualche istante dopo (i tre astanti vengono tagliati). Poi c’è una serie di fotografie – in bianco e nero o a colori, e di qualità diversa – che ebbero minore diffusione. 

Lo scatto di Alborta e tutti gli altri non sono documenti della morte del Che, ma di uno spettacolo organizzato dai militari boliviani la sera del 9 ottobre 1967. Se si riesce a ricostruirne lo svolgimento, si riesce anche a comprendere le fotografie e, soprattutto, si riesce a cogliere la loro trasformazione in immagini speciali, se si vuole, in “icone”. Bisogna sommare, oltre alle stesse foto, alcuni filmati, efficaci nonostante la modesta qualità, e i ricordi di qualche testimone (lo stesso Alborta in un documentario di Leandro Katz, El dia que me quieras).

 

 

 

Un elicottero arriva da La Higuera con il cadavere di Che Guevara. Quando il corpo viene portato dalla pista di atterraggio all’ospedale di Nuestra Señora de Malta a Vallegrande, la gente è già assiepata lungo la pista di atterraggio e, poco dopo, fuori dall’ospedale. Ci sono già dei fotografi. Qualcuno scatta una foto alla barella con alcuni militari in posa: il braccio sinistro del Che oscilla verso terra. Non c’è immagine del trasporto di un morto – dai sarcofagi romani con Meleagro, alle Vittime del lavoro di Vincenzo Vela (1882) – in cui manchi questo dettaglio; alcuni storici dell’arte, per questo, lo hanno chiamato “braccio della morte”.

 

 

La lavanderia dell’ospedale è un piccolo edificio a sé; non ci sono porte, ma un solo largo ingresso con un pilastro al centro; il pavimento è piuttosto rialzato e per entrare bisogna superare un gradino. Lo stanzone – intonacato d’azzurro – è vuoto, c’è solamente una scala a pioli, in un angolo.

 

Ecco che la barella viene deposta sul lavatoio in cemento; al rubinetto è collegato un tubo di gomma a strisce sottili. In questo momento Guevara è scalzo, ma ancora vestito; uno in camice bianco e con guanti di plastica (un medico o un infermiere) scioglie le corde che tenevano stretta la testa alla barella, evidentemente la si vuole alzare per mostrarla meglio ai fotografi che stanno arrivando; a questo scopo si appoggia un quadrello di legno alla barella. Secondo Richard Gott, un testimone, i medici cercano di iniettare formalina. C’è confusione e un continuo andirivieni di persone diverse, militari soprattutto.

Un uomo in camicia bianca e cravatta gli slaccia i bottoni, si ferma un attimo per togliersi l’orologio, nel frattempo altri due tagliano le corde che tenevano stretti i polsi, gli tolgono la giacca; l’uomo in camice e guanti armeggia ancora attorno al petto, aiutato da un altro che tira fuori un oggetto metallico (un paio di forbici?). Adesso il braccio sinistro ricade appena entro una delle vasche, semicoperto dalla camicia, vicino a un recipiente cilindrico che nessuno si cura di spostare; l’altro braccio viene appoggiato al bordo del lavatoio.

 

Un piccolo aereo bianco ha fatto sbarcare fotografi e giornalisti, alcuni con una cinepresa in mano; un giornalista ha un magnetofono professionale e le cuffie. Strette di mano coi militari.

La gente comincia ad avvicinarsi alla lavanderia, ma ancora non vengono fatti entrare; riescono comunque a intravvedere il fianco destro del Che. Gettati lì a terra sotto il lavatoio e verso l’ingresso, due cadaveri di guerriglieri. I fotografi però possono entrare e hanno una certa libertà di movimento. Uno dei fotografi (René Cadima) è salito sulla struttura di cemento e, mettendo i piedi da una parte e dall’altra, scatta fotografie dall’alto. 

 

 

 

Stanno per arrivare gli alti ufficiali; entra anche uno dell’equipaggio dell’aereo, fumando.

 


Un altro fotografo prende la scala a pioli che era sulla parete dietro alla testa del Che, la porta sul lato opposto e vi sale riprendendo la scena dall’alto.

 

 

Inizia la conferenza stampa, a quanto pare in più tempi. Un ufficiale, in un filmato, dichiara che è stato un gioco da ragazzi prendere i guerriglieri. Poi entrano in scena gli alti ufficiali che si posizionano attorno al volto del Che. Questo è il punto chiave, tanto è vero che il quadrello di legno sotto alla sua testa in alcune foto è orizzontale, in altre è verticale, così da rialzarla per bene. 

Nel frattempo nessuno ha chiuso gli occhi di Guevara (non si può fare, sarebbe gesto di pietà), e anche la bocca leggermente aperta lascia intravvedere i denti. Nessuno sposta il barattolo cilindrico accanto alla testa. I fotografi e i cineoperatori si spostano a loro piacimento, dopo tutto sono loro gli ospiti d’onore.

 

 

Adesso è ora di portar via i cadaveri dei due guerriglieri coi loro stracci. Sta per cominciare il secondo atto: la sfilata dei visitatori. Anche il barattolo sparisce e viene staccata dal rubinetto la gomma rossa e nera. Cominciano alcuni soldati, che si fanno fotografare imbracciando minacciosi i loro fucili. Poi, pian piano, alla presenza di alcune guardie, uomini e donne del paese vengono fatti entrare e girano attorno al lavatoio; un’anziana vestita di nero e con un canestro di vimini sotto braccio; due donne ben vestite, con fazzoletti bianchi in mano o premuti sulla bocca; alcuni ragazzini e qualche bambina che si porta una mano alla gota (la commozione porta con sé gesti millenari). Sfilano anche due signori eleganti, con un cappello in testa; quello con gli occhiali da sole tiene una sigaretta accesa in mano e porta la sinistra al fianco come in una passeggiata qualsiasi; l’altro preme un fazzoletto sulla bocca: non è commozione, è l’odore della formalina.

 

 

 

Qualcuno ha recuperato la pagina di un rotocalco e la mostra accanto al volto di Guevara, con l’intenzione di verificare le somiglianze e accertare l’identità (questo è il principale obiettivo della convocazione dei giornalisti).

 

 

La foto di Alborta viene spesso collegata a un celebre dipinto rinascimentale, il Cristo in scurto (in scorcio) di Andrea Mantegna, oggi nella Pinacoteca di Brera a Milano; alla morte di Mantegna (1506), il quadro venne chiamato così dal redattore che stava facendo l’inventario degli oggetti rimasti in casa; era ancora lì, forse perché il pittore l’aveva eseguito per sé, anni prima. È singolare come questo collegamento Che Guevara-Cristo in scurto sia diventato un luogo comune, e come tutti i luoghi comuni non abbia una paternità: lo proclamano così, come un dato di natura, decine di blog, lo storico dell’arte che “l’ha detto per primo”, professori di liceo, giornalisti; la coppia di immagini è presente persino nel Lodger Album di Bowie. Si ragiona di archetipi, di fili misteriosi che collegano opere a distanza di secoli, del fotografo che si ispira al pittore rinascimentale. Tutti (implicitamente) a dire che è un accostamento ovvio e sacrosanto. Invece, questo luogo comune ha un padre, John Berger, che scrisse un breve saggio pochi giorni dopo la morte di Guevara (Che Guevara dead, tradotto in Capire una fotografia, 2014).

 

Il discorso di Berger, per la verità, parte dalla foto in cui l’ufficiale preme il fazzoletto sul naso: non sono tanto le foto, quanto la situazione reale a suggerire il rimando alla pittura. Prima di tutto Berger chiama in causa un altro dipinto, la Lezione di anatomia del dottor Tulp di Rembrandt: anche qui un cadavere, il dottore che dà spiegazioni, gli astanti. Berger scrive poi che la foto gli ha ricordato anche il Cristo di Mantegna per le analogie nella posizione del corpo e nell’espressione del volto; analogie non soprendenti, visto che “there are not so many ways of laying out the criminal dead” e, si potrebbe aggiungere, non ci sono molti modi per accostarsi a una persona morta. Detto altrimenti, qualunque corpo sistemato dopo un’esecuzione capitale potrebbe essere accostato al quadro di Mantegna (c’è chi ha voluto citare invece il Cristo morto di Hans Holbein il Giovane o quello di Philippe de Champaigne). 

Il luogo comune Che Guevara-Cristo in scurto funziona proprio grazie ad analogie sul piano della realtà: dettagli come i capelli lunghi e la barba, per non parlare dei piedi scalzi, del petto e delle braccia scoperte per mostrare le ferite mortali. In altre parole, il trait d’union non è tanto tra fotografie e pittura, ma tra quest’ultima e la scena allestita nella lavanderia.

Oltre a ciò, lo spettatore occidentale (tanto più chi simpatizzi con le idee di Guevara) è portato a mettere in parallelo Gesù e il rivoluzionario argentino, tanto nel percorso umano come nella morte. Il confronto fu immediato: secondo René Cadima (uno dei fotografi) alcune donne del posto dissero che Guevara sembrava Gesù; a Jon Lee Anderson, biografo di Guevara, recatosi a Vallegrande trent’anni dopo, alcuni riferirono che le suore dell’ospedale erano rimaste impressionate da questa somiglianza. (Si può scommettere che se fosse stata diffusa una foto coi due guerriglieri uccisi col Che, ma posti sotto di lui, qualcuno avrebbe fatto il parallelo coi due ladroni della crocifissione). 

Davanti a un’immagine usiamo volentieri la metafora della “lettura”, ma non c’è proprio niente da leggere: c’è da associare. L’addetto ai lavori chiama in causa altre immagini (o oggetti, avvenimenti, idee) quando vuole spiegare un soggetto, quando cerca di riconoscere la mano di un artista, quando stabilisce giudizi di valore. Nella vita normale associamo a una data immagine le nostre esperienze concrete, le cose che conosciamo meglio, altre immagini ancora (e non ci impegniamo in nessuna filologia). Per l’esperto la concatenzione associativa si snoda seguendo regole precise, per i non addetti ai lavori scorre liberamente. Il lavatoio in cemento su cui riposa il Che potrebbe ricordare a qualcuno i grandi cassoni in pietra entro cui viene calato Gesù in alcuni quadri rinascimentali. Oppure, la nudità del corpo di Guevara potrebbe richiamare certe morti di eroi (greci o moderni) nella pittura neoclassica.

 

Solo in apparenza è un’ovvietà dire che la forza evocativa della foto di Alborta (e delle altre scattate in quei momenti) proviene dalla situazione creata nella lavanderia. Di queste foto, i militari boliviani sono committenti e sceneggiatori al tempo stesso. Essi hanno costruito un vero e proprio spettacolo: il riconoscimento pubblico e ufficiale del nemico sconfitto. Da dove viene la sua tinta arcaica? Hanno organizzato un’esposizione pubblica del corpo del Che, seguendo la prassi non scritta che regolava i funerali nelle società antiche (Grecia compresa): si sistema il cadavere per renderlo ben visibile, si chiamano vicini e paesani, lo si compiange ritualmente.

A Vallegrande manca del tutto il compianto (perlomeno quello ufficiale), in compenso si introduce l’elemento teatrale. I militari potevano decidere di mettere alla ribalta il solo cadavere di Guevara; invece inseriscono anche un variegato gruppo di ufficiali, soldati, collaboratori; a un bel momento fanno entrare in scena anche gli abitanti del paese, in una sorta di agnizione obbligatoria. 

È a questo punto che nella liturgia predisposta dall’esercito boliviano fanno il loro ingresso le immagini, col risultato inatteso di ribaltare il programma di teatro. Come scrisse Susan Sontag (anche a proposito di quella di Alborta): “la fotografia abbellisce qualsiasi cosa”. Le immagini fotografiche di Vallegrande mantengono lo status di documento storico, ma acquistano il potere, come abbiamo visto, di far scorrere piani diversi di associazioni. Escono dal contesto originario ed entrano nel nostro silenzio, trasformandosi in oggetti che risuonano. Il versante puramente dimostrativo delle mosse dei militari scivola via e scompare, lasciando il posto al nostro bisogno-desiderio di concatenare forme e cose.

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9 ottobre 1967
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Aspettando Godot a Tokyo

Che “icona”

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Che cosa trasforma un’immagine, per esempio un dipinto, in un’icona? 

La Gioconda di Leonardo da Vinci è un’icona, la Primavera di Botticelli, il Cristo di Mantegna. Insomma, un dipinto, un’opera che per scelta e tradizione viene indicato come esempio alto di un’arte e come tale è poi universalmente riconosciuto come icona di quell’arte.

Ma che succede con una fotografia?

Il vocabolario Devoto Oli per quanto riguarda il terreno che ci interessa recita: nel linguaggio dei semiologi, messaggio affidato all'immagine. E poi aggiunge, come esempio: figura emblematica o altamente rappresentativa: Mick Jagger è l'icona del rock anni Sessanta.

Insomma, anche un personaggio, collegato a un’immagine, che universalmente viene riconosciuto come un’icona del suo tempo nella sua vicenda personale e storica.

 

Nessuna fotografia nasce icona. Icona, un’immagine lo diventa. Per essere tale deve essere universalmente riconosciuta, e questo accade per le ragioni più disparate. 

Io penso che sia proprio questo il punto: non si conosce un’icona, la si riconosce.

La fotografia del miliziano di Robert Capa è diventata un’icona della guerra civile spagnola. La ragione sta ovviamente nel fatto che quell’immagine è stata vista, riconosciuta come emblematica, simbolica di quell’evento capitale della storia del ventesimo secolo. Ma io credo che questa spiegazione non basti. Sono convinto che se alle spalle di quella fotografia, assurdamente discussa e anche contestata per decenni, non ci fosse stato il grande dipinto di Goya che rappresenta una fucilazione, non avrebbe avuto la stessa forza di riconoscibilità. 

 

Icona a sua volta il dipinto di Goya. Stessa situazione, stesso gesto: le braccia spalancate nel momento della morte. Potente rappresentazione della violenza e tragedia della guerra, di tutte le guerre.

Insomma, una fotografia può diventare iconica anche per il suo retroterra iconografico.

Ma non soltanto. Può diventarlo per accumulo di fatti storici che si sedimentano nell’immagine. Il mio amico e bravissimo fotografo, Tony Gentile, autore di una grande icona fotografica italiana contemporanea, l’immagine di Falcone e Borsellino che parlano con complice confidenza e ironia, racconta che nel periodo in cui l’aveva scattata quella fotografia non colpì particolarmente, nessuno la voleva.

 

Poi Falcone fu assassinato dalla mafia. Ma non è bastato. Hanno dovuto ammazzare anche Borsellino perché quella immagine si trasformasse in icona delle vittime della giustizia e della lotta contro il male.

Un’icona italiana, comunque; non credo che negli Stati Uniti o in Inghilterra abbia la stessa forza evocativa che ha per noi.

In questo caso è la storia che trasforma l’immagine, anche se, a volere cercare un retroterra iconografico, il dettaglio del dipinto di Raffello dei due angiolotti che parlano complici, infinitamente riprodotto, potrebbe magari inconsciamente avere aiutato la sua riconoscibilità aggiungendovi il crisma dell’innocenza.

Famosissima icona è anche la fotografia in primo piano di Albert Einstein che tira fuori la lingua. In questo caso è l’alone di leggenda che precedeva lo scienziato, accompagnato dalla fama di uomo intelligentissimo, libero e non convenzionale, che ha fatto da retroterra per la trasformazione di quel ritratto impertinente in icona.

Ma veniamo a Che Guevara. 

 

Ph Alberto Korda.


Che Guevara, viene ripetuto, è nell’immaginario collettivo mondiale il Garibaldi del nostro tempo. 

Nel mondo intero, non solo in Italia, sono innumerevoli le piazze al cui centro campeggia una statua di Garibaldi, l’Eroe dei due mondi. Qualcuno ha scritto che la corporazione degli scultori dovrebbe consacrargli una chiesa. Lo stesso destino non hanno certo avuto Cavour o Mazzini.

Il combattente per la libertà che poi si ritira a Caprera e non diventa l’uomo di potere che le sue imprese avrebbero potuto consacrare.

Che Guevara è eroe emblematico anche per questo. Non è diventato Fidel Castro. Dopo aver vinto a Cuba è ripartito per la Bolivia per continuare a combattere per la giustizia e la libertà degli uomini, e ci è morto. 

È l’eroe perfetto.

 

Guardiamo l’immagine di Alberto Korda che è diventata una delle più potenti e universali icone del nostro tempo. Perché?

Le ragioni storiche ci sono tutte. Ma la faccenda è più complessa. 

Esistono centinaia di fotografie di Che Guevara, perché proprio quella?

La storia ce l’ha raccontata lo stesso Alberto Korda. 

Un giorno Giangiacomo Feltrinelli si trova a Cuba e va nello studio di Korda. Cerca una fotografia del Che. Alberto lo ha fotografato molte volte. Gli mostra molte fotografie. Feltrinelli sceglie proprio quella. 

Non è la fotografia che conosciamo. Alberto l’ha scattata il 5 marzo del 1960 durante un funerale. Guevara era sul palco, il fotografo in basso. È da questa posizione che vede la postura monumentale del personaggio, occhio fiero e malinconico, che guarda lontano. 

L’eroe, ce l’ha insegnato Barthes, deve guardare lontano, verso il futuro collettivo. 

Alberto scatta. Ma la sua fotografia è orizzontale, a sinistra c’è un personaggio di profilo, a destra una pianta ornamentale. Il Che è al centro. 

 

Feltrinelli si porta via la fotografia e dopo un po’ di tempo decide di usarla per un manifesto. Ma nel manifesto non vediamo la stessa fotografia. L’immagine è stata tagliata, il personaggio a sinistra e la pianta sono scomparsi. Adesso è un primo piano verticale. Di quel manifesto vengono stampati migliaia di esemplari. Ma il successo è tale che presto diventano centinaia di migliaia, forse milioni. Non c’è circolo rivoluzionario, non c’è giovane impegnato dell’universo mondo che non l’attacchi nella propria camera. In questa forma viene riprodotto e copiato innumerevoli volte, in cartoline, libri, riviste, opuscoli, magliette, difficile stabilire quante.

 

Che cosa è successo? Che cosa ha fatto scattare questo successo a valanga?

La faccenda è stata analizzata molte volte. Il riferimento iconografico è evidente. Guevara ha i capelli alla “nazarena”, è visto dal basso, monumentalizzato. È il santo, addirittura il Cristo, la cui missione è stata quella di redimere gli uomini. Ma anche, se non soprattutto, quel taglio riconduce l’immagine alla riconoscibilità del santino, una forma che nel mondo cattolico ha rappresentato e diffuso per tanto tempo, soprattutto nell’immaginario infantile, popolare, le immagini di Gesù e dei santi.

 Ma non solo nel mondo cattolico; basta guardare ai ritratti ufficiali dei dirigenti cinesi, qualche volta addirittura scontornati su fondo azzurro, e di moltissimi ritratti dei governanti del mondo.

Per Che Guevara si è poi aggiunta un’altra potente fotografia, quella che i militari boliviani hanno fatto fare a Camiri, dove il Che è stato ucciso. 

Se avessero avuto un po’ di cultura pittorica probabilmente non avrebbero fatto diffondere un’immagine così potentemente evocativa del dipinto del Cristo morto in forte visione prospettica di Mantegna che vediamo a Brera, per fortuna oggi restituito in una collocazione meno trivialmente consumistica.

Il cerchio è chiuso: due immagini entrambe cristiche, quella dell’eroe glorioso e pensoso e quello della sua “passione”.

 

A dimostrazione a posteriori della pertinenza di questa ricostruzione propongo il destino di un altro celebre ritratto di Che Guevara, fatto a Cuba da René Burri. Il Che in primo piano, con un grosso sigaro in bocca, lo sguardo trionfante, sarcastico. Il rivoluzionario che ha vinto. 

Fotografia giustamente celeberrima, ma che se pure è approdata anche lei alla gloria delle magliette non è mai assurta come l’altra al ruolo di icona universale.

Forse perché è una fotografia, un ritratto, incomparabilmente migliore di quello di Korda, ma troppo complesso, sia sul piano psicologico che formale. Troppo poco semplice e stereotipo per diventare una grande icona.

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Guido Guidi. Prendere contatto con le cose

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Guido Guidi (Cesena 1941) è tra i più importanti autori contemporanei. Come Luigi Ghirri ha
tracciato linee di ricerca del tutto inedite partendo dall’insegnamento di Paul Strand, ma anche
dalla letteratura, dall’arte di Piero della Francesca portandolo ad una metodologia di lavoro che si
basa sulla reiterazione dello sguardo. Lo abbiamo incontrato in occasione della mostra Paul Strand
e Cesare Zavattini. Un paese. La storia e l’eredità per Fotografia Europea 2017 a Reggio Emilia.

 

Agosto – settembre 2017

 

Laura Gasparini: Di recente Gianni Celati ha affermato che alla base delle ricerche Viaggio in Italia del 1984 e di Esplorazioni sulla via Emilia del 1986 c'era il concetto di “qualsiasità” di Zavattini. Tu, insieme a Luigi Ghirri, Olivo Barbieri e altri fotografi della tua generazione avete declinato questo aspetto del pensiero zavattiniano in modo del tutto originale. Potresti parlarmene dal tuo punto di vista?

Guido Guidi: 6 agosto 2017, ieri a cena, Vittore Fossati suggeriva, ironicamente, di sostituire il lessema “qualsiasità” col più attuale “qualunquemente”. Da parte mia propongo la sostituzione col pasoliniano “cose da nulla”. Dionigi l’Areopagita sosteneva che l’immagine di un lombrico, piuttosto che quella di un re, era più appropriata nel dare figura al Divino.

 

Per Zavattini la “qualsiasità”è la possibilità di trovare cose interessanti da dire in qualsiasi luogo ci si trovi.Quindi, il tema del viaggio, che ha caratterizzato la fotografia degli anni Ottanta, verrebbe a meno.

Tutto sommato non ho molte cose da dire, ma piuttosto molte cose da guardare, come suggerisce il Talmud: “Ovunque tu guardi c’è qualcosa da vedere”.

Negli anni Ottanta, svolgendo il lavoro sulla via Emilia, dopo aver percorso pochi kilometri dovevo tornare a casa perché avevo consumato tutte le pellicole. Percorrere anche cento metri è un viaggio, bisogna però togliersi di dosso i panni del turista per indossare quelli del pellegrino.

 

Spesso, nel descrivere il tuo lavoro, hai parlato di “accumulo democratico di tracce”. Potresti approfondire questo aspetto del tuo pensiero?

Non ricordo, forse mi riferivo a The democratic forest di William Eggleston. Mi riferivo al tentativo di eliminare le gerarchie fra gli elementi che compaiono nella inquadratura. Come dice John Szarkowski, “la fotografia nasce dai bordi” e non dal centro, come accade nella tradizione pittorica italiana. Forse è anche la natura del medium fotografico che mi spinge a occuparmi di cose ai margini, del diffuso, delle periferie urbane...temi peraltro colpevolmente trascurati dalla pittura dal novecento in poi.

 

Sei un autore dove il tempo e la precisione geometrica dell'inquadratura hanno un profondo valore espressivo, elementi che afferiscono ad una consolidata tradizione del vedere, del descrivere e non del narrare. È così?

Mi piace la parola “descrivere”. Da bambino mi piaceva lanciare sassi nel vuoto per “ascoltare” la “parabola” vertiginosa che descrivevano.

 

Il viaggio, ma anche il paesaggio, gli oggetti sono quindi un pretesto per riflettere sul linguaggio fotografico?

Strand diceva che un fotografo non può prescindere dalle cose che sono davanti alla macchina fotografica. Eseguire una fotografia è un atto devoto, una riflessione sull’atto stesso.

 

 

Penso che sia anche un atteggiamento di denuncia o quanto meno di presa di posizione: il rifiuto della eccezionalità, della bellezza, l'abbandono di un linguaggio formale e compositivo a favore di uno sguardo che privilegia l'indagine, l'osservazione della realtà nelle sue diverse stratificazioni sono una testimonianza del tuo impegno.

Credo di sì.

 

In una tua recente intervista in merito all'opera di Walker Evans hai affermato che apprezzi, del lavoro di Evans, la sua capacità di non mostrarsi. Trovo che anche in alcune tue ricerche ci sia questo aspetto. È così?

Quando fotografo possibilmente posiziono la mia camera all’ombra.

 

Se guardo il tuo lavoro, anche ricerche svolte in passato, trovo una costante e un'analogia spontanea che ricorda un certo sguardo di Paul Strand. In particolare le immagini di quella architettura della pianura padana che lui definiva “blanda” e di un paesaggio “lontano dal pittoresco”. Eppure da questa lettura di Strand della pianura padana è uscito un capolavoro che è Un paese,che ha influito molto sulla fotografia italiana e non solo.

Anche Cartier Bresson influenzò molto la fotografia italiana, ma l’influenza di Strand si è mostrata nel tempo molto più fondativa. Ho visto per la prima volta il libro Un paese nel 1966. Italo Zannier lo portò a scuola; ricordo il suo entusiasmo nel mostrarlo a noi studenti.

Poco dopo, con un colpo di fortuna, ne trovai una copia a metà prezzo, 2.000 lire. Da allora occupa un posto privilegiato nella mia libreria.

 

A proposito di Un paese e del rapporto tra immagine e scrittura, anche tu hai lavorato con uno scrittore, Vitaliano Trevisan. Nel realizzare Vol. I riprendi alcuni tuoi lavori degli anni Settanta “sugli spazi domestici come luoghi di luce e di ombre, sulla casa come camera oscura dell’esistenza. Un viaggio intorno alla tua stanza”. Potresti parlamene?

Evans, e in seguito anche Ghirri, hanno insistito sulla vicinanza della loro fotografia alla letteratura piuttosto che alle arti figurative.

Per me la fotografia appartiene alla sfera del non verbale.

Purtroppo dalle scuole elementari in avanti, il verbale prevarica sul visivo, il “logos” nella scala dei valori è posto più in alto della “icona”; non si insegna a guardare, si da per scontato che lo si impari attraverso l’esperienza funzionale, magari quella del guardare attentamente a destra e a sinistra quando attraversiamo la strada.

Ho guardato molto la pittura medioevale e del primo Rinascimento che, come tutti sanno, è il periodo in cui nasce la prospettiva. Daniel Arasse nota che la nascita della prospettiva coincide con un gran proliferare di Annunciazioni dipinte. Il paradosso, insiste Arasse, è come dare figura al mistero attraverso una rappresentazione razionale come quella prospettica. Allora, se fotografo una stanza vuota potrei immaginare che quella stanza o quella casa fosse un tempo della Madonna. Infatti, ancora oggi si dice “casa della Madonna” per dire una casa fuori dal comune. Forse la fotografia può metterci in presenza di una assenza, come la prospettiva poteva dar conto del mistero dell’Annunciazione.

 

Pensando ancora a Un paese, ma anche al tuo Vol. I, benché i presupposti progettuali siano differenti, ti chiedo perché mai un fotografo privilegi a volte di più le pagine di un libro che non l'esposizione delle proprie opere in una galleria?

È la sequenza che le pagine di un libro impongono al lettore? È il formato? È il fascino della carta?Probabilmente perché il libro è meno effimero e può raggiungere un pubblico più vasto. Nello scaffale può essere posto a fianco del saggio o del romanzo…

 

 

Alcuni esperti sostengono che il photobook funziona se il rapporto tra testo e immagini è in armonia o comunque risponde in qualche modo ad una precisa regia. È questo il segreto di un buon libro?

Detto che non mi sento per niente regista, ma piuttosto esecutore, non dobbiamo dimenticare però che anche una singola fotografia è un luogo attraverso cui pensare; un luogo che magari richiede e dovrebbe ottenere “la leggera lusinga della nostra completa attenzione”, come diceva Lincoln Kirstein delle fotografie di Evans. Un testo visivo non dovrebbe aver bisogno di essere aiutato o introdotto da un testo verbale.

“Bisogna tornare all’evidenza”, scrive Daniel Arasse, “in ogni tempo, il pittore e lo spettatore hanno usufruito delle possibilità dell’immagine di non essere testo, di non essere riducibile ad esso…”.

 

Zavattini affermò che Un paese era un film fattosi libro, ma anche per Gerry Badger, Martin Parr e John Gossage l''autore-fotografo è considerato come uno scrittore di un film, vale a dire il regista e lo sceneggiatore che con quella forma e quel linguaggio creano la propria opera. È curioso, vero, che da punti di vista differenti e da presupposti differenti, si sia arrivati alla stessa conclusione. Tu come te lo spieghi?

Sì, anche Strand aveva parlato di “film su carta” e anche io quando lavoro alla sequenza di un libro non posso fare altrimenti. Ma tutto sommato preferisco, quando è possibile, rispettare la sequenza cronologica eseguita sul campo e non lavorare sul montaggio a tavolino. Penso alla fotografia come interrogazione e non come comunicazione.

 

Ma torniamo al tuo lavoro, al tema del paesaggio, della strada. In una tua recente mostra dal titolo Per strada. Fotografie sulla statale 9 allestita per Fotografia Europea 2016 a Reggio Emilia dove hai esposto fotografie della via Emilia dal 1983 al 2000 hai affermato che la strada appunto, ma anche il paesaggio diventano dispositivi della visione. In pratica hai rovesciato l'idea del soggetto: il soggetto sei tu che fotografi, il tuo sguardo e non più quello che fotografi.

Non credo di aver detto questo, al massimo posso aver detto che in quanto “soggetto fotografo” mi approprio del soggetto fotografato.

Il soggetto-fotografato e il soggetto-autore dovrebbero darsi reciprocamente figura.

 

Per questa mostra hai avuto l'occasione di rivisitare il tuo archivio. Hai affermato che hai conservato tutto della tua attività, ma hai archiviato poco, perché non avevi tempo e perché pensavi che la memoria sarebbe stata sufficiente per orientarti. Oggi ti rendi conto che non è così. È com'è oggi il tuo archivio? È parte attiva del tuo lavoro, della tua progettazione o una volta che hai concluso un progetto non lo consulti più?

In realtà non ho conservato tutto. Per esempio ho perso i miei primi negativi degli anni Cinquanta e questo mi secca molto. Poi quando cerco qualcosa nel mio archivio a volte sono colto da scoramento. Purtroppo, preso dal fare, non ho avuto tempo da dedicare all’archivio e le istituzioni pubbliche, che dovrebbero intervenire per evitare che tutto si disperda, hanno altre priorità. 

 

Il tuo studio ospita anche una ricca biblioteca di libri fotografici. Puoi raccontarmi come si è formata e qual’è la caratteristica peculiare?

Ho cominciato negli anni Sessanta, e ancora di più negli anni Settanta, a farmi arrivare per posta libri di fotografia dagli Stati Uniti. Mi ero associato al museo George Eastman House di Rochester che spediva la rivista “Image” e un elenco di libri disponibili. Tra quelli sceglievo. Ero curioso, volevo vedere, conoscere. Avevo poche possibilità di viaggiare e non conoscevo la lingua inglese, ma guardando e riguardando semplicemente le “figure” i libri sono stati il mio nutrimento.

Per ciò che riguarda la caratteristica, come mi chiedi, …a parte i libri messi nello scaffale privilegiato, posso dirti del quasi totale disordine e mescolamento tra antico e contemporaneo, tra pittura, fotografia, letteratura, architettura... Devo dirti però che, con rammarico, da un po’ di tempo a questa parte ho quasi rinunciato a comprare libri perché mi sta crollando il pavimento.

 

Hai la passione del collezionismo? Collezioni fotografie di altri autori? In caso di risposta positiva, qual’è la motivazione che ti spinge a collezionare?

Cerco di conservare tutto, accatasto, ma non credo di avere lo spirito del collezionista. Evans dice che il fotografo è una sorta di collezionista. Non saprei, può darsi. Per me alla base c’è soprattutto il desiderio di prendere contatto col mondo, con le cose.

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Etica ed estetica al lavoro

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Quest’anno la rassegna “Foto Industria”, organizzata a promossa dalla Fondazione Mast, giunge alla terza edizione. A Bologna si possono vedere quattordici mostre nei palazzi storici più belli della città e il tema è il lavoro. Quali sono le aspettative che il nostro sguardo esige da altri sguardi? Stiamo osservando ciò che vediamo o ciò che vorremmo vedere? La risposta sta nelle parole che Alexander Rodchenko rivolge a se stesso verso la fine degli anni Venti: “Mi interessa a tal punto il futuro, che voglio vederlo subito, con qualche anno di anticipo”. Le aspettative non sono cambiate: ogni spettatore nelle immagini fotografiche vorrebbe vedere il futuro, o almeno intuirne la forma. Questa mostra sembra offrirne la possibilità. Ma andiamo con ordine.

 

Rodchenko fotografa il mondo della fabbrica con lo sguardo di chi ha una smisurata fede nella produzione e nella possibilità di una trasformazione “costruttiva” della vita. Il lavoro può generare un cambiamento, allo stesso modo delle potenzialità racchiuse nel modo di produrre le immagini: ampliamento del campo visivo, distorsione dell’obiettivo, vedute dal basso, dall’alto, in diagonale. Qui l’etica e l’estetica, evocate dal sottotitolo, tendono a coincidere. Produrre significa celebrare la fiducia nel futuro e in un nuovo sguardo che tende a coincidere con esso, significa produrre la forma del futuro e la sua immagine. Una meravigliosa utopia che dopo non sarà più possibile. Niente più iperboli poetiche o allucinazioni fantasmagoriche, se non in un’estetica quasi fine a se stessa. Il lavoro genera vuoto. L’etica è insita solo nello sguardo del fotografo che si sente in dovere di fotografarne l’assenza. 

 

Alexander Rodchenko, Volanti, dalla serie “Stabilimenti automobilistici amo”, Mosca, 1929 © Alexander Rodchenko by Siae 2017, Collection of multimedia art museum, Moscow / Moscow house of photography museum.


Alexander Rodchenko, Fabbrica di legname “vakhtan”, regione del Nijny Novgorod, 1930 © Alexander Rodchenko by Siae 2017, Collection of multimedia art museum, Moscow / Moscow house of photography museum.


Così, mentre le immagini del lavoro minorile scattate da Mimmo Jodice nei quartieri di Napoli si riflettono nei volti alienati dei lavoratori ritratti da Lee Friedlander nella serie “At work”, i paesaggi di Josef Koudelka, stampati in un formato maestoso, mostrano solo spazi deserti come miniere a cielo aperto, cave, camini che fumano all’orizzonte. L’assenza dell’uomo è compensata dalle tracce del suo passaggio, come tante ferite dopo un disastro. Le stesse cicatrici a cui ha dato forma Mitch Epstein con la serie “American Power” (e le immagini dell’area di Lynch nel Kentucky orientale scattate da un fotografo professionista prima e dopo la trasformazione industriale dal 1917 al 1920), nella quale dal 2003 indaga le conseguenze della produzione energetica in ventisei stati: dalle centrali nucleari alle dighe delle centrali idroelettriche, dai pannelli solari agli impianti eolici. O come fa John Myers con le sue foto scattate fra il 1981 e il 1988 nel “black country” inglese, le cittadine di Lye, Brierley Hill, Cradley Heath, cuore della rivoluzione industriale oggi riconvertita a zona di immagazzinamento e vendita al dettaglio di componenti prodotti all’estero.

 

Uno scenario che rievoca a sua volta le condizioni di vita nella Tokyo del dopoguerra, un paesaggio distrutto dai traumi della sconfitta bellica malgrado la crescita economica, come si vede nelle immagini di Yukichi Watanabe. Sino a giungere al vuoto di senso evocato dalla vicenda dell’astronauta Ivan Istočnikov, riproposta da Joan Fontcuberta, che mette in scena con ironia il rapporto tra la presunta veridicità dell’immagine fotografica e la sua capacità di generare inganni. Il 25 ottobre del 1968, dalla base spaziale di Baikonur, venne lanciata in orbita il Soyuz 2. Il cosmonauta scomparve durante la missione e il governo sovietico non volle ammettere di aver perso un uomo nello spazio. Secondo la versione ufficiale, il Soyuz 2 era un’astronave completamente automatizzata, senza equipaggio a bordo.

 

Mimmo Jodice, Napoli, 1973 © Mimmo Jodice.


Lee Friedlander, Boston, 1986 © Lee Friedlander, Courtesy of Fraenkel Gallery, San Francisco.


Joan Fontcuberta, Ivan Istočnikov e Kloka durante la loro storica EVA (attività extra veicolare) © Joan Fontcuberta by Siae 2017.


E sin qui si potrebbe dire che si tratta di passato prossimo, se pensiamo al futuro evocato da Rodchenko. Grazie alle visioni di questi fotografi nati in intervallo temporale che va dagli anni Trenta ai Cinquanta si giunge al presente. In che modo? Attraverso le immagini di Thomas Ruff, che rappresentano lo snodo concettuale in cui confluiscono gli sguardi citati e da cui defluiscono altre esperienze visive.

 

Chi è Thomas Ruff? Probabilmente il migliore tra gli allievi di Bernd e Hilla Becher, con cui studia fotografia all’Accademia di Düsseldorf, insieme ad altri allievi come Thomas Struth, Candida Höfer, Andreas Gursky, Axel Hütte e altri. Le sue immagini sono esposte presso la galleria della fondazione Mast. Si possono vedere fotografie tratte da diverse sue serie: Notti (1992), Case (1989), Macchine (2003), Altri ritratti (1994-1995), Negativi (2014), Press ++ (2016) e Jpeg (2005).

 

Thomas Ruff, Jpeg Coo1, 2005 dalla serie “jpeg” © Thomas Ruff, by Siae 2017 Courtesy of the artist and Lia Rumma Gallery.


Thomas Ruff, PHG.09_II, 2014 dalla serie “Fotogrammi” © Thomas Ruff, by Siae 2017, Courtesy of the artist and Lia Rumma Gallery.


Ruff non mostra il lavoro in sé, ma il lavoro delle immagini, i molteplici modi in cui si dà forma a ciò che si vede. Nella serie Notti, eseguite tra il 1992 e il 1996, egli decide di sperimentare in alcuni luoghi familiari la luce notturna consentita dagli intensificatori di luce in dotazione ai militari conosciuta come “Starlight System”, che attribuisce alle immagini la tipica tonalità verdognola.

 

Per questo non abbiamo dinnanzi agli occhi semplici fotografie ma fotografie di fotografie, citazioni, come in “Jpeg”, uno dei suoi lavori più celebri, serie iniziata nel 2004, che prende il nome dal metodo di compressione delle immagini ormai noto con l’acronimo delle parole “Joint Photographic Experts Group”.

 

Questa serie include immagini trovate dall’artista su Internet, foto di tragedie e catastrofi, inondazioni, funghi atomici, pozzi petroliferi in fiamme durante la seconda guerra del Golfo nel 2003, altre tratte da cartoline e fotografie, altre ancora scattate dallo stesso Ruff, che interviene sulla struttura dei pixel allargandola, a volte cambiandone i colori. In questo modo l’immagine risulta leggibile da una distanza superiore ai cinque metri mentre, avvicinandosi, lentamente si riduce a una griglia astratta di elementi luminosi. Siamo nello stesso istante di fronte alla superficie, dentro di essa e oltre i suoi confini.

Ciò che vediamo corrisponde alla potenza del medium: di fronte alla nudità originaria di un’immagine la nostra percezione vacilla. La superficie del pixel rappresenta paradossalmente la profondità dello sguardo. Di fronte alle immagini di Ruff non esiste più la certezza del ça a été di Roland Barthes, ma un è che si annida ovunque. Cosa genera nello spettatore? Di che si tratta? Banalità o estasi? Forma del desiderio o fine della voluttà? Non è questo che suggeriscono i “Nudes” di Ruff, immagini pornografiche modificate dal fotografo, in cui si alternano allo stesso tempo scopofilia e repulsione?

 

Forse Jean Baudrillard diceva il vero, quando sosteneva che nel momento in cui c’è una scena c’è anche sguardo e distanza, gioco e alterità, mentre quando si è nel regno dell’osceno non c’è più scena né gioco. La distanza dello sguardo scompare e dunque la dimensione dell’osceno si configura come ossessione maniacale nei confronti del reale e nel divenire reale di qualcosa che fino a quel momento possedeva una dimensione traslata e figurata.

Le immagini di Ruff sono oscene perché mostrano l’assenza di distanza tra ciò che vediamo e ciò di cui si compone. L’immagine non ha misteri se non nelle domande che sorgono di fronte alla sua apparente banalità. Tutto qui. Ma è tantissimo.

 

Per questo ci si chiede: sta qui il punto in cui etica ed estetica coincidono, come in Rodchenko? È qui che il fotografo mostra come un semplice fattore tecnico, ovvero la macchina fotografica, utile solo per produrre, si trasforma in qualcosa che mostra l’immagine nella sua essenza? Cosa rappresentano le immagini di Thomas Ruff nel contesto di Foto Industria? Il conflitto tra l’idea di labor, lavoro, fatica, sforzo, pena e quella di opus, ovvero il prodotto del lavoro, l’opera, che esprime la pienezza dell’attività umana e la capacità di produrre un nuovo sguardo? Si potrebbe dire che l’utensile, tanto la macchina quanto la macchina fotografica, è la prova della conoscenza, se si “ammette che sapere è essenzialmente saper fare”.

 

Gli altri fotografi in mostra testimoniano un futuro che va in diverse direzioni. Carlo Valsecchi ha realizzato stampe di grandissimo formato dello stabilimento della Philip Morris vicino a Bologna, reinventato come uno spazio completamente astratto e asettico; Mathieu Bernard-Reymond trasforma i suoi scatti, nati come elementi di documentazione architettonica, in immagini rielaborate in post-produzione; Vincent Fournier propone un viaggio tra utopie rappresentative della contemporaneità come l’avventura spaziale e l’intelligenza artificiale; Mårten Lange raccoglie immagini provenienti da laboratori di ricerca di fisica nucleare, microscopia e nanotecnologia. Affascinato dalla sofisticazione delle macchine, mostra come la loro crescente complessità le trasformi talvolta in caotiche assurdità.

 

Mårten Lange, Senza titolo (07-8-18-3), dalla serie “Machina”, 2007 © Mårten Lange, Courtesy of Robert Morat Galerie.


Si potrebbe concludere con le immagini di Michele Borzoni. Il suo progetto si intitola “Forza lavoro” ed intende mostrare l’attuale panorama del lavoro in Italia alla luce della recente recessione economica globale. Cos’è oggi la “forza lavoro”? Rispondono le immagini: sono i 1550 candidati iscritti all’esame per l’assunzione di 40 storici dell’arte da parte del ministero per i beni e le attività culturali, i 1099 candidati per l’assunzione di un’infermiera presso l’ospedale di Cremona, le 830 persone che lavorano negli 86.000 mq dei capannoni di Amazon a Castel San Giovanni in provincia di Piacenza, con le sue merci disposte su milioni di chilometri di scaffalature, dove le consegne vengono effettuate al ritmo di una ogni quattro secondi. Si può aggiungere altro?

 

Michele Borzoni, Laboratorio tessile cinese posto sotto sequestro dalla polizia municipale © Michele Borzoni/Terraproject.

 

Mostra: Biennale di fotografia dell’industria e del lavoro, Bologna, 12.10 – 19.11.2017 a cura di François Hébel e Urs Stahel per le mostre di Thomas Ruff e Carlo Valsecchi. La mostra di Thomas Ruff termina il 14-01-2018.

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Tempo e memoria nelle immagini di Roberto Toja

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Cos’è lo scorrere del tempo? Nella Berlino riunificata, a ormai quasi trent’anni dalla caduta del muro, ciò che attrae il visitatore non è la parte occidentale il cui aspetto commerciale la rende omologata alle altre metropoli europee. Ad affascinare è quella parte orientale che per lungo tempo è rimasta immersa in un’atmosfera immobile dalla quale emerge una storia che ha toccato molti e che porta ancora i segni della Guerra fredda e della dominazione sovietica.

 

Questa parte della città è oggi inequivocabilmente il segno distintivo di Berlino. Rappresenta la rivincita di un luogo a lungo confinato dietro un muro culturale e politico oltre che fisico. Chi oggi visita Berlino rimane affascinato proprio dalla zona est, a dimostrazione di quanto la memoria sia un elemento persistente, tanto da far scattare il desiderio di voler essere testimoni di ciò che è accaduto.

Questo aspetto introduce le motivazioni che hanno spinto Roberto Toja a recarsi a Berlino e che traspaiono molto chiaramente dalle fotografie raccolte nel libro Warum die zeit? (MFD Edizioni, 2017). Non la semplice volontà di documentare con un reportage l’attualità della vita, certamente più complessa dopo quel 9 novembre 1989. Nemmeno quella di ritrarre scene quotidiane in un luogo che allude a uno stato iconico. La motivazione reale che ha spinto l’autore a recarvisi è proprio quella di essere testimone della memoria ivi custodita o, se vogliamo, di quel “tempo che scorre” e che ognuno di noi vuole vivere pienamente. “Ho in mente– scrive l’autore – un modello [ideale?] di città, e voglio ritrovarlo all’interno del tempo in cui posso dire di esserci stato”. 

 

Il tempo, elemento condizionante per eccellenza del nostro guardare. Si dice che lo scatto fotografico lo fermi. Tuttavia il tempo è indipendente e lo possiamo chiaramente vedere in queste immagini dove ci appare metafisico ma anche concreto, fermo eppure in movimento. È come se dettasse un ritmo che si appropria del suo stesso esistere costringendo l’autore a stare al suo passo. La sequenza delle foto che ci viene proposta parte dalla classica inquadratura orizzontale alla quale si alternano trittici che sembrano mostrare mondi paralleli nei quali qualcosa avviene contemporaneamente. 

 

© Roberto Toja, da Warum die zeit?


© Roberto Toja, da Warum die zeit?


Strette, lunghe, è quasi percepibile lo scorrere della pellicola cinematografica. Passano, una dopo l’altra, creando quel movimento che materializza il tempo. Queste alternanze creano una sorta di intermittenza che destabilizza il senso percepito linearmente del suo scorrere. 

Le immagini si formano autonomamente. Mentre lo sguardo si sofferma su qualcosa, attraverso una rete di pensieri, si crea la forma. Questa forma non si rivelerà veramente allo sguardo prima di aver osservato la fotografia una volta stampata. Per questo l’immagine si stacca dall’autore nel momento stesso in cui viene scattata cominciando a vivere di vita propria, cosa che le permetterà di essere interpretata da ciascun osservatore secondo il proprio punto di vista. 

 

In questo lavoro è visibile il “tempo vissuto” di Berlino, rappresentazione difficile da realizzare perché il tempo è materia indefinibile. Verosimilmente abbiamo a che fare con la memoria di un uomo, di una città, di un Paese, un sentimento collettivo che la memoria stessa innesca in chi osserva. Chi ha visto la trilogia di Heimat diretta da Edgard Reitz – una pellicola straordinaria che condensa la Storia grande e quella piccola, l’estetica intesa come dottrina della conoscenza sensibile e l’appartenenza a un luogo non soltanto come luogo di nascita ma come territorio del Sé (penetrato dalla presenza dell’individuo e dalla sua anima), può forse comprendere a cosa alludo. Le fotografie di Roberto Toja sono, a loro modo, un pezzetto di tutto ciò, e questo grazie proprio alla disposizione d’animo con cui l’autore si pone davanti al soggetto che sta ritraendo, che ha a che fare con l’ascolto, del luogo stesso e della memoria. 

 

© Roberto Toja, da Warum die zeit?


In una scena del film Smoke, del regista Wayne Wang, Auggie il protagonista gestore di un tabacchi, mostra al suo amico scrittore diversi album in cui sono incollate centinaia di fotografie che lui scatta da anni sempre alla stessa ora, sempre nello stesso punto, sempre con la stessa inquadratura. Eppure in quella inquadratura sempre uguale accadono moltissime cose. “Sono tutte uguali”, dice l’amico scrittore. Gira i fogli degli album velocemente. Auggie osserva: “Non capirai mai, se non vai più piano. Lo sai com’è: […] il tempo mantiene il suo ritmo”. Il miracolo avviene quando lo scrittore si imbatte in una fotografia in cui davanti all’obiettivo di Auggie, alle 8.00 di una mattina qualsiasi, riconosce sua moglie Ellen, morta di recente. Ed ecco che la memoria irrompe nel tempo e quello che sembra essere un luogo qualunque improvvisamente la contiene e diviene “altro”.

Ciò che accade osservando le immagini di Roberto Toja è proprio l’emergere di una memoria che lui per primo intende incontrare in quello che è il suo tempo ma che, nel momento in cui lo osserviamo, diventa anche il nostro, in una sorta di sentimento di comunanza.

 

© Roberto Toja, da Warum die zeit?


Le fotografie si compongono da sole, dunque. Avviene un’interazione tra soggetto e fotografo, un dialogo che conduce a una rappresentazione all’interno della quale ognuno vive la sua parte. Il formarsi delle immagini è frutto di una relazione. Non è infrequente sentire autori che affermano di non essersi resi conto di alcuni particolari se non dopo aver visto le foto stampate, il soggetto interagisce con il ritraente determinando una relazione. Senza questa relazione l’immagine semplicemente non esiste e non può suscitare alcuna emozione in chi la guarda. Un altro esempio cinematografico che ci può aiutare a capire di cosa stiamo parlando è la famosa scena del film Blow-up di Michelangelo Antonioni in cui il fotografo protagonista della storia scatta una fotografia a due amanti in un parco, ma soltanto dopo averla stampata si accorge di aver ripreso qualcosa di strano sul fondo. Ingrandendo l’immagine arriva a vedere ciò che non aveva visto al momento dello scatto: un’ombra che si rivela essere il corpo di un cadavere. La fotografia, dunque, sa di esistere e interagisce.

Ma torniamo all’elemento fondante della ricerca fotografica di Roberto Toja contenuto già nel titolo del lavoro stesso: “Perché il tempo?” La convenzione stabilita dall’uomo vuole che il tempo venga ridotto a una semplice unità di misura: da qui a lì è un certo tempo, passato il quale qualcosa è accaduto. Qui l’autore però intende occuparsi del tempo cercando di capire la sostanza di cui è fatto, il suo senso in relazione all’accadere. 

 

© Roberto Toja, da Warum die zeit?


© Roberto Toja, da Warum die zeit?


In queste fotografie vediamo figure sospese e al contempo fluide. All’interno di ogni immagine c’è un microcosmo che è parte integrante del macrocosmo. Esso può vivere in maniera indipendente ed essere ugualmente parte di qualcosa di più grande che pulsa e si muove. Se potessimo guardare dall’alto, contemporaneamente, tutte le scene riprese, ci accorgeremmo di guardare una massa in movimento – “un’entità biologica, viva, all’interno di un proprio tempo organico” – come lui stesso scrive. Un corpo. 

Vediamo quindi che la fotografia è molto meno governabile di quanto si possa pensare. Forse possiamo scegliere con quale dispositivo scattarla e le relative misurazioni ma sarà sempre lei a scegliere noi. Sarà lei che ci indurrà a osservarla dandoci l’illusione di aver deciso cosa scattare e quando.

 

IL LIBRO: Warum die zeit? di Roberto Toja, MFD Edizioni, 2017. 97 pp. Formato 35x30, rilegato

L’AUTORE: Roberto Toja, appassionato di pittura del Cinquecento, dopo la laurea in Storia dell’Arte Medievale e Moderna, si avvicina alla fotografia inizialmente come semplice mezzo sussidiario agli studi di arte e architettura rurale subalpina, per poi allargarsi al reportage sociale, fino a giungere alla professione vera e propria. Successivamente comincia a lavorare a una sua ricerca artistica, fin da subito intima e crepuscolare, principalmente legata alla narrazione della memoria e della sua perdita, all’oblio e allo scorrere del tempo.

Le sue immagini esposte in gallerie d’arte, fanno parte di prestigiose collezioni private e museali, quali Fotografia Italiana e Alinari. Per i suoi progetti predilige la forma del libro in quanto oggetto che ridona consistenza alla memoria salvandola dall’oblio.

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L’autonomia della fotografia
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Davide Mosconi: moda, arte, pubblicità

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Le foto “d’epoca” di Davide Mosconi, alcuni autoritratti in particolare, ci restituiscono l’immagine di un personaggio all’americana: il dandy che lavora freneticamente per alimentare un mondo leggero, persino superficiale, fatto di lunghe sessioni fotografiche tra una diva e una frequentatrice della Factory, tra una chiacchierata sulla moda e un’ubriacatura al bar. Quel mondo fatto di fama e ore piccole che doveva aver assaggiato, in seconda fila, lavorando come assistente nello studio di Richard Avedon, e che avrebbe riportato nel nuovo contesto della Milano da bere. Eppure, come le mostre della Galleria Milano avevano già dimostrato negli anni scorsi, dietro questa figura all’ultimo grido si nascondeva un artista concettuale profondo e sofisticato, che guardava da fuori, e criticamente, a quel mondo, del quale cercava di sfruttare le precarie possibilità di sostentamento economico, nonché il potenziale riutilizzo entro le dinamiche dell’arte.

 

Quello che risulta evidente, infatti, anche solo sfogliando rapidamente il nuovo libro di Elio Grazioli, o visitando la mostra presso la Galleria Milano, è come Mosconi lavori in questi due ambiti senza creare gerarchie tra di essi, cercando di superare nei contenuti del lavoro quella distinzione ancora inevitabile a livello di costruzione e presentazione di un curriculum. Non è un caso che la riflessione di Grazioli parta proprio da queste considerazioni sulla sociologia del lavoro di artista, e che la sua analisi prenda le mosse dal primo book di lavori “commerciali” di Mosconi, datato appunto 1980.

 

 

Mosconi pagava probabilmente, in termini di popolarità tra colleghi ed esperti, questa contaminazione con l’ambito della comunicazione, così come pagava, in un ambiente ancora intriso di snobismo modernista, la sua poliedricità anche nell’attività più propriamente artistica, il fatto di lavorare con il visivo ma di essere anche un musicista serio, di sollecitare la componente critica dell’arte ma anche quella pratica del design. Sotto questo punto di vista, la sua figura ci appare oggi ancora più moderna, legata a un’apertura disciplinare che gli studi hanno codificato per lo più a partire dagli anni novanta, con la crescente importanza della Visual Culture e il conseguente scricchiolio delle distinzioni idealiste tra un alto dell’arte e un basso della comunicazione visiva. La figura insomma, di un operatore visuale capace di utilizzare le numerose frecce al proprio arco per colpire i bersagli specifici della pubblicità con la sua azione psicologica mirata, e dell’arte con la sua apertura di senso.

 

Da questo punto di vista, l’articolazione del saggio di Grazioli, così come l’allestimento della mostra alla Galleria Milano, punta a mettere in evidenza la peculiare risposta di Mosconi alla questione della comunicazione per immagini. Naturalmente, la pubblicità – anche nella forma meno immediatamente “commerciale” dell’editoria di moda – non può condividere fino in fondo questa apertura di senso: il messaggio, perlomeno un messaggio, deve essere chiaro e inequivocabile. La parziale apertura residua riguarda, pertanto, la traiettoria e le modalità di trasmissione di questo messaggio, ed è in questo piccolo ma importante spazio che si può collocare l’artisticità dell’intervento. Mosconi coglie infatti come una certa discontinuità, di un certo tipo di choc critico siano in grado di catturare la mente del fruitore, creando una distanza, un ostacolo che trasforma il lettore in protagonista attivo del processo di comunicazione.

 

Si pensi ad esempio ai lavori realizzati per Bloom nel 1979, e usciti su “Linea italiana”, nei quali è la produzione artistica di Mosconi a servire da punto di partenza per la pubblicità (e non viceversa), trasformando in feticcio l’oggetto mostrato – la scarpa inserita in una teca di vetro, ad esempio – o ricoprendo di un’aura metafisica i modelli e le modelle. È come se Mosconi, parafrasando la celeberrima terminologia barthesiana di quegli anni, spostasse il messaggio pubblicitario sul punctum dell’immagine, creando ad hoc uno studium apparentemente estraneo alla logica immediata della comunicazione: esemplare la serie per Punch, sempre pubblicata su “Linea italiana” e basata sulla suddivisione dello spazio tra bianco e nero e colore.

 

 

Per Mosconi, e anche questo è un elemento ben valorizzato in mostra, questo gioco di spostamenti nella comunicazione trova un’origine nella poetica surrealista. I riferimenti sono chiari, specie nei lavori da artista, come la raffinatissima Isabelle Dufresne del 1965, con l’occhio di vetro al posto del sesso, a rovesciare il rapporto oggetto-sguardo, o come nei suggestivi lightbox impostati sul formato della finestra, tema innanzitutto matissiano ma debitore anche della Fresh Widow di Duchamp. Come nel surrealismo degli anni trenta, Mosconi punta innanzitutto sull’effetto di verità presente nell’immagine fotografica, sulla sua capacità cioè di dare all’illogico, al falso, un’autorità visiva che sposta, fa saltare per un istante la visione dell’osservatore sul mondo. La tensione tra immagine e supporto (picture e image, come direbbe W.J.T. Mitchell, e come ripete giustamente Grazioli), tra dentro e fuori, aggiunge forza alla comunicazione visuale, e consente a Mosconi di travasare nel lavoro “commerciale” alcuni temi a lui cari: innanzitutto il corpo, inquadrato e mostrato oppure semplicemente implicato, come nella pubblicità per Brancamenta; in secondo luogo la frattura, il buco sullo schermo, a decostruire la virtualità della image a favore della corporeità, di nuovo, della picture. Ed è questo il tema comune che emerge con forza nella trattazione analitica del testo e in quella immediata dell’allestimento: l’impossibilità di una comunicazione senza corpo, e la continuità, senza paletti, di un’espressione che dal corpo parte e al corpo arriva. 

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Una modernità senza paletti
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Desiderio di paesaggio

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Conversazione con Michael Jakob

Continua l’intervento di doppiozero a sostegno del Progetto Jazzi, un programma di valorizzazione e narrazione del patrimonio culturale e ambientale, materiale e immateriale, del Parco Nazionale del Cilento (SA).

 

Michael Jakob è uno dei maggiori studiosi di storia e teoria del paesaggio. Insegna al Politecnico di Losanna (EPFL) e presso la Scuola di Ingegneria di Ginevra-Lullier e Lettere Comparate nell’Università di Grenoble. Un novero di discipline ampio e ricco. Collabora inoltre a “Domus”, dove ha scritto di recente un articolo sulla capanna di Unabomber. Ha fondato e dirige la rivista internazionale Compar(a)ison, nonché la collana Di monte in monte, presso l’Edizioni Tararà di Verbania, dove sono pubblicati piccoli gioielli narrativi del passato dedicato al paesaggio; e presso l’editore Infolio (Losanna) la collana Paysages. Ha pubblicato numerosi volumi su questi temi: Aqua Vulpera (Infolio, Gollion 2004); Paesaggio e letteratura (Olschki, Firenze 2005); Walter Brugger. Architecte paysagiste (Infolio, Gollion 2005); Enzo Enea Private Gardens (Schmerikon/Zürich 2006); Guide des barrages suisses (Infolio, Gollion 2006); Paysage et temps (Infolio, Gollion 2007).

 

Tra gli ultimi volumi vorrei segnalare l’originale Cette ville qui nous regarde (Editions-b2.com) del 2015, sullo spazio urbano esplorato con uno stile e un approccio molto originali; Il giardino allo specchio (Bollati Boringheri) nel 2009, e uno studio sulla storia della panchina e del suo legame con la visione del paesaggio tradotto in varie lingue: Sulla panchina (Einaudi 2014). Il libro da cui sono partito nell’intervista con lui è Il paesaggio, pubblicato presso il Mulino nel 2009. In 142 pagine Jakob ricostruisce in modo esemplare la storia dell’immagine-paesaggio con un acume e una profondità inusuali in questo tipo di studi, avanzando ipotesi sul passato e sul futuro del paesaggio. Questo tema è passato da essere una questione quasi elitaria a essere uno dei fenomeni culturali più importanti del presente; non a caso s’interseca con la questione del turismo che è oggi una delle maggiori fonti di ricchezza di innumerevoli paesi nel mondo, tra cui ovviamente l’Italia, il paese del paesaggio per eccellenza, un territorio antropizzato in ogni suo angolo anche remoto. Cosa ha provocato questa sovraesposizione culturale? E poi cosa intendiamo oggi con il termine “paesaggio”?

Marco Belpoliti

 

Marco Belpoliti: In un tuo studio dedicato al paesaggio hai scritto: “La nostra epoca è decisamente quella del paesaggio”. Puoi spiegarci perché il paesaggio definisce il periodo in cui viviamo?

 

Michael Jakob: Forse in seguito alla nascita della coscienza ecologista, negli anni ’70, è nata anche una ‘domanda’ per ‘ulteriore natura’. La natura appare infatti come l’ultima delle religioni, ed è normale oggi desiderare, amare, occuparsi della natura. Il paesaggio, ovvero la costituzione di un ritaglio di natura con delle qualità estetiche, è un epifenomeno di questa domanda generalizzata di natura. Il desiderio di paesaggio è fenomeno ricorrente. 

 

Hai sostenuto che il paesaggio “si trova al centro di una rete semiotica sofisticata”. Quali sono i nodi di questa rete?

 

I nodi sono nel contempo concettuali ed iconici. Esiste un repertorio di forme paesaggistiche che caratterizzano il nostro sguardo; si tratta di forme che si sono imposte nel tempo grazie ad un insegnamento, un’educazione; abbiamo imparato a identificare e a considerare estetiche delle forme come quelle pittoresche, sublimi, malinconiche, bucoliche, ecc. Questi tipi di paesaggio, in altri termini, non piacciono in modo naturale ma come risultato di una formazione estetica (ästhetische Bildung, Schiller). Questa operazione alla base dell’esperienza paesaggistica è però anche verbale (e dunque non solo iconica); le forme citate sono percepite sempre in relazione a un materiale verbale, cioè a parole che possiamo ‘incollare’ alla realtà scoperta. 

 

Nei tuoi scritti sul paesaggio sostieni che non c’è un solo paesaggio, ma ce ne sono tanti. E che la distinzione non è più tra paesaggio autentico e inautentico. Lo puoi spiegare?

 

Il paesaggio è per sua essenza differenza e non identità. L’esperienza paesaggistica, cioè l’incontro di qualcuno (un soggetto) con un ritaglio di natura (l’oggetto), dato o costituito in un certo momento, ha sempre una temporalità minima. Ora non c’è ancora paesaggio ma una totalità del campo dell’esperienza del mondo; poi il paesaggio irrompe e esiste per un attimo; poi ancora (qualsiasi fattore può interrompere l’atto costitutivo, un passo avanti, la luce, ecc.) non esiste più e magari nascerà un altro paesaggio. La differenza inoltre non è soltanto quella evidente dell’essere umano che, come soggetto percettivo, cambia sempre, ma è anche quella della natura che si trasforma. L’autenticità del paesaggio è perciò da sempre persa o inaccessibile, anche per il soggetto che l’ha costituito. Certo, sono io che un attimo fa sono stato sconvolto da questo paesaggio sublime che già non esiste più; so che mi è stato dato o che l’ho costituito (o meglio: co-costituito), ma ora, alla luce dell’analisi a posteriori, mi rendo conto che in questo paesaggio inatteso si sedimentano tante cose, come le mie attese, le mie conoscenze, ma anche fattori esterni contingenti. Parlare quindi di autenticità diventa difficile, perché se anche nel momento dato tutto sia evidente, so bene che mia esperienza è anche il risultato di fattori o condizionamenti culturali. 

 

Nella “Convenzione europea del paesaggio” è scritto che il paesaggio “deve diventare un soggetto politico d’interesse generale perché contribuisce in modo importante al benessere dei cittadini europei”. Sei d’accordo con questa affermazione? 

 

Ph Olaf Otto Becker.

 

Nella Convenzione ci sono alcune stranezze e, fra queste, una delle più preoccupanti è quella della confusione tra paesaggio e territorio. La Convenzione è piuttosto naturo-centrica, cioè ideologicamente non neutra e quest’idea del benessere proviene da lì, da un postulato post-romantico del desiderio di essere abbracciati dalla natura tutta. Per me il termine “benessere” applicato al paesaggio potrebbe essere inteso soltanto come godimento estetico. Noi viviamo la nostra vita abituale standardizzata, interrotta soltanto da momenti ec-statici, cioè estetici, dove la separabilità tra io e mondo viene interrotta; il paesaggio esperito nasce proprio da un tale momento privilegiato; il “benessere” procurato (vedi la terza critica di Kant!) non è però un piacere fisico, ma intellettuale e immaginativo. Si tratta di una forma di “benessere” suprema, perché è ciò che dà senso.

 

Uno degli aspetti originali del tuo saggio Il paesaggioè l’affermazione che il soggetto fa interamente parte del paesaggio che compone. Cosa significa in termini percettivi, e non solo? Si tratta di fatto fisico?

 

Nel momento della costituzione del paesaggio – Bergson parla in campo estetico generalmente di durée, di una durata non quantificabile – la separazione fra soggetto (io) e mondo, alla base della tradizione europea, cioè della razionalità che mette a distanza le cose permettendo di percepirle e di pensarle ‘correttamente’, per un attimo non ha più validità. Io sono nel paesaggio e il paesaggio è in me, cioè nella mia coscienza, senza possibilità alcuna di dire chi prevalga. Sono fuori di senno, invaso da ciò che mi (pre)occupa, passivo e pieno dell’esperienza in atto. Lo sono poi non soltanto come soggetto percettivo (dotato di aisthesis), ma totalmente; sono somaticamente immerso nel mondo. Certo, l’analisi a posteriori potrà dirmi che la mia percezione era prevalentemente visiva (ovviamente), ma il vento che sentivo sulla pelle, i suoni o il silenzio o altro ancora, fanno parte integrante di ciò che mi ‘passava per la testa’. Si tratta nel contempo di una perdita di controllo in termini percettivi abituali e della conquista di un’attenzione percettiva maggiore.

 

La modernità, hai scritto riprendendo Simmel, segna la dissoluzione dei legami originari: a quali legami ti riferisci rispetto al paesaggio? Con la modernità cosa è mutato?

 

La modernità è sempre dissociazione, perdita del senso del vivere-nel-mondo dato, garantito. L’uomo moderno si scopre come ‘altro’ rispetto al mondo che ha perso. Finché l’uomo vive quasi miticamente all’interno del mondo non esiste separazione tra lui e quest’ultimo; l’uomo è ovunque circondato dal mondo. Modernità equivale a questa divisione. Il paesaggio nasce qui, proprio in seguito a tale separazione, che prepara il soggetto a un incontro con il mondo sulla base della distinzione precedente. Il paesaggio non è magico, bensì ciò che il soggetto moderno ritrova una volta persa la magia del mondo. 

 

Ci interessava capire il rapporto tra l’arte e il paesaggio su cui ti soffermi spesso. Cos’è accaduto negli ultimi settanta anni? Ad esempio la Land Art, cosa ha rappresentato nell’ambito della visione del paesaggio?

 

Esiste da sempre una relazione dialettica tra arte e paesaggio. Ricordiamo innanzitutto che il paesaggio è stato, originariamente, una forma artistica, pittura paesaggistica appunto. Il XX secolo è caratterizzato in generale dalla ‘morte’ del paesaggio nell’arte, cioè dal passare da una forma mimetico-paesaggistica, per esempio ancora presente nella percezione stereoscopico-essenziale di un Cézanne (sappiamo ancora dove siamo rispetto alla Sainte Victoire) a una forma post-mimetica. Mondrian, Pollock, de Kooning e altri ancora, parlano di natura, anche con enfasi, però non lo fanno più in chiave paesaggistica, non la rappresentano, ma la suggeriscono o la traducono in energia. Già con Monet il paesaggio entra in crisi, visto che il suo sguardo scruta non la superficie (il paesaggio che si dà), ma l’essenza della natura (le forze dietro il paesaggio).

 

Il paesaggio non scompare però, ma sopravvive in varie forme nuove, per esempio nella fotografia o in certi aspetti di ciò che chiamiamo (anche erroneamente) Land Art (loro preferivano Earth Art, che fa la differenza!). Robert Smithson ad esempio diffidava molto del termine paesaggio che riteneva troppo euro-centrico. Comunque un’opera come la Spiral Jetty o Lightning Field di Walter de Maria fanno appello, pur polemicamente, all’esperienza paesaggistica. Nel caso di de Maria ci si siede in una capanna-osservatorio che permette di inquadrare il paesaggio creato dall’artista. La differenza fondamentale sta forse nel fatto che il paesaggio sia legato ad una percezione di tipo 2D – si tratta di immagini che si impongono – mentre gli artisti della Land Art lavorano dall’inizio in 3D.  

 

Nei tuoi studi parli spesso di “rappresentazione”. Indichi due forme di paesaggio distinte tra loro: la rappresentazione pittorica, l’unica che per secoli è stata designata come “paesaggio”, e la rappresentazione empirica, più recente. Ci puoi spiegare la differenza tra queste due?

 

Il termine rappresentazione mi sembra essenziale. La pittura, all’origine del paesaggio, è rappresentazione materiale, concreta. Il dipinto rimanda in quanto finzione a una realtà suggerita con i mezzi della pittura. Il dipinto si presenta come tale, però al suo interno rappresenta altro, un ritaglio del mondo, un paesaggio. Il paesaggio esperito è rappresentazione mentale, cioè mio modo non di osservare il mondo ma di crearlo come immagine. Nel momento della costituzione del paesaggio io dimentico che tra me e il mondo esiste già qualcosa, un campo di interazione che permette la mediazione; io vivo per un attimo come se il mondo – percepito in quanto paesaggio – sia presentazione pura (e non rappresentazione). Essendo capace di estasi paesaggistiche (ho costituito già svariati paesaggi) so però che si tratta di rappresentazione, che ciò che sembra compatto-assoluto-dato è in verità il risultato di processi complessi, e anche della mia vita come palinsesto di esperienze.

  

La fotografia ha cambiato qualcosa? E il cinema? Oggi il paesaggio rappresentato qual è?

 

Questo è un punto importante. Direi che ogni nuovo mezzo e medium ha cambiato e cambia sempre la nostra percezione del mondo e quindi anche il paesaggio. Esiste una storia tecnologica del paesaggio quasi completamente sommersa. Di solito, il paesaggio viene spiegato come a) genere pittorico e b) fenomeno mentale, spiegabile per esempio in chiave fenomenologica. Io aggiungerei una terza spiegazione c) tecnologica. Soprattutto dal Quattrocento in poi le innovazioni tecnologiche condizionano lo sguardo umano. Pensiamo alla finestra moderna, al velo o reticolato, alla prospettiva centrale, alla camera obscura e alla camera lucida ecc. La fotografia cambia ovviamente tutto (la prima fotografia, quella fatta dall’atelier di Nièpce, è di un paesaggio), perché da quel momento alla conoscenza di sempre si aggiungono le realtà del mondo già fotografate e riprodotte (cioè, per dirla con Benjamin, de-auratizzate) che condizioneranno il mio approccio del mondo. Con la fotografia io potenzialmente conosco già da sempre il mondo che incontrerò, rendendo più difficile la possibilità di essere sorpreso da questo ritaglio di natura.

 

La cartolina postale fotografica risulta più bella di ciò che io posso ‘realizzare’ in loco, occorre dimenticarne l’esistenza. Il mondo fotografato ha come risultato un disincanto che ricorda quello precedente del mondo cartografato in toto dagli esploratori. Idem ovviamente per il cinema che aggiunge a tutto ciò uno strato ulteriore. Con la fotografia e il cinema il paesaggio entra proprio in un’epoca postmoderna, un immenso museo del paesaggio dove conserviamo tutto ciò che abbiamo già visto. Il paesaggio odierno sarà sempre di più quello etero-diretto dei mezzi tecnologici attuali. Con alcune novità sorprendenti però, come quella del ritorno della narrazione (forse in forma pseudo-narrativa). Le nostre immagini, quindi anche i paesaggi, fanno parte di album virtuali che non possiamo neanche più disattivare. Nel Settecento le nuvole erano oggetto di osservazione anche paesaggistica (Howard, Cozens, Goethe, ecc.); oggi i nostri paesaggi finisco nolens volens sul “cloud”. 

 

Parli di un superamento della prospettiva antropica realizzata dai satelliti, dalle macchine, da Google Map. Cosa resta del paesaggio dopo questo superamento?

 

Il punto di vista delle tecnologie scopiche nate dal mondo militare – Google Earth e Google Maps provengono direttamente da progetti satellitari militari – non è paesaggistico ma cartografico, il mondo visto dall’alto (da un punto di vista divino). Con l’integrazione della prospettiva antropica – il mondo in vis-à-vis – anche la percezione paesaggistica può essere simulata, ciò che svalorizza ancora di più i paesaggi reali. Il punto d’arrivo di questa trasformazione si intravede nelle famose Google Glasses (un flop commerciale però); esser permettono di portare con se l’immagine del mondo nell’attimo stesso in cui lo scopriamo. L’uomo in questo caso diventa anch’esso macchina, macchina da ripresa. La sorpresa, condizione di possibilità per il paesaggio, diventa ancora più rara e difficile.

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Progetto Jazzi
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Una rara falena a volo diurno

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Era stato, come sempre, un inverno freddo, ma non gelido e, come sempre, si attendevano con ansia le gradevoli giornate del mese di marzo per le prime sortite sotto il sole tiepido di fine inverno alla ricerca di qualche insetto e soprattutto delle vanesse che svernano dove possono e, non appena la temperatura sale a livelli accettabili, escono felici con il loro volo planante ed elegantissimo.

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Anoressia, fotografia e cura

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Quest’anno a Lodi, dal 7 al 29 ottobre, si è tenuto, come di consueto, il Festival della Fotografia Etica. È un appuntamento unico nel panorama italiano e l’obbiettivo è raggiungere la coscienza della gente raccontando il presente. Un presente che Calasso chiamerebbe “l’innominabile attuale”. Un tempo caratterizzato dalle scissioni, geopolitiche e spirituali; caratterizzato dalla transitorietà delle cose. Ecco che, all’interno di questo paradigma, la fotografia, forse, più di altre arti-tecniche, riesce a cogliere l’intima essenza di alcuni eventi del mondo. Da una parte le guerre che dilaniano la quotidianità, la morte, il massacro, la tensione di carne e ferro; dall’altra, invece, per alcuni fotografi, c’è il desiderio e il tentativo, decisamente non scontato, di raccontare le piccole realtà, gli uomini e le donne che se ne stanno fuori dal cono d’ombra mediatico. Persone che, infine, si portano sulle spalle problematiche, esigenze e desideri che, probabilmente, sono anche simili a quelle di tutti noi. Federica Sasso, fotografa di Fabrica, quest’anno era la special guest del Festival. Reduce dalla vittoria del “Premio Voglino” per Sick Sad Blue, le ho fatto qualche domanda a proposito del suo lavoro: un racconto visuale di Chiara e della sua malattia, l’anoressia e la fotografia come possibilità di guarigione.

 

Com’è iniziato il tuo lavoro/passione di fotografa. 

Ho iniziato fotografando mia sorella, poi mi sono iscritta all’Istituto Italiano di Fotografia e da lì ho vinto un anno di scholarship a Fabrica in cui ho lavorato sia a Sick Sad Blue che ad un progetto sulla post-adolescenza. 

 

Perché Chiara? Come mai Sick Sad Blue come titolo?

Fin dall’inizio ho sentito un canale aperto con Chiara, un canale profondo che è anche la sua sofferenza. Ho sentito che fosse bella, inteso non solo fisicamente. Ciò che mi ha attratto è la sua incredibile sensibilità. L’anoressia stessa è risultato, in parte, di questa iper-sensibilità. La fragilità e la dolcezza. È la descrizione del profilo Instagram di Chiara (@clairenough).

 

Come/quando ti sei avvicinata all’idea del progetto? Eri a conoscenza di lavori di altri fotografi in merito agli stessi temi?

Devo essere sincera, ahimè, non ero a conoscenza di altri progetti quando ho iniziato Sick Sad Blue, che mi sento di considerare il mio primo avvicinamento alla fotografia documentaria. Stavo editando un altro lavoro sui post-adolescenti la settimana prima. Ci sono finita dentro senza volerlo, sono andata a trovare Chiara in psichiatria per vedere come stava, non avrei mai pensato che sarebbe diventato un progetto. Dallo psichiatra al Centro di Disturbi alimentari sono passati solo 3 giorni, ho fatto semplicemente quello che sentivo. Dopo aver scattato ho guardato altri progetti, e posso dirti con sicurezza che ho davvero amato il lavoro di Laia Abril. L’intenzione non è stata quella di farne un progetto ma di seguire Chiara in un percorso, di starle accanto insomma. 

 

Com’è stato rapportarsi con Chiara, come donna e essere umano, sapendo che il rapporto trascendeva la semplice reciprocità intersoggettiva? Voglio dire, al di là del rapporto umano avevi un lavoro da costruire, una narrazione, un’immagine del mondo particolare tutta incentrata su quella che, credo, alla lunga, sia diventata molto più che una semplice conoscente. 

Complesso, ovviamente. Non è semplice trovarsi di fronte a quel genere di corpo femminile. In più, ho sempre temuto di essere vista e percepita come mezzo di conferma della sua immagine ideale, per via delle mie fotografie di moda. Ma non potevo andarmene, lasciarla sola. E la fotografia è stato un mezzo per intessere una forma di comunicazione alternativa. Interagire e sentire.

 

Sick Sad Blueè un progetto ambizioso, meraviglioso e, a mio modo di vedere, ben riuscito. Il libro è sold out, il progetto estetico ha un inizio e una fine coerente. Ne sono rimasto estasiato e va bene così, per una parte di me. C’è però un altro me che vorrebbe vedere questo lavoro prendere nuove forme e dimensioni, forse è solo ubris e finirò per pagarne le conseguenze, ma la domanda devo farla: hai intenzione di ampliarlo/tornare a lavorarci in seguito? 

Sick Sad Blue come dicevo non è solo un progetto fotografico, si tratta di un percorso umano che lega me e Chiara, che ci ha fatte crescere entrambe. E come percorso non ha fine. 

 

Ph Federica Sasso.


Qual è stata la parte più difficile della costruzione progettuale del lavoro? Qual è stata invece la parte più ardua, emotivamente parlando, da sostenere? Come sentivi lo sguardo di Chiara su di te, come reagiva alla macchina, come ti sentivi durante e dopo?

È stato difficile sostenere emotivamente la situazione, ma soprattutto cercare di non diventare, attraverso le fotografie, una celebrazione della bellezza che lei credeva di possedere in quel momento. È stato faticoso confrontarsi con ciò che lei avrebbe potuto pensare. Di me, delle fotografie, di tutto. 

Lo sguardo di Chiara molte volte era assente. Come racconta l’immagine di lei stesa sul divano, era la malattia a guardarmi. Non so spiegarti come io sentissi lo sguardo di Chiara, eravamo complici, lo siamo sempre state. C’era una parte di lei che si fidava totalmente di me. Ho scattato poco, davvero poco e in quei momenti eravamo totalmente sincronizzate, come se quel rapporto, quel diventare, potesse aiutare altre vite. Non è stato semplice per me e credo nemmeno per lei.

 

In tutto questo Chiara come si è posta nei tuoi confronti (come persona) e nei confronti del tuo ruolo di fotografa? 

Aperta, e libera di essere sé stessa, nel bene e nel male. 

 

Per quanto mi riguarda è molto interessante, per non dire decisivo, il ruolo che svolgono le altre immagini (oltre alle fotografie): screenshot etc. Com’è nata l’idea di lavorare su più piani estetici e prospettici differenti? 

È nato tutto così. Per poter capire pensieri e sensazioni che accompagnavano Chiara in quel periodo non potevo basarmi soltanto sul mio punto di vista, parziale. Dovevo cercare di comprendere il suo. Ogni immagine da lei pubblicata era un grido. Una richiesta di aiuto. Mi sono interrogata sulla reazione delle persone a queste immagini, ai post su Instagram e Facebook. Non riuscivo a capire se i like messi fossero dovuti ad una incomprensione dovuta alla sovrabbondanza di immagini o a sentimenti comuni. 

 

In questo gioco di specchi un luogo narrativo/fotografico in cui la realtà viene frammentata e scomposta per essere poi ri-compresa all’interno di un quadro più ampio e florido , un gioco di specchi in cui Chiara si manifesta come una sorta di Giano bifronte, sembra esserci un tentativo di passare attraverso di lei per mostrare, de facto, un senso dell’Umano che trascende la singolarità di Chiara come oggetto e la tua prospettiva di soggetto indagatore, come fotografa che si rapporta al mondo. È come se si spezzasse il binomio ontologico “Io” (il trascendentale ineludibile nello scatto) e “Mondo” (il contingente da redimere attraverso la testimonianza), fotografo e oggetto fotografato, così che possa prendere forma qualcosa di totalmente differente. Cosa ne pensi? 

Posso parlare del mio modo di rapportarmi al soggetto e al mondo. È il mio modo di vedere. Spontaneo e sincero. Cerco di trasmettere quello che sento, sempre. Quello che ho percepito in quel momento. Senza maschere. 

 

Ph Federica Sasso.


In alcune tue fotografie Chiara sembra assottigliarsi, trasfigurarsi in una linea di un piano geometrico e, nonostante ciò, c’è una titanica potenza espressiva della sua persona. Mi chiedo allora: è Chiara che si nasconde, inconsciamente, davanti a ciò che è “altro da sé”, mostrando così le vesti che indossiamo tutti, chi più chi meno, di fronte al Mondo, oppure è una tua, forse inconsapevole, operazione ritrattistica? Voglio dire, per quanto Chiara, nella sua danza di carne, si porti sulle spalle una croce non indifferente, tutto questo sembra finire sullo sfondo. Come se, in fin dei conti, non fosse importante. Forse, anche giustamente. Come se, in ultima analisi, ciò che risalta, in realtà, è una prorompente dignità.

Giusto, in linea di massima. Ma dipende molto dalle fotografie. Credo si rifletta proprio in alcuni casi la fragilità di Chiara come persona, in altri la forza e la grandezza della sua malattia. È come se fosse nata l’inconsapevole rappresentazione del dolore che stava dentro Chiara. E sono contenta ed orgogliosa che, in parte, grazie al nostro rapporto, sia in atto un processo di guarigione. 

 

Il tuo tentativo era quello di cogliere, attraverso l’immagine, la malattia in sé, la malattia e di come si manifesta in Chiara oppure Chiara tout court, come essa si manifestava ai tuoi occhi di fotografa?

All’inizio il mio tentativo è stato sicuramente raccontare Chiara, la persona nella sua interezza. Ma la malattia in molti casi si è posta davanti, è come se in lei convivessero due entità vere e proprie. Riflettendo, durante tutto il progetto poche volte ho parlato con Chiara, tanto con la malattia. C’è una sua frase che mi è rimasta particolarmente impressa, mentre era ricoverata in psichiatria: “so di avere occhi malati”. In quel momento è stata Chiara a parlarmi. 

 

All’interno della narrazione è presente anche dell’oggettistica. Sono oggetti a cui Chiara è legata per via della malattia? Se no, a cosa si collegano?

In realtà non ci sono molti oggetti, sono più legami che mi rimandano a Chiara. Il telefono di alcune foto è sicuramente il suo legame più assiduo. Il fiore sul tavolo è un regalo di un’amica, per me una similitudine. In quel periodo, Chiara non era legata a molto se non alla sua immagine.

 

C’è una foto, la numero 11, che mi ha particolarmente colpito. Mi ha fatto tornare alla mente un certo tipo di ramo della Filosofia Etica che, occupandosi di quelle che vengono definite “malattie del desiderio”, individua come uno dei fondamenti dell’anoressia la ricerca del “sé”. In questo senso si fa spesso riferimento alla figura dell’albero in autunno che, avendo perso le foglie, appesantito dalla gravità del freddo, si ritorce su sé stesso. In questa foto c’è Chiara che si chiude a riccio e che però lascia scorgere qualcosa: il suo tatuaggio, nero, delle rondini. Questo mi rimanda automaticamente alle farfalle, bianche, sulla parete. Anche da un punto di vista antropologico siamo un desiderio infinito che può saturarsi soltanto attraverso l’incontro con altre soggettività, anch’esse infinite; se questa saturazione del desiderio manca perché le relazioni che intrecciamo con gli altri sono in-autentiche, allora, giocoforza, ci ammaliamo. Da una parte le farfalle che cercano quell’infinito e possono ancora essere appagate. Dall’altra quelle rondini, corrose dalla bassura della gente, che avvolgono il corpo di Chiara.

Hai ragione, bellissimo pensiero. Credo che le farfalle, insieme alle rondini, possano far parte di una ricerca di voler volare verso un mondo altro, nuovo, diverso. La ricerca di relazioni autentiche che soddisfino questo desiderio infinito. Ma questo percorso – mi riferisco a quello di rondini e farfalle – finisce senza riuscita. Bisogna ricordare infatti che le farfalle sono di plastica, le rondini un tatuaggio ed è incredibile come questi animali leggeri appaiano pensanti.

 

Ph Federica Sasso.


Fabiola de Clerq una volta ha scritto: “l’anoressia è paradossale fin dal nome. Vorrebbe dire assenza di appetito, di fame, di desiderio. Non conosco invece persone più affamate, bisognose e avide delle persone anoressiche, e più terrorizzate dalla loro avidità. È proprio perché hanno un disperato desiderio di tutto che rinunciano a tutto. È perché non possono avere tutto, che scelgono di non avere niente. È perché sono divorate da un’assoluta fame d’amore che non accettano il cibo come surrogato materiale dell’amore”. Partiamo dalle parole della De Clerq, come inserisci questa considerazione all’interno del tuo tentativo di raccontare Chiara attraverso le immagini?

È perché non possono avere tutto, che scelgono di non avere niente. È perché sono divorate da un’assoluta fame d’amore che non accettano il cibo come surrogato materiale dell’amore. È così. Tutti i selfie di Chiara, tutte le frasi scritte su Facebook erano un chiaro urlo di attenzione. Non c’è fame di cibo, ma di affetto, di relazioni, e questa mancanza è in primo luogo con loro stessi.

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The South Africa of Jodi Bieber. Between Darkness and Light

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Italian Version

 

 

Jodi Bieber became internationally known in 2011, when her portrait of Bibi Aisha, the young Afghan woman whose ears and nose had been cut off by the Taliban, was published on the cover of Time and won the World Press Photo. “An award that actually did not get me more money or work, but which allowed me to travel, meet many people, and forced me to confront the true meaning of my projects and my activism.” In Bieber’s images, the traditional lines that separate intimacy, documentation and visual art fade and disappear. This clearly emerges from The Silence of the Ranto Twins, the photo that opens Between Darkness and Light (a solo exhibition curated by Filippo Maggia for the Carispezia Foundation, which gave me the opportunity to interview her). “I met the twins at a traditional wedding in Zeerust. Their mother told me that they did not like to talk, and I kept asking myself why,” she explains. The portraits of women condemned for killing their husbands are even better examples, as we will discuss later: they are constructed and posed purposefully, but at the same time constitute an extraordinary and precise reportage, a documentation, a cross-section of news complemented by texts and interviews.

 

For her, however, the point is clear. "I do not do photojournalism. I do not aspire to objectivity. I'm simply a photographer. I show what I see and what strikes me, always from my point of view.” And her point of view on South Africa has been one of the most acute, articulate and complex so far. 

 

In the early 1990s, the apartheid regime was coming to an end. Bieber, who came from a wealthy white family, had studied marketing and worked in an advertising agency in Johannesburg. Her everyday life was far from the separated black and colored worlds, but she was always asking questions and was consumed with anxiety. She would watch the yellow buses of the policemen going around checking the passbooks of the service staff employed by bourgeois families, feeling that there was something deeply wrong. The Market Photo Workshop courses by David Goldblatt – out of which would arise some of the most successful South African contemporary photographers (Zanele Muholi and Lebohang Kganye, for example), and which today are recognized as a point of reference for avant-garde visual education – were initially held in an old post office. She attended one of the workshops part-time for eight weeks. "Finding photography was my great fortune. It gave me the opportunity to change my life, to explore my country in a particular phase of its transformation, confronting me with its darkness and light.” In 1994, during the first democratic elections, she found herself covering the event for The Star newspaper, traveling far and wide. Seeing with her own eyes, hearing with her own ears, was a priceless privilege.

 

 

Between Darkness and Light is Bieber's first solo show in Italy, containing selected works from her very first years of "discovery" through 2010. The images are taken from four distinct series. The first is Between Dogs and Wolves: Growing up with South Africa (1994-2003), referring to harsh situations, which are always portrayed in black and white. Here we meet not only the silent Ranto twins with their embroidered bonnets and sad eyes opened wide on the world, but also children with guns and adolescent prostitutes, poor whites forced definitively into a corner at the end of apartheid. We meet lives lived on the fringes, where it is always impossible to distinguish, in the semi-darkness, the dogs from the wolves. Bieber recounts that while working on this series, she asked the founder of a charity working against child abuse to help her approach street kids. The man was kind and cooperative. During one encounter, one of the boys stole his wallet, but he did not lose his temper and continued to show compassion. Taking him back to his home by car, she thanked him, telling him that he was a good person. A few days later she saw him on the front pages of the newspapers: he was Moses Sithole, a serial killer of at least 38 women. Not only is it difficult to distinguish dogs from wolves, but it is possible to be both dog and wolf at the same time.

 

The second is Going Home: Illegality & Repatriation. South Africa/Mozambique (2000). Still in black and white, it is one of the first works focused on the suffering inflicted on illegal immigrants in the Rainbow Nation and on the cruel violence of their repatriations. A few years later, following sensational events and urban battles, the theme would reach mainstream European media, but in 2000 the xenophobia that was spreading throughout the entire South African society (and that, incidentally, brings to mind much of what we are experiencing now also in Italy) was still far from being addressed. 

 

 

 

With Women who have murdered their husbands (2005), Bieber moves to color and takes us to the Johannesburg prison, in the wing that houses women accused or convicted of killing their boyfriend or husband. "Getting permission to enter the prison and meet and photograph women who had voiced their willingness was difficult. Permission arrived while I was involved in another job, and was limited to only one day." To optimize the time there and make the most of it, she decided to use a fixed format: the woman portrayed on the bed, the only private space left to a prisoner, a detail of her corner and story. 

 

 

 

 

The murders had sometimes been accidental. Other times they were planned or even commissioned to others. However, all had occurred in relationships marked by terrible violence and abuse. All the women asked for amnesty. Until now, says Bieber, the project has not been given the amount of exposure it deserves. This is why she is particularly happy to have been able to include it in this exhibition. After 12 years however, despite several attempts, she has not been able to find out anything about the fate of those women.

 

The last series is Soweto (2009-2010), also in color. It is a project aimed at showing the vitality and richness, both human and creative, of the best-known South African township. From afternoons in the pool to outfits for graduation parties and weddings; from street art to the daily life of a sangoma (traditional healer); from bourgeois houses to tin houses alike. An amazing city, full of pain and grace. "Soweto is like Hollywood to me," wrote Sibongile Mazibuko, from the radio show Jodi FM, in the introduction of a book containing the full collection. "Everything is here." And this is also Bieber's point of view. “I do not pretend that my vision is an objective one: it is only my truth. It’s Soweto as I saw it and see it.”

 

Between Darkness and Light, as I have already mentioned, presents only some of Bieber’s works. For chronological reasons, her most recent ones were not included – most notably Bibi Aisha, which, as the photographer realizes, “is certainly my most famous photograph, but not the one I love most.” Also not included is the series Real Beauty (2015), which shows the truth of the female body, with no retouches, and would have much to say even to an audience not interested in Africa; as well as her works involving countries other than South Africa. Bieber is currently engaged in a new project that should be launched by 2018. “It concerns young South Africans who have not experienced the oppression their parents have, who live in a globalized world and want to write a new story for this country.” They are the designated actors of the coming change and, once again, she wants to see them with her own eyes and listen to them with her own ears. Enjoying the luck and privilege of photography.

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The Luck of Photography
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Il Sudafrica di Jodi Bieber. Tra luci e ombre

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English Version

 

 

Jodi Bieber è diventata internazionalmente nota nel 2011, quando il suo ritratto di Bibi Aisha, la giovane donna afghana cui i talebani avevano mozzato orecchie e naso, fu pubblicato in copertina dal Time e vinse il World Press Photo. «Un premio che in realtà non mi ha procurato più soldi o più lavoro, ma mi ha permesso di viaggiare, incontrando tante persone e confrontandomi sul modo e il senso dei miei progetti e della mia militanza». 

Nelle immagini di Bieber le linee tradizionali che separano intimismo, cronaca e visual art si stemperano fino a scomparire. Il silenzio delle gemelle Ranto, lo scatto che apreBetween Darkness and Light (la personale curata da Filippo Maggia per la Fondazione Carispezia, che ci ha dato l’occasione per intervistarla, www.fondazionecarispezia.it) rende bene l’idea. «Ho incontrato le gemelle a un matrimonio tradizionale a Zeerust. La loro mamma mi disse che non amavano parlare e io per tutto il tempo mi sono chiesta come mai» spiega nella chiosa. Ancora meglio rendono l’idea i ritratti delle donne condannate per avere ucciso i loro mariti, di cui parleremo più avanti: sono evidentemente costruiti e posati, ma al tempo stesso costituiscono uno straordinario e preciso reportage, un documento, uno spaccato di cronaca affiancato da testi e interviste. 

Per lei comunque la questione è chiara. «Non faccio fotogiornalismo. Non aspiro all’obiettività. Sono semplicemente una fotografa. Racconto quello che vedo e mi colpisce, sempre dal mio punto di vista». E il suo punto di vista sul Sudafrica è stato finora uno dei più acuti, articolati e complessi. 

 

All’inizio degli anni ’90, il regime dell’apartheid volgeva a termine. Bieber, che proveniva da una famiglia bianca e benestante, aveva studiato marketing e lavorava in un’agenzia pubblicitaria a Johannesburg. La sua quotidianità avrebbe potuto svolgersi distante dai mondi separati di black e coloured, ma lei si faceva molte domande ed era attraversata da altrettante inquietudini. Fino a qualche anno prima aveva visto i pulmini gialli dei poliziotti che giravano per controllare i passbook del personale di servizio arruolato nelle famiglie borghesi, sentendo che c’era qualcosa di profondamente sbagliato. Il Market Photo Workshop di David Goldblatt, da cui sarebbero usciti alcuni dei più validi fotografi sudafricani contemporanei (Zanele Muholi e Lebohang Kganye, per esempio) e che oggi è riconosciuto come un polo di educazione visiva d’avanguardia, era allora agli albori e teneva i suoi corsi in un vecchio ufficio postale. Lei ne frequentò uno part time per otto settimane. «Trovare la fotografia è stata la mia fortuna. Mi ha dato l’opportunità di cambiare vita, di esplorare il mio Paese in una fase particolare di trasformazione, confrontandomi appunto con le sue ombre e le sue luci». Nel 1994, in occasione delle prime elezioni democratiche, si trovò a coprire l’evento per il quotidiano The Star e viaggiò in lungo e in largo. Vedere con i propri occhi, sentire con le proprie orecchie era un privilegio senza prezzo.

 

 

Between Darkness and Light è la prima personale di Bieber in Italia. Raccoglie lavori selezionati proprio a partire proprio da quei primissimi anni di “scoperta” fino al 2010. Sono immagini tratte da quattro serie distinte. La prima è Between Dogs and Wolves: Growing up with South Africa (1994-2003) e rimanda a situazioni dure, ritratte sempre in bianco e nero. Qui incontriamo non solo le silenziose gemelle Ranto con le cuffiette ricamate e gli occhi tristi sgranati sul mondo, ma anche bambini con le pistole e adolescenti prostituite, bianchi poveri messi definitivamente all’angolo dalla fine dell’apartheid. Incontriamo vite ai margini e sempre l’impossibilità di distinguere, nella penombra, i cani dai lupi. Racconta Bieber che, mentre lavorava a questa serie, chiese al fondatore di una charity contro gli abusi infantili di aiutarla ad avvicinare i ragazzi di strada. L’uomo fu gentile e collaborativo. Durante il sopralluogo venne anche derubato del portafoglio da uno dei ragazzi, ma non perse la calma e continuò a mostrarsi comprensivo. Riaccompagnandolo a casa in auto, lei si congedò ringraziandolo e dicendogli che era proprio una brava persona. Qualche giorno dopo lo avrebbe rivisto sulle prime pagine dei giornali. Si trattava di Moses Sithole, serial killer di almeno 38 donne. Non solo è difficile distinguere i cani dai lupi, ma è possibile essere allo stesso tempo cane e lupo.

La seconda è Going Home: Illegality & Repatriation. South Africa/Mozambique (2000). Ancora in bianco e nero, è in assoluto uno dei primissimi lavori focalizzati sulle sofferenze patite dagli immigrati irregolari nel Paese Arcobaleno e sulla cruda violenza dei loro rimpatri. Qualche anno dopo, in seguito anche a clamorosi incidenti e battaglie urbane, il tema avrebbe raggiunto anche i media mainstream europei, ma nel 2000 la xenofobia che andava diffondendosi in tutti gli strati della società sudafricana (e che, per inciso, tanto ricorda quel che stiamo sperimentando adesso anche in Italia) era una questione solo abbozzata. 

  

 

 

Con Women who have murdered their husbands (2005), Bieber passa al colore e ci porta nella prigione di Johannesburg, nell’ala che accoglie donne accusate di o condannate per avere ucciso il fidanzato o il marito. «Ottenere l’autorizzazione per entrare in carcere e incontrare e fotografare le donne che avessero dato la disponibilità è stato difficile. Il permesso è arrivato mentre ero impegnata in un altro lavoro ed è stato limitato a un giorno solo». Per ottimizzare i tempi e portare a casa il risultato ha deciso di utilizzare un format fisso: la donna ritratta sul letto, l’unico spazio privato che la condizione di detenuta le lasciava, un particolare del suo angolo e la testimonianza. 

 


  

 

Gli omicidi erano stati talvolta accidentali. Altre volte pianificati o anche commissionati ad altri. Tutti comunque erano avvenuti all’interno di relazioni segnate da terribili violenze e sopraffazioni. Tutte le donne chiedevano l’amnistia. Finora, dice Bieber, il progetto non è stato esposto quanto avrebbe meritato. Per questo è particolarmente contenta di averlo potuto inserire in questa mostra. A distanza di 12 anni, nonostante vari tentativi, non è riuscita a sapere nulla del destino di quelle donne. 

 

L’ultima serie è Soweto (2009-2010). Anche questa a colori. E’ un progetto orientato a mostrare la vitalità e la ricchezza umana e creativa della township sudafricana più nota. Dai pomeriggi in piscina agli outfit ricercati per feste di laurea e matrimoni, dalla street art alle incombenze quotidiane di una sangoma (guaritrice tradizionale), dalle villette borghesi alle case di lamiera.  Una città sorprendente, piena di ferite e di grazia. Soweto is like Hollywood to me”, ha scritto Sibongile Mazibuko della radio Jodi FM nell’introduzione al volume che raccoglie l’intero lavoro. “Everything is here”. E questo è anche il punto di vista di Bieber. «Non pretendo che la mia sia una visione oggettiva: è solo la mia verità; è Soweto come l’ho vista e la vedo».

 

Between Darkness and Light, come già detto, presenta solo alcuni lavori di Bieber. Per ragioni cronologiche restano fuori quelli più recenti. In primo luogo Bibi Aisha che, come riconosce la fotografa, «è certamente lo scatto più famoso, ma non quello che amo di più». Ma anche la serie Real Beauty, del 2015, che racconta il corpo femminile nella sua verità e senza ritocchi e avrebbe molto da dire anche a un pubblico non interessato all’Africa. Restano fuori lavori realizzati in paesi diversi dal Sudafrica.  Bieber attualmente è impegnata a un nuovo progetto che dovrebbe vedere la luce entro il 2018. «Riguarda i giovani sudafricani, che non hanno vissuto l’esperienza di oppressione dei loro genitori, vivono in un mondo globalizzato e vogliono scrivere per questo Paese una storia nuova». Sono gli attori designati del cambiamento che verrà e, ancora una volta, lei desidera vederli con i propri occhi e ascoltarli con le proprie orecchie. Godendo la fortuna e il privilegio della fotografia.

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Michael Asher e i ladri di roulotte

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Una roulotte sospetta

 

Estate 1977, una roulotte parcheggiata in una strada di Münster davanti al Landesmuseum. Si tratta di una Hymer-Eriba Familia modello BS di quattro metri con le tende tirate, la porta chiusa e senza traino. Niente di memorabile. 

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Mulas prima di Ghirri e Struth

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Ugo Mulas, tra il 1959 e il 1961, rivolge la sua attenzione sull’avvento di un pubblico di massa dedito alla fruizione dell’arte negli spazi museali. D’istinto coglie i dipinti nei musei e nelle gallerie come fossero fotografie, e fotografandoli innesca un parallelismo concettuale fra i due medium. Coglie i visitatori mentre guardano le opere esposte, e intuisce una nuova variante del ritratto di gruppo: da un lato persone in carne e ossa, dall'altro ritratti pittorici e sculture.

 

Ugo Mulas, Russia (1960), Courtesy Galleria Lia Rumma.

 

Le figure dipinte e i loro spettatori vengono fissate nell’unità di un collegamento significativo e significante. Mulas dà visibilità al momento esatto in cui si esprime un modello di fruizione estetica. In Russia (1960) ritrae un gruppo di persone di spalle, colto mentre è in relazione col grande telero esposto in una sala del museo. I due piani, quello degli spettatori e quello del soggetto nel dipinto, sembrato diventati tutt’uno, fusi in una nuova immagine, formidabile, tanto che d’acchito pare un collage concettuale. In questa intuizione sembra realizzarsi “il miracolo delle immagini che creano se stesse” (A.C. Quintavalle, Conversazioni con Ugo Mulas, Parma 1973, p. 47).

 

Ugo Mulas, Danimarca 1961, Louisiana Museum of Modern Art, Courtesy Archivio Ugo Mulas.


Circa un decennio prima di Luigi Ghirri e di Mitch Epstein e trent’anni prima di Thomas Struth, il fotografo bresciano immagina che lo scatto della fotografia generi un interessante campo di equivalenze, ridefinendo la qualità dell'esperienza dei visitatori tramite una relazione differenziale con le proprietà delle opere d’arte. Intende la fotografia come un processo intellettuale e analitico di conoscenza, e cerca di riattivare un inedito dialogo fra due realtà separate. Con questo medium rende visibile l'oggetto della ricezione collettiva simultanea: coglie il nuovo soggetto estetico collettivo, ovvero il complesso del rapporto museo-spettatori. E allo stesso tempo porta a galla il conflitto in cui la pittura è stata coinvolta attraverso la riproducibilità tecnica del quadro per mezzo della fotografia. 

 

Ugo Mulas, Colloquio col vento, Consagra, Spoleto (1962), Bergamo, Collezione BACO.


Mulas è il primo fotografo-artista che legge il museo come paradigma della coscienza estetica, ovvero come una zona di contatto fra i presupposti dell’arte e le richieste della società. In questo contatto il museo e i suoi fruitori divengono un soggetto sottoposto a una continua ridefinizione. I suoi scatti rivolti ai musei, alle persone nei luoghi espositivi, agli artisti, alle loro opere, ai loro studi pongono l’attenzione sulla produzione estetica della società e sul potente catalizzatore delle ambizioni culturali del pubblico: il museo e le gallerie importanti catalizzano le masse, le trasformano nel contenuto stesso del museo, inteso come modello di tutte le forme di “socializzazione” controllata, ovvero come luogo entro cui condurre la confluenza fra l’estetizzazione della vita sociale e la socializzazione delle qualità estetiche dell'arte. 

Dal 1959, nell’arco di un decennio, Mulas continuerà a sondare le consuetudini legate alla fruizione dell’arte e a leggere le trasformazioni delle esposizioni, viaggiando per attraversare – oltre i musei, le gallerie, le inaugurazioni delle Biennali, le strade e le piazze di Spoleto per la mostra “Sculture nella città” del 1962 – anche le collezioni private d’Europa e d’America, e osservare il rapporto dei visitatori con le opere negli spazi pubblici e dei collezionisti negli interni delle loro abitazioni, dove gli oggetti d’arte appartengono ancora al rito intimo della contemplazione assorta.

 

Jan Vermeer, Allegoria della pittura (1666 ca.), Vienna, Kunsthistorisches Museum.

 

Nella storia dell’arte, il grande precedente pittorico di un soggetto descritto di spalle mentre mette in azione un’opera dello sguardo e della visione retinica è l’Allegoria della pittura (1666 ca.) di Jan Vermeer, ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna. E tornano alla mente anche quelle opere del XVII e XVIII secolo, dove i pittori raffigurano i nobili nelle sale in cui sono esposte le collezioni di quadri e di sculture. Per esempio Frans Francken il Giovane (1581–1642), Willem Van Haecht (1593–1637), David Teniers il Giovane (1610 – 1690) e Johan Zoffany (1733 – 1810) realizzano diverse versioni che hanno per soggetto i conoscitori d'arte, i diplomatici, i visitatori, ritratti nelle sale di un nobile collezionista o gli scorci delle gallerie e le Wunderkammer, dipinti che sono una combinazione tra la conversation piece e la tradizione prevalentemente fiamminga del XVII secolo.

 

Willem Van Haecht, La Galleria di Cornelis Van Der Geest (1628), Anversa, Rubenshuis.

 

Anche Ghirri dà molta importanza a questa intuizione concettuale e trasferisce l’atto del vedere dal pittore a coloro che si nutrono di opere artistiche, contemplando assorti dipinti e sculture nei musei (emblematica è Milano, Castello Sforzesco del 1986, dove un gruppo di persone guarda la Pietà Rondanini, mentre, come nelle pale o negli affreschi rinascimentali, uno degli astanti rivolge gli occhi verso chi ha realizzato l’opera, fuori campo). Nella serie Diaframma 11, 1\125, luce naturale (1970-1979), poi declinata ulteriormente con altri scatti realizzati tra il 1980 e il 1988, Ghirri ingloba le persone che si rapportano con le immagini, trasformandole nella stessa sostanza, così che il loro atto entri nell’opera di chi li ha visti vedere:  “Questo essere attori sempre, di avvenimenti che in gran parte non conosciamo, su fondali e quinte fittizie, anche quando deleghiamo a una fotografia una nostra identità è per non dimenticare che la ricerca di una identità è sempre una strada difficile. Per questo, accanto a una serie di persone in posa per la foto ricordo, voglio sottolineare l’esistenza di un’immagine altra che io non ho mai visto, del tutto simile alla mia e nella quale e solamente nell’altra è intenzionalmente l’immagine che desiderano dare di se stessi”.

 

Johan Zoffany, Veduta della Tribuna degli Uffizi (1776), Windsor, Royal Collection.


Questa tipologia verrà ripresa e percorsa da Thomas Struth dal 1989, con fotografie di grandi dimensioni: il ciclo Museum Photographs coglie la sovrapposizione di una sfera mondana estetizzata e di opere d’arte funzionali alle esigenze della società dello spettacolo, entro il fenomeno della museificazione spontanea. Testimonia la corrispondenza fra la composizione dei dipinti e l’involontaria disposizione dei turisti nel museo. Struth mette in scena visitatori che riflettono anche mimeticamente l’arrangiamento spaziale, le posture e i colori dei dipinti: «Ho avuto le prime idee al Louvre nel periodo di Natale; era molto affollato e ho pensato che il mondo dei visitatori del Louvre, persone dall'età e provenienza etnica più diversa, fosse incredibilmente simile ai temi dei dipinti».

 

Luigi Ghirri, Milano, Castello Sforzesco (1986), Bergamo, Collezione privata.

 

I suoi scatti scelgono come soggetto portante la difficile coabitazione del museo e delle opere d’arte con il turismo culturale. Il complesso visitatori-opere-museo raffigurato dalle Museum Photographs fa percepire anche la presenza di un cortocircuito: lo spazio espositivo, istituzionalizzato e divenuto soggetto per l’arte, fa convergere arte e società nella loro paralisi museale. Struth mostra l’eguale rilevanza compositiva che assumono i capolavori dell’arte moderna e i turisti che esistono nello stesso spazio. Allo stesso tempo ci si accorge che lo spazio museale rappresenta la scena di un mancato dialogo fra i turisti e le opere. 

 

Mitch Epstein, Springfield, Massachusetts, 1973, Bergamo, Collezione privata.


Ritornando a Mulas e alle persone raccolte in luoghi espositivi, ho ritrovato scatti eloquenti nel volume edito recentemente da Humboldt Books, che raccoglie le immagini e gli scritti realizzati durante un reportage condotto in Danimarca nel 1961 (con testi di Dario Borso e Giorgio Zampa, Milano 2017, pp. 94, euro 18). Notevole la fotografia (a pagina 67) che collega la natura – le erbe del giardino e il monumentale albero secolare – con la trasparenza riflettente delle vetrate esterne del Louisiana Museum of Modern Art.

 

Thomas Struth, National Gallery, London (1989).


E il sottile rapporto esterno/interno viene condotto in modo magistrale nei due scatti dove le persone che guardano le opere nel museo sono figure in controluce, mentre sullo sfondo le grandi vetrate fungono da diaframma concettuale e lasciano vedere il laghetto e la lussureggiante vegetazione. I fruitori dell’arte nello spazio museale qui paiono privati delle loro connotazioni fisiognomiche, sagome in ombra rispetto all’apertura verso la realtà della natura, quasi fossero solo comparse, messe lì per far risaltare il biancore della luce e i riflessi degli alberi nel lago che vibrano al di là delle vetrate, come in un grande quadro pittorico.

 

Ugo Mulas, Danimarca 1961, Louisiana Museum of Modern Art, Courtesy Archivio Ugo Mulas.

 

E notevole è anche la fotografia che apre la sequenza montata nel libro, dove turisti ripresi di spalle, sul viale chiaro che porta a una residenza maestosa, nel chiarore di un giorno soleggiato, nella sua semplicità è esemplare per svelare la poetica di Mulas: “Ho sempre avuto, prima istintivamente poi consapevolmente, una tendenza a riprendere quelle cose che sono banali”.__title__

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James Nachtwey. Memoria

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“Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”, scriveva J.L. Borges. Cosa si delinea sul volto del fotografo James Nachtwey? Una mappa fatta di dolore, un viaggio senza ritorno nei posti peggiori della Terra. È questa la sua memoria, una linea del tempo infinita su cui si collocano conflitti, guerre e morte: una strada di Kabul invasa dalle macerie, il fantasma di una donna avvolta da un burka, i frantumi dell’11 settembre, il cecchino appostato nella stanza di una casa. E molto altro. C’è qualcosa di crudele nella memoria di Nachtwey. Non vi è traccia di riscatto religioso, politico o storico. Solo disincanto. Essa delinea un percorso dove la storia dell’uomo va disgregandosi anziché costruirsi nel suo cammino. La morte, la violenza e la miseria non smettono di esistere. La storia si fa ancora con le mine antiuomo e i machete. Il fotografo può solo attraversare il mondo facendo esperienza della sua precarietà e di quella della condizione umana: chi muore e chi guarda la morte.

 

James Nachtwey, La torre sud del World Trade Center collassa in seguito allo schianto dell’aereo. USA, New York, 2001, © James Nachtwey/Contrasto.

 

Le sue foto non riguardano solo l’alterità, ovvero ciò che appare nell’immagine, bensì l’identità di chi guarda. O meglio, ciò che ci riguarda. Ognuno di noi può identificarsi nella madre che assiste il figlio morente, o l’empatia dura il tempo di uno sguardo? Che sentimenti ci assalgono: tristezza, ammirazione, rabbia? Quanto ci sentiamo innocenti dinnanzi ad esse? È difficile rispondere. Pare che l’intento del fotografo non sia quello di generare vergogna, rifiuto, senso di colpa, e forse nemmeno un invito alla partecipazione. Ma quello di produrre una riflessione sul potere del nostro sguardo in relazione al suo. La distanza è incolmabile, come la distanza tra noi e le tragedie che vediamo cristallizzate nelle fotografie esposte a Palazzo Reale. Facile vedere, difficile reagire.

La documentazione senza compromessi della sofferenza fisica è difficile da sopportare, bisogna essere come il fotografo per non distogliere lo sguardo dai corpi sfregiati, dalle carestie, dalla violenza. Nessuno vorrebbe vedere le cose mostrate da Nachtwey.

 

James Nachtwey, La battaglia per il controllo di Mostar è avvenuta di casa in casa, di stanza in stanza, tra vicini. Una camera da letto è diventata un campo di battaglia. Bosnia-Erzegovina, Mostar, 1993, © James Nachtwey/Contrasto.

 

Cosa vuole dirci una foto in cui si vede una donna afgana che piange la morte del fratello in un cimitero di Kabul, o quella di un bambino con il volto distorto da un urlo rabbioso, abbandonato sulla rete di un letto in un orfanotrofio rumeno? Se è vero che fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona, cosa accade in chi guarda? Da cosa siamo coinvolti? Forse dalla distanza che all’improvviso, come uno squarcio, si materializza fra noi e i volti di coloro che stanno per morire o sono già morti. La consapevolezza della nostra impotenza. Non esiste coincidenza tra il nostro sguardo e quello di Nachtwey, l’esperienza è per noi il vuoto, per lui il senso di ciò che fa. “Io sono un testimone”, afferma il fotografo, “la mia testimonianza sono le mie fotografie. Voglio che siano potenti ed eloquenti, oneste e senza censure”. Ed è vero.

 

James Nachtwey, In una delle prime manifestazioni della seconda Intifada palestinese, i dimostranti lanciano pietre e molotov contro i soldati, che sparano munizioni vere e proiettili di gomma, a volte letali. Cisgiordania, Ramallah, 2000, © James Nachtwey/Contrasto.

 

Chi guarda sperimenta il paradosso di poter essere in luoghi inimmaginabili senza esserci per davvero. E tuttavia non potremo mai coincidere con quello che vediamo per un banalissimo motivo: non lo vogliamo. Empatia e compassione sono per pochi. La fotografia ci mostra la forma di questa inadeguatezza. Noi da una parte, loro dall’altra. E nel mezzo solo qualche immagine, piccole porzioni di reale, pochi istanti. Si potrebbe persino dire che le immagini di Nachtwey sono vuoti che mostrano il nostro vuoto. Specchi senza riflesso. È questo che significa stare davanti al dolore degli altri. È questo il dolore che proviamo davvero. Il dolore per la nostra marginalità, la nostra incapacità, la nostra insignificanza. Anche noi siamo morti perché è morto il nostro coraggio. È questo il vero punto in comune tra noi e le foto di Nachtwey.

 

James Nachtwey, Una madre veglia sul figlio. Sudan, Darfur, 2003, © James Nachtwey/Contrasto.

 

Per il resto possiamo solo guardare. L’atto di conoscere è forse l’ultimo baluardo rimasto contro la morte e l’impotenza, qualcosa che si ignora sino ad un attimo prima e poi viene accolto come proprio. Una luce flebile come la bellezza, che emerge, malgrado tutto, dalle immagini del fotografo americano: la compostezza formale, la perfezione geometrica e grafica, i contrasti di luce che ricordano i quadri di Caravaggio. Una forma di consolazione? No. La semplice constatazione che esiste un profondo divario tra la vita e le sue immagini. Forse si tratta semplicemente di un gesto umano, come un abbraccio, la necessità di qualcosa che ecceda il dolore e la sua brutalità.

Non c’è molto da dire sulla vita di James Nachtwey, se non che è innanzitutto un fotoreporter. Nasce a Syracuse nello stato di New York, nel 1948. Studia storia dell’arte e scienze politiche al Darthmouth College alla fine degli anni Sessanta. La sua decisione di diventare fotografo, ha dichiarato, è stata influenzata dalle foto sui diritti civili e contro la guerra, soprattutto le immagini della guerra in Vietnam. Autodidatta in fotografia, nel 1980 si trasferisce a New York e nel 1981 si reca in Irlanda a documentare gli scioperi della fame dell’I.R.A. Nel 1986 entra alla Magnum e quindici anni dopo fonda, insieme ad altri sei colleghi, una nuova cooperativa di fotografi di nome VII.

Ad oggi non ha smesso di fotografare e di testimoniare.

 

James Nachtwey. Memoria, a cura di James Nachtwey e Roberto Koch, Palazzo Reale a Milano (1/12/2017 - 4/3/2018).

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I sogni nel cassonetto

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Fra i registi contemporanei, forse nessuno riesce a mettere in difficoltà il recensore quanto Woody Allen. Da una parte per via della sua inarrestabile prolificità (un film all'anno da quasi cinquant'anni, con impressionante regolarità); dall'altro, l'assoluta trasparenza di ciascun lavoro e la sostanziale “prevedibilità” delle scelte tematiche e stilistiche (e quante volte abbiamo letto o sentito dire che “Allen fa sempre lo stesso film”?). Un unicum di cui spesso è difficile rendere conto senza rifugiarsi nello schematismo “sì/no/ni”.

 

 

 

Prendiamo questo La ruota delle meraviglie. Uscendo dal cinema con alcuni amici, ci scambiamo pareri a caldo, ma il copione è già scritto: uno dice che il film è bolso, un altro replica che non ha senso definirlo così, un altro ancora che è tutto sommato meglio del precedente. Dopodiché si passa ai confronti: c'è chi confonde i titoli (Magic in the Moonlightè venuto prima o dopo di Blue Jasmine?) e chi ammette sottovoce di averne perso qualcuno per strada (qualcuno si ricorda di Sogni e delitti?). In ultimo, si intona la solita commemorazione al personaggio Allen e al suo cinema che fu. Commemorazione inevitabilmente provvisoria, destinata com'è a durare soltanto fino al prossimo film. Vien da pensare che recarsi al cinema per un film di Allen ha più a che vedere con l'antropologia spettatoriale che con la cinefilia in senso stretto. Bisognerebbe anzi dedicarsi allo studio dei meccanismi psicologici che guidano lo spettatore alleniano, magari cominciando da quell'inconfondibile «senso di cordialità e calore» che emana dal font “Windsor” dei titoli di testa (una questione che gira in rete da qualche anno e che è stata recentemente ripresa in un articolo molto divertente di Piero Trellini).

 

La ruota delle meraviglie non è esattamente un'eccezione alla regola. La trama, ambientata a Coney Island e dintorni negli anni Cinquanta, intreccia le vicende di quattro personaggi: Ginny (Kate Winslet), cameriera in un ristorante di pesce con un passato da attrice; Humpty (Jim Belushi), suo secondo marito, giostraio nonché ex alcolista; Carolina (Juno Temple), sua figlia di primo letto, già “pupa del gangster”, che ritorna inaspettata da papà con la coda fra le gambe e due malavitosi alle calcagna; infine Mickey (Justin Timberlake), narratore non esattamente attendibile della storia, bagnino e aspirante drammaturgo, che seduce entrambe le donne, provocando la pericolosa gelosia dell'una e condannando involontariamente l'altra a una brutta fine.

 

Justin Timberlake, Kate Winslet e Juno Temple.


Già da questo stringatissimo resoconto si respira una certa aria di famiglia. La Ginny di Kate Winslet, per esempio, col suo carico di ambizioni frustrate e i suoi rovesci esistenziali, è una sorta di versione proletaria della Jasmine di Cate Blanchett, incluse le strizzate d'occhio a Tennessee Williams (e forse anche al Wilder di Viale del tramonto); mentre il narratore interno che si rivolge direttamente allo spettatore, è una figura ricorrente nel cinema di Allen fin dai tempi di Amore e guerra: correva l'anno 1975.

 

Anche i temi squadernati dal film sono i soliti: il conflitto fra realtà e illusione, che nutre buona parte della produzione alleniana, a cominciare da un capolavoro come La Rosa Purpurea del Cairo (1985); e la questione della responsabilità morale e del senso di colpa, sulla quale il Nostro è tornato con una consuetudine quasi ossessiva negli ultimi anni, da Match Point a Irrational Man. Il tutto, naturalmente, esposto alla maniera dell'ultimo Allen, cioè riducendo i sottintesi al minimo e dichiarando il tutto a voce spiegata, con didascalica insistenza; di contro, si nota un sempre più frequente (e preoccupante) disinteresse nei confronti della tenuta del racconto, con passaggi rabberciati alla sans façon e svolte narrative risolte in modo spesso meccanico o sciatto.

 

Insomma, se La ruota delle meraviglie ha delle qualità, vanno cercate altrove. Per esempio, nell'inedita piega cinéphile dell'estetica alleniana. Per la prima volta, nelle sue sempre più numerose incursioni nel passato (ben tre negli ultimi sette film, volendo escludere il “viaggio nel tempo” di Midnight in Paris), il Nostro affronta gli anni Cinquanta. E lo fa affidando le luci a Vittorio Storaro, che inventa per il film una tavolozza di colori squillanti alla Norman Rockwell. Una scelta che ha fatto storcere il naso a molti, ma che a mio avviso risulta pienamente funzionale. Difatti, se in passato – e soprattutto per i suoi film (melo)drammatici – Allen aveva guardato perlopiù Oltreoceano, al bianco e nero di Fellini o ai colori lividi di Bergman, stavolta decide di fare un tuffo in pieno melò hollywoodiano, ispirandosi a un maestro del genere come Douglas Sirk. Il quale, come anche i meno cinefili sanno, si serviva dei colori sovraccarichi, giulebbosi e volutamente kitsch del Technicolor per dare quella patina d'irrealtà ai conflitti (sociali e di genere) che nell'America di Eisenhower non potevano essere trattati apertamente.

 

 

Nella stessa direzione sembra andare la scelta di Coney Island come sfondo della vicenda, “rivitalizzata” per l'occasione con una robusta dose (insolita per Allen) di effetti digitali. Anche qui è in gioco la memoria del cinema, soprattutto di quello muto: Buster Keaton & Fatty Arbuckle (Coney Island, 1917), Clara Bow (It, 1927), Harold Lloyd (Speedy, 1928); e c'è anche la memoria dello stesso Allen, a cominciare dall'indimenticabile casetta sotto le montagne russe di Io e Annie. Ma la Coney Island degli anni Cinquanta è soprattutto l'epitome ormai in declino del divertimento di massa, o, per dirla con Rem Koolhaas, «il luogo di riposo definitivo per frammenti futuristici, cianfrusaglie meccaniche e spazzatura tecnologica». Una discarica di sogni, in altre parole. Più che le facili allegorie (vedi la giostra e la ruota delle meraviglie), è proprio l'aria di putrefazione emanata dai baracconi in via di smantellamento a fornire uno degli aspetti più suggestivi del film: il contrasto fra i sogni dei personaggi e il destino di decadenza e morte che attende tutti quanti.

 

Paese dei sogni inevitabilmente destinato a un fin troppo brusco risveglio (come ricorda Koolhaas, “Dreamland” era appunto il nome del più vasto parco di divertimento dell'isola, ridotto in cenere da un incendio già nel 1911), Coney Island è però in grado di produrre da sé i propri “anticorpi”. Alla memoria cinefila del luogo è legato infatti Il piccolo fuggitivo (1953), caposaldo del cinema indipendente “made in NY” e incentrato sui “quattrocento colpi” domenicali di un ragazzino sperduto fra le attrazioni del parco. Non so se Allen l'abbia visto, ma sembra venire proprio da quel film l'invenzione più originale de La ruota delle meraviglie: Richie (Jack Gore), figlio che Ginny ha avuto dal primo marito e che più di tutti sembra vittima delle frustrazioni degli adulti intorno a lui. Sembra. Perché mentre gli adulti si abbandonano ai propri sogni impossibili, lui si accontenta delle fantasie a buon mercato di Hollywood (lo vediamo brigare sui centesimi per poter correre al cinema). E se nel film tutti cercano di costruire qualcosa di nuovo e duraturo, Richie assembla complesse “sculture” con pezzi di manichini e oggetti trovati qua e là (altri rifiuti, altri rottami...) soltanto per il gusto di dar loro fuoco. Un'immagine surrealista, quasi magrittiana. 

 

«Spesso mi domando cosa ci veda quel ragazzino, dentro quelle fiamme», si domanda sua madre. La sceneggiatura non spiega nulla: Richie è una figura sfuggita di mano ad Allen (per fortuna!), una scheggia impazzita nella quale chiunque è libero di vedere quel che preferisce. Un piccolo angelo sterminatore del mondo ipocrita degli adulti? L'annuncio del caos imminente? L'incarnazione stessa di Coney Island, della sua insopprimibile vocazione alla catastrofe? Per quanto mi riguarda, mi piace pensarlo come un alter-ego in miniatura dl meticoloso Woody, che da mezzo secolo in qua, con pazienza mette insieme i cocci sparpagliati del nostro mondo e, una volta all'anno, brucia tutto nella luce abbagliante del grande schermo.

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