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L'Italia perduta di Giovanni Comisso

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Ci sono scrittori che, nonostante il favore della critica più avvertita, il piacere che offrono alla lettura, il Meridiano che li consacra nel canone novecentesco, restano sempre in secondo piano, in attesa di una popolarità che non arriva mai. Nonostante sia stato apprezzato da Montale, Contini, Pasolini, Piovene, Zanzotto e da vari altri critici o scrittori (negli ultimi anni Fofi e La Capria), nonostante esista una bellissima biografia di Nico Naldini, non è mai scoccata l’ora di Giovanni Comisso (1895-1969). Perché? Non c’è una sola risposta: il disordine con cui ha organizzato i suoi libri, spesso messi insieme riutilizzando cose apparse già in altri volumi, la posizione di outsider che tenne fin dall’inizio nella nostra società letteraria, l’incapacità di dare il ritmo del romanzo alla sua prosa, ma soprattutto, direi, Comisso non è in genere materia per professori universitari, quelli che stabiliscono canoni, valori e gerarchie della storia della letteratura. Tuffarsi tra le sue carte rappresenta “la disperazione del bibliografo”, come ha scritto Gianfranco Contini, per “gli incessanti rimaneggiamenti strutturali”. Così quasi tutti si sono astenuti da un lavoro serio sull’opera di Giovanni Comisso, scrittore in ogni caso destinato a restare nella storia del Novecento letterario, almeno per Gente di mare (1928), che narra avventure di pesca nell’Adriatico, Giorni di guerra (1930), uno dei grandi libri sulla Prima guerra mondiale, Mio sodalizio con De Pisis (1954). Comisso è uno dei pochi, autentici, scrittori di viaggio italiani. Raccomandava: “viaggi lontani da giovani, viaggi vicini da vecchi”. 

 

Ph Rudolf Pestalozzi.


Sono usciti negli ultimi mesi due piccoli, bellissimi, libri che consentono di avvicinarsi a Comisso a chi ancora non lo conosce: Viaggi nell’Italia perduta, a cura di Nicola De Cilia (Edizioni dell’Asino, 10 euro) e Il poeta fotografo, a cura di Giuseppe Sandrini (Alba Pratalia, s.i.p). Il primo raccoglie una serie di viaggi che lo scrittore trevigiano compì per i quotidiani per la nostra penisola tra gli anni Trenta e i primi anni Sessanta: l’Italia prima delle autostrade, l’Italia ‘virgiliana’ di cui parla Pasolini. Esplorata soprattutto in automobile con l’ineffabile autista Gigetto Figallo, alla ricerca delle tradizioni, dei piatti rustici, dei mercati, delle feste paesane, insomma di tutto ciò che poteva esprimere la cultura di un popolo. Toscana, Sardegna, Sicilia, Napoli, il natìo Veneto, appaiono bellissimi, spesso incantati, quasi fuori dal tempo, anche se già minacciati da traffici, speculazioni, da una modernità subita (questo negli scritti del secondo dopoguerra, dopo che gli Americani risalirono la Penisola incrinando per sempre il nostro costume). Comisso è come se scrivesse sulla seta, in una prosa finissima e resistente allo stesso tempo, che si accorda al battito interno della vita. È anche dotato di un fine orecchio musicale e descrive una città attraverso i suoni. È il caso di Chioggia o di Napoli.

 

Qualche esempio, quasi a caso: “Poco o nulla sapevo della Sardegna. I miei soldati sardi, durante la guerra, quando ritornavano dalla licenza, mi portavano in dono i loro dolci casalinghi squisiti per il miele fuso alle bucce di arancia. Erano neri di occhi, di sopracciglia e di capelli e le loro guance di un pallore sano, come maturato da soli antichissimi. Ricordavo la loro ubbidienza ed esattezza a ogni lavoro, il loro parlare di rado, in un italiano stretto, quasi filtrato”. Un esempio tratto da Il poeta fotografo: “Vanno nella notte primaverile per le strade del Veneto e della Lombardia torme di cavalli assonnati con coperte sulla groppa e teste incappucciate, accompagnati da cavallari bislacchi che di tanto in tanto li aizzano con grida che sembrano singulti. Vanno e rasentano i colli da cui sovrastano gli antichi castelli, rasentano il lago fresco di brezza notturna, rasentano l’Adige che porta seco ancora l’aria delle montagne”. La scrittura di Comisso è pittorica e sensoriale al tempo stesso, tesa a cogliere “l’ansito interno dei fatti”, in gara (o meglio, percorrendo un’altra strada), come dimostra da par suo Sandrini, con le possibilità della fotografia e poi del cinema che hanno cambiato dall’Ottocento il modo di scrivere (il punto di partenza è Flaubert). 

 

Leggere Comisso è anche un invito a uscire di casa e scoprire e difendere quello che resta di bello delle nostre contrade: la Laguna veneta, l’aspra Sicilia attorno all’Etna, la Sardegna petrosa, le strade di Napoli, ma anche le persone che le abitano e che ancora rispecchiano, nel bagliore dei loro sguardi, l’eterna freschezza del nostro volto millenario.

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Un outsider
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Memoria Festival

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Quest’anno dal 7 al 10 giugno l’appuntamento è con la seconda edizione del Memoria Festival, promosso dal Consorzio per il Festival della Memoria in collaborazione con Giulio Einaudi editore.

 

In compagnia di numerosi protagonisti italiani della cultura, del pensiero e dello spettacolo, il Festival invita il suo pubblico ad arrestare il tempo frenetico dell’immediatezza, della quotidianità, per riscoprire il piacere di concentrarsi e lasciarsi coinvolgere in riflessioni, dibattiti, proiezioni, giochi e attività diverse.
 

Quando si parla di memoria si fa riferimento al fondamento stesso della conoscenza e dell’azione individuale e collettiva. La memoria plasma come un demiurgo il carattere degli individui e dei popoli: conservandone esperienze e informazioni, crea i presupposti essenziali di qualsiasi comportamento e progresso. La cultura del cambiamento e l’innovazione, infatti, trovano vie privilegiate e terreni fecondi solo su percorsi di crescita sviluppati nel passato e fondati, cresciuti, sulla ricchezza della memoria.

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Mirandola, 7/10 Giugno 2018
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Lettera da Londra

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London calling cantavano, nel cuore del punk, i Clash. Londra perde rapidamente il suo statuto di capitale dell’impero economico d’occidente, mentre le grandi finanziarie, temendo il boomerang di Brexit, stanno cominciando a far fagotto, e a scegliere altre ambientazioni per la loro recita. I barboni dormono per strada su materassi improvvisati vicino alle stazioni della metro.

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Come rivoluzionare la rivoluzione digitale?

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Cosa significa essere rivoluzionari dopo la rivoluzione digitale? Per Evgenij Morozov non si tratta di sicuro di riaffermare un pensiero luddista, né di provare un disgusto morale nei confronti della tecnologia. “Posso pensare a modalità veramente differenti per mettere l’intelligenza artificiale al servizio delle persone? Certo. Mi piacerebbe non farlo? No”. Per il sociologo bielorusso, evitare un ingaggio diretto sul destino del rapporto tra tecnologia e umanità significherebbe tornare indietro a un modello passato, quindi uno spreco di tempo. “La domanda che dovremmo farci è, allora, come arrivare a un nuovo modello”.

Il primo tassello, per Morozov, è non reificare la narrazione della tecnologia come se prima non vi fosse nulla e osservarla all’interno di un più ampio “sistema socio-politico e socio-economico di cui abbiamo perso il controllo tempo fa”. Questo implica riconoscere che, qualsiasi uso si possa fare della tecnologia, finisce comunque sempre a seguire la logica di quel sistema, uscendo così da un atteggiamento ingenuo.

Riconoscere questa situazione è già di per sé un gesto rivoluzionario e così, incontrando Morozov alla giornata inaugurale del festival Fotografia Europea a Reggio Emilia, quest’anno proprio dedicato al tema “Rivoluzione”, ne abbiamo approfittato per discutere insieme dell’argomento. Proviamo ad applicare questo ragionamento, per esempio, alla sharing economy, così, tanto per toglierci da dosso un po’ di ingenuità: “Non c’è niente di sbagliato, in astratto, nell’idea che si possano usare le risorse in modo più efficiente permettendo alle persone di accedervi in tempo reale e di decidere in che modo usarle”. 

Tuttavia, oggi è un chiaro esempio di quanto l’emancipazione derivata dal digitale abbia un carattere “predatorio” e per certi versi assolutista. Se pensiamo all’economia della condivisione come a un ciclo, nella prima parte ci sentiamo liberati e responsabili dell’universo; nella seconda parte del ciclo, invece, lo idealizziamo come se fosse qualcosa di unico. Eppure, non c’è niente che arrivi dal nulla. 

“Già negli anni Sessanta, ad Amsterdam, le persone avevano iniziato a condividere le biciclette tra di loro, in modo gratuito, per spostarsi nella città, senza bisogno di scaricare nessuna app. Il fatto che tutti questi processi di condivisione e di vita in comune siano stati rimodulati e riproposti, con l’avvento di aziende quali Airbnb e Uber, come se non si fossero mai verificati in precedenza, è qualcosa di molto rilevante”.

 

La narrazione è una chiave essenziale. Come si raccontano le multinazionali della tecnologia rispetto alla storia e al capitalismo?

 

“Si presentano come fossero fuori dal capitalismo e un caso unico della storia. Steve Jobs, tanto per fare un esempio, raccontava come avesse sviluppato Apple in un garage insieme a Steve Wozniak, mentre invece è cresciuta per decenni grazie a fondi militari per la ricerca informatica indirizzati a Stanford, di cui hanno beneficiato. Quando dico che un’azienda come Apple si presenta come se fosse fuori dalla storia, mi riferisco alla tendenza narrativa di omettere l’impatto della Guerra Fredda sull’industria informatica statunitense e di favorire, di conseguenza, quella per cui si nega tale prospettiva e si pretende che tutto sia stato creato da un gruppo di geni che lavoravano in strada.”

 

Agli inizi, internet era visto come una grande opportunità di libertà, una risorsa che rendeva possibile una conversazione più ampia, su scala globale. Se pensiamo al concetto di capitalismo della sorveglianza o all’immagine di software che prendono il comando, parafrasando il titolo di un libro di Lev Manovich, internet non è mai stato libero.

 

“Sono quel tipo di persona che non crede all’esistenza di Internet, quindi dovremmo chiederlo a qualcun altro. Cosa è internet se non un protocollo Tcp/Ip che regola il traffico di dati tra punti differenti? Di altro, ci sono piuttosto i discorsi su internet ed è a questo che ci possiamo riferire. Se avessimo chiesto a un insieme di persone che lavoravano al MIT cosa fosse internet nel 1982, avrebbero risposto ‘un’abbreviazione per il protocollo Tcp/Ip che regola il modo con cui diversi nodi scambiano traffico di dati tra di loro’, affermando la natura egualitaria di questo scambio. La risposta alla stessa domanda, rivolta alle persone nel 1999, sarebbe stata AOL. Se chiediamo in giro, ora, cosa sia internet, la risposta sarebbe, invece, Facebook o Skype. Dal mio punto di vista, considero internet qualcosa da studiare, piuttosto che da spiegare. Per me non esiste internet come oggetto stabile di cui puoi tracciare la storia in modo lineare, in quanto la storia in sé stessa varia sulla base di particolari contingenze storiche, interpretazioni ed equilibri di forze politiche. Per le persone che vivono in Africa, internet è una cosa molto diversa rispetto all’esperienza che ne hanno, per esempio, i norvegesi. In questo senso, la maggior parte dei problemi nella nostra narrativa è legata a questa sciocca concezione di internet come medium, che puoi paragonare alla televisione o ai giornali. Dal mio punto di vista, non è mai stata una buona idea neppure parlare della televisione come medium, in quanto è indeterminata. Se ci basiamo sui protocolli tecnologici che la fanno funzionare, non è possibile arrivare a conclusioni definitive sulla sua forma sociale, politica e culturale. Certamente si possono proporre analisi circoscritte, ma di certo non è possibile descrivere in dettaglio, per esempio, l’impatto della televisione via cavo focalizzandosi solo su come la sua natura tecnica ne modella il contenuto. Non credo in quella teoria.”

 

Insomma, ci dice che il medium non è il messaggio e che bisogna considerare il sistema all’interno del quale è prodotto. Non le pare che la sua posizione metta da parte anche le teorie che analizzano la specificità dei media visivi proprio a partire dalla dimensione dello schermo, e da quello che sullo schermo viene mostrato?

 

“Nella storia dell’arte vi sono discorsi relativi alla specificità dei media che mi portano a suggerire che non vi sia una idea fissa e condivisa di cosa sia un medium, in quanto non è ovvio cosa sia. Quando inizi a riflettere su un qualsiasi medium, di solito è già nelle mani delle persone che lo utilizzano e ne modellano usi e consumi. Ho studiato molte ricerche sulle origini della televisione via cavo e ho trovato interessante i numerosi riferimenti a queste persone hippy, radicali e anarchiche che pensavano come la televisione via cavo potesse liberarli dal dominio dei network televisivi che imponevano i propri contenuti, in modo tale che le persone di una stessa comunità di quartiere usufruissero della televisione via cavo per trasmettere, in modalità anche ristretta, le loro produzioni. Per quale motivo non è successo tutto questo? Per il fatto che la battaglia politica, legale ed economica per renderla tale ha fallito e che vi sono elementi inerenti al sistema della televisione via cavo che sono per forza centralizzati.”

 

Questa storia ha molte analogie con i primi visionari del web. Mi ricorda molto le posizioni di John Perry Barlow, il paroliere dei Grateful Dead, che come altri pensava a internet secondo lo schema di un’utopia digitale per cui il cyberspazio fosse un mondo a cui chiunque poteva accedere, senza privilegi di sorta o pregiudizi. Mi viene da pensare che, allora, sebbene cambi la forma e la sostanza, in fondo i processi restano immutati.

 

“La capacità di sviluppare i media in modo tale che fossero uno strumento di emancipazione è sempre stata presente, ma c’è una ragione per la quale non ha avuto successo. Da una parte, ha a che fare con l’inabilità dei sostenitori di questi media nel loro potenziale emancipatorio di mobilitare la folla perché condivida e segua la loro visione dei media. Dall’altra parte, ha a che fare con una visione deterministica dei media. Se osserviamo la televisione via cavo nei primi anni Settanta, troviamo Marshall McLuhan che domina la scena con la sua teoria dei media e su come sia possibile confrontare i diversi media tra loro. Così, se iniziamo a fare paragoni tra la televisione e il libro, emerge una idea statica di medium. Ciò può avere un senso nel caso del libro, perché per oltre quattrocento anni vi è stata una ricorsività distintiva e condivisa di quello che è, influenzata da dinamiche storiche e forze di potere che hanno contribuito a risolvere problemi di copyright, design, pirateria e così via. Nel caso della televisione, al contrario, la situazione è diversa, molto più fluida. 

Il risultato è che i confronti proposti da McLuhan, sebbene bizzarri, hanno avuto un effetto performativo. Più le sue dichiarazioni si sono diffuse, più hanno avuto un impatto sul modo di vedere il mondo e di intendere gli strumenti che lo rappresentano, soprattutto in relazione all’accettazione, nel senso comune, che vi sia qualcosa di fisso e immutabile nella natura della televisione. 

Internet, invece, ha vissuto un processo diverso, in quanto la quantità di soldi investiti e la composizione del capitale che arriva in questo settore industriale sono tali per cui stabili tendenze non hanno prospettive a lungo termine, poiché esiste sempre qualcuno con soldi e potere in grado di essere più disruptive. Adesso, per esempio, vi sono talmente tanti investimenti sull’implementazione della blockchain, che tutti parlano di blockchain e nessuno di internet, in quanto vi sono più risorse a sostegno di una nuova narrativa che presenta la blockchain come un elemento contrastante rispetto a internet, che viene ora presentato come una grande forza centralizzata, esattamente il contrario del racconto degli albori. Il tono e la direzione della narrazione sulle tecnologie sono parte del funzionamento e delle condizioni materiali della tecnologia stessa.”

 

 

A proposito di nuovi trend e potere, la serie tv Mr. Robot parla di tensioni politiche tra corporation, software houses, hackers e governi nazionali, in particolare tra Usa e Cina. Se software e internet sono elementi dominanti della società, in che modo i giganti del web giocano una partita non solo a livello economico ma a livello geopolitico? 

 

“Non c’è niente di digitale nella battaglia sul digitale, visto che ha come obiettivo il dominio sull’economia. Di certo non ha nulla a che fare con il controllo sulla speculazione mondiale che produce i meme sui gatti. Per intenderci, non stiamo parlando di un dibattito sui social media, ma su chi è in grado di accumulare il maggior numero di dati per creare il più efficiente e attento software che implementi sistemi di intelligenza artificiale, come per esempio il riconoscimento cognitivo e visivo di facce o di oggetti. Si tratta della nuova colonna vertebrale intorno alla quale il capitalismo si sta ristrutturando. 

Inoltre, se guardiamo alle forme in cui il capitalismo si esprime, tendono a essere razionali, sebbene possano, a livello generale, avere un atteggiamento irrazionale. A livello individuale, infatti, vengono applicati modelli di conseguenza logici e sistematici. Se per ottenere qualcosa nel modo meno costoso fosse necessario delegare interamente, che so, ad Amazon, determinate operazioni, questo verrebbe fatto, anche a costo di causare un collasso dell’intera economia, perché non è un loro problema. Quindi, potremmo dire che i cinesi hanno semplicemente capito cosa sta accadendo a livello delle maggiori aziende e che queste aziende hanno bisogno di dati per sviluppare sistemi di intelligenza artificiale, così come dieci anni fa avevano bisogno del cloud computing. Gli Stati Uniti hanno riconosciuto questo trend anni fa non solo a livello aziendale, ma anche a livello politico. A questo possiamo ricondurre la questione Cambridge Analytica, che mi sembra utile solo a mobilitare l’attenzione pubblica. Il digitale viene scomodato per avere titoli sui giornali e sui notiziari, ma non perché ci sia il digitale, ma perché c’è Trump, secondo la supposizione per cui l’aver fatto qualcosa di sbagliato abbia portato all’elezione di Trump, il che giustifica la quantità infinita di articoli dedicati a Facebook e a Cambridge Analytica. In termini più concreti, cosa mai è stato fatto? Facebook ha fatto quello che fa ogni giorno.”

 

Se prendiamo il caso delle fake news, una serie di articoli del Nieman Reports di Harvard mostra come già in passato ve ne fossero tracce, a partire dalla stampa scandalistica, il cosiddetto yellow journalism. In Italia, in epoca fascista, venivano prodotte le cosiddette veline, fogli d'ordine con disposizioni su come presentare determinati fatti e opinioni che il regime impartiva alla stampa quotidiana e periodica. Insomma, le bufale non sono nate oggi, ma ieri. Cosa è cambiato nel frattempo? 

 

“È vero che storie e cose fuori dalla realtà sono sempre state prodotte, come è vero che vi sono sempre state persone fuori dalla realtà che hanno prodotto idiozie. Il problema non è allora paragonare forme di giornalismo nel corso del tempo, ma piuttosto individuare la vera natura del problema: la velocità con cui le notizie sono distribuite e la ragione per cui la distribuzione delle notizie è cambiata così radicalmente. 

Gli incentivi offerti dalle grandi piattaforme per il social networking, che lavorano sul traffico di contenuti, sono allineati; sono gli incentivi di persone e organizzazioni che hanno interesse a diffondere determinate informazioni. Per essere chiari, Google, Twitter e Facebook fanno tutto il possibile per massimizzare click e condivisioni perché così riescono a massimizzare quello che sanno su ogni utente, creando un sistema che facilita la circolazione delle informazioni. Se le fake news rappresentano un problema serio, non lo sono in quanto responsabili dell’elezione di Trump, ma piuttosto alla luce della correlazione tra il modello di business di Google, Twitter e Facebook e le persone che fanno circolare notizie false con precise intenzioni. 

Se si vogliono eliminare le fake news esiste un solo modo per ottenerlo: eliminare la pubblicità come modalità di pagamento per la circolazione dei contenuti. Lo scenario peggiore è che saranno proprio i colossi dei social media a risolvere il problema e chiederanno agli utenti il conto da pagare. Insomma, queste social media companies, che hanno creato il danno con i loro business model, arriveranno a mettere sul mercato un sistema di intelligenza artificiale che risolva la diffusione delle fake news, avvallati addirittura dai politici che chiedono a queste stesse aziende proprio la risoluzione del danno. E allora che possiamo farci? Paghiamole queste aziende, per sradicare un problema che esiste solo a causa loro.”

 

Con l’avvento del digitale, sono emersi movimenti che sognano una democrazia diretta, online, connessa, più partecipata e mediata da software. Pensiamo al ruolo del Movimento 5 Stelle, per esempio. Tuttavia, è opportuno riflettere sul fatto che il software non è mai neutrale, ma sia preimpostato e gestito da chi lo ha implementato sulla base di azioni che si vogliono far fare agli utenti. Cosa ne pensa della democrazia del software?

 

“Trovo così ridicola la critica al Movimento 5 Stelle, a partire da una sorta di idea astratta di democrazia italiana, che non riesco a trattenermi dal ridere. Abbiamo altre opzioni? La democrazia delle banche è meglio della democrazia dei click? Che basi ci sono per criticare la loro versione naif della democrazia? Si può continuare a sostenere che loro hanno una concezione bizzarra della democrazia, ma la verità è che la situazione è già bizzarra di suo. Intendo dire che se si arrivasse ad avere la democrazia dei click, invece della democrazia che vi è ora, dovremmo essere tutti felici. Questa è solo la mia personale opinione. Se si spende l’intera giornata a leggere Habermas, allora potrebbe avere senso criticare quelli del M5S e affermare che la loro proposta sia pura follia; se, al contrario, seguissimo il dibattito quotidiano della politica italiana, bisognerebbe chiedersi perché mai siano così criticati. La democrazia dei click sarebbe fantastica se si riuscisse a metterla in piedi nel modo migliore, qui, in Italia. Il punto è che non sono neanche capaci di farla funzionare. Questo è il problema del Movimento 5 Stelle, non lo faranno, al di là delle loro promesse.”

 

Le nuove piattaforme, come Google e Facebook, sono studiate per attrarre. L’iperconnettività ci porta lontano dalla socialità del porta a porta. Cosa si deve fare per costruire una alternativa possibile? Disconnettersi per costruire una nuova ecologia cognitiva e nuove forme di resilienza, oppure proporre un possibile nuovo modo di vedere internet e di ingaggiare le comunità localmente? 

 

“È una domanda che merita una risposta molto pragmatica, in termini sia politici sia economici. Il capitalismo si è sempre basato sul surplus del lavoro e sull’accaparramento di risorse non protette. Adesso non si va più a saccheggiare le risorse in America Latina o in Africa per portarle in Europa con le navi, ma si saccheggia virtualmente e digitalmente la nostra vita, attraverso la raccolta dei dati su quello che facciamo online e che sono sfruttati, per esempio, nello sviluppo di sistemi di intelligenza artificiale, che imparano da quello che gli utenti fanno online. 

Se iniziamo a capire in che modo il valore è generato, ci rendiamo conto che l’intuizione di Marx di studiare i modi di produzione è corretta. Tuttavia, i modi di produzione se ne sono andati altrove; oggi i dati sono già mezzi di produzione, il che implica che per presentare un modello alternativo dovremmo chiederci chi detiene la proprietà di questi mezzi e fino a che punto sia possibile ridefinire l’economia digitale tanto da stimolare nuovi e differenti processi di emancipazione, nuovi di tipi di lavoro, nuovi tipi di organizzazione sociale a livello della città o del quartiere. 

Non sto proponendo un governo centralizzato che entri nel mercato e fondi il proprio Google nazionale, o piuttosto una sorta di versione europea, come molti nella Commissione Europea vorrebbero realizzare; sto proponendo un modello molto differente, che si basa sulla socializzazione e regolamentazione dei dati, dell’intelligenza artificiale e del loro accesso, in modo tale che l’imprenditoria e l’economia locale ne possa beneficiare. I cittadini potrebbero ottenere dei finanziamenti per costruire la propria app. In questo modo, per avere qualsiasi genere di informazioni relative al proprio quartiere o alla propria città, non si deve aspettare Google o scaricare le app distribuite su Google Store, ma ogni cittadino lo può fare direttamente con i dati prodotti e socializzati da altri cittadini su una piattaforma mediata direttamente dall’amministrazione comunale e non da aziende multinazionali che generano profitto su questi dati.”

 

Come rendere gli utenti pienamente consapevoli di questa dimensione economica della loro socialità digitale? Come far capire che i dati da loro prodotti sono i mezzi di produzione del nuovo capitalismo? Mi verrebbe dare dire, retoricamente, quanto serva più educazione, ma quale?

 

Google finanzia programmi formativi di educazione ai media digitali. Sono sicuro che sul tema delle fake news introdurranno nuovi percorsi di sensibilizzazione. Il punto è come viene fatta l’educazione ai media e in che modo questa viene collegata a una cornice più ampia, così da formare alla consapevolezza dell’economia politica dei media digitali. Se ci si limita alle basi, si formano persone che non acquisiscono gli strumenti per pensare in termini complessi e cogliere la complessità dei processi in corso: sono educate a comportarsi da utenti e a pensare come utenti. È questa l’educazione ai media che voglio incoraggiare? No. Sono per il pensiero complesso e multimodale, e allora non dobbiamo abbandonare le domande basilari sui processi economici e politici. La comprensione del sistema dei media digitali, e con esso degli sviluppi industriali sull’intelligenza artificiale, sono molto più importanti dell’educazione ai media, che invece viene solo in un secondo momento. 

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Un’intervista con Evgenij Morozov
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Levanzo, istruzioni per l'uso

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Per prima cosa non andateci. Andate a Favignana, a Marettimo, le Eolie, Salina, Pantelleria, le isole dei cocktail di chi nella vita si muove in barca a vela, o finge di farlo, dentro una luce inflessibile di tramonto. Non andate a Levanzo perché dovreste farvi bastare due ristoranti sommari e dei sentieri che per chilometri e chilometri attraversano un nulla selvaggio privo di glamour e di strutture ricettive. Che cosa potreste fare lì, se non una puntata periferica di qualche ora, un periplo attorno all’isola sopra uno scafo candido in affitto, o una rapida visita guidata alla Grotta del Genovese? Sbarcate da uno degli aliscafi battezzati con nomi di donna e senza quasi sentire il cemento del molo sotto i sandali salite su una jeep che vi aspetta e vi intruppa verso un’amena località attingibile in mezz’oretta di sobbalzi. Di lì, a piedi, sarete invitati a scendere un morbido declivio, lungo un sentiero arginato da steccati che a larghe anse e aeree terrazze vi squaderna in tutta la sua potenza l’oceano Mediterraneo, e bluastra e ulissiaca laggiù la puntuta Marettimo. Le visite si fanno al mattino ma, se non si avesse premura di tornare ai locali notturni di Favignana e Trapani e si passasse la notte in quest’isola di un dio minore, di lì si potrebbe godere d’un tramonto immenso, di quelli da non fotografare, con un mare blu pantone PMS 303 e il sole riflesso in acqua come milioni di scorze di mandarino. Ma non pensateci. Perché adesso i gabbiani, seccati dal vostro incedere sbuffante, fingono vertiginose picchiate sui vostri cappelli di paglia e il suono vibrato delle remiganti si mescola a quello dei marosi laggiù, che non si avvicinano mai, mai, come calcinacci impressi nella retina. Ma piano.

 

 

Avete aggirato la falesia e siete arrivati all’ingresso della grotta. Una rete di recinzione vi esclude dallo spazio antistante e una porticina di metallo, lucida e pesante come quella di un caveau, mura all’interno un budello di concrezioni calcaree e di sogni paleolitici e neolitici. La storia è nota. Gli isolani sapevano di quel luogo ma non ne sapevano niente, se non che era un’immensa conigliera naturale che loro, di tanto in tanto, andavano a rapinare con i furetti. Gli anguilliformi mustelidi entravano attraverso un buco per metà insabbiato e creavano all’interno l’inferno dei conigli. Questi si precipitavano terrorizzati verso l’orifizio e i cacciatori li acciuffavano per la collottola o, più umanamente, gli sparavano a bruciapelo. Un giorno di tanti anni fa, una non meglio precisata “ragazza fiorentina”, che per diporto soggiornava sull’isola, decide di visitare l’interno, il buco profondo. Striscia per qualche metro, percepisce che nel buio il soffitto si alza sopra di lei, fa vorticare la luce della torcia come una spada laser ed ecco, le immagini, l’arte, se volete chiamarla così, le pitture in grasso animale e carbone che rappresentano silhouette femminili, tonni, delfini, oranti, mascheroni, imprecisati esseri saltati fuori dalla testa di qualche uomo o qualche donna di 8000 anni fa. Informato della cosa, il modenese Paolo Graziosi corse a studiare la grotta nei primi anni Cinquanta del Novecento.

 

 

E scrisse un libro, intitolato Levanzo, che ho qui sulla mia scrivania. Per me, un cerchio che si chiude: da un lato il padre di Graziosi che a Savignano sul Panaro ritrovava la celeberrima Venere steatopigia nel buio di una cantina, perché veniva utilizzata dall’ignaro contadino come tappo fusiforme per una botte; dall’altro Cave of Forgotten Dreams di Werner Herzog, il documentario girato affrettatamente dal regista tedesco nella Grotta Chauvet in Ariège nel 2010. Due pietre miliari della mia personale fantapreistoria, perché la prima è una notizia falsa che si inventò mio padre quando ero bambino, la seconda è il finale del film dove Herzog riprende dei coccodrilli albini nati poco lontano dalla Grotta Chauvet in una serra tropicale riscaldata dalle acque di raffreddamento di una centrale atomica. Herzog ci lascia con un interrogativo: rispetto all’arte del paleolitico, non siamo noi come futuri coccodrilli mutanti che guardiamo dal vetro dell’acquario lo spettatore di oggi? Abissi cognitivi. Mise en abîmes. E anche un po’ di fuffa postmoderna. Quando lavoravo per Emmanuel Anati al Centro Camuno di Studi Preistorici, ho conosciuto quella “ragazza fiorentina” che a Levanzo “scoprì” la grotta e che ormai, nel 2000, era una bellissima lady inglese oltre i settanta. Si chiamava Alda Vigliardi, allieva del Graziosi, una delle più grandi studiose di arte preistorica in Italia. Non mi ricordo che cosa ci dicemmo o se mi raccontò dell’isola o se effettivamente quella ragazza era proprio lei.

 

Ma so da un po’ che non è il rapporto con la verità dei fatti che mi interessa e che mi spinge a scrivere. Se allora entrate nella Grotta del Genovese, a gruppi di otto, magari con qualche ciarliera ragazza scout e una coppia veneta abbronzata che ama fare snorkeling, potete restare ad ascoltare la guida competente, che orienta il faretto per mettere in risalto i graffiti di equidi e bovidi, che snocciola dati e interpretazioni con noia malcelata, potete farvi bastare quella mezz’ora di immersione nel liquido amniotico del Tempo Grande e poi uscire nell’aria salina e respirare l’adesso-qui. Sì, potete. Ma se siete entrati in quel dispositivo mediatico che è una grotta ornata del Paleolitico, allora una parte di voi dovrà restare per sempre lì, nella penisola che ancora 10.000 anni fa dal promontorio di Trapani inglobava Levanzo, e in mezzo, nel braccio di mare di oggi, i boschi e le praterie di caccia della nostra specie. Uri tra le correnti. Cavalli in fuga liquida sulle sabbie dei fondali bianchi. Per me tutta l’anarchia sorgiva dell’immaginario viene da lì. Da una caverna cognitiva ancorata alla terra, dove un Platone che scheggiava selce continua a lanciare ciottoli colorati verso di noi, dentro lo stagno del nostro presente.

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Lettera da Parigi

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Paris Bal Musette: così scandisce, seducente, una guida giapponese al Pont Neuf, che promette di far vivere ai suoi connazionali la “real Paris experience”, che include la visita al Café des Deux Moulins in rue Lepic 15, all’angolo con rue Cachois. Si tratta del set del Favoloso mondo di Amelie di Jean-Pierre Jeunet, panacea dei visitatori nipponici, che spesso ricorrono a un servizio di consulenza psicanalitica messo su da intraprendenti connazionali, quando scoprono che la metropoli francese non è all’altezza del nitore proposto negli anime, inclusa l’immortale serie di Lady Oscar (in originale Berusaya no Bara, ossia Le rose di Versailles), e garantito dagli infiniti film sulla Ville Lumiére. Fuori dai musei è il ballo dei mitra, per gli infiniti soldati che l’epoca post-attentati registra nei luoghi turistici, nei musei, nelle vie dello shopping. L’idea di vivere nella “ville bunker” è oggetto di interventi satirici sui muri, dove improvvisamente compaiono dal nulla opere di street artists, che non necessariamente fanno graffiti, ma anzi spesso preferiscono i piccoli formati fotografici incorniciati, da esporre in strada, prima che arrivino i pulitori a rimuoverli.

 

 

Il ballo è il filo conduttore di alcune mostre notevoli. Fino al 25 febbraio la Fondation Cartier celebra Malick Sidibé, scomparso nel 2016: il maestro di Bamako era stato rivelato al pubblico europeo proprio in questi spazi nel 1995. Ora, dopo un anno dalla morte, brilla il suo notevolissimo talento nel raccontare la quotidianità di Bamako vista nei miti popolari. Mirabili ritratti di elegantoni yè-yè, di fans di James Brown, di imitatori maliani dei Jackson Brown si uniscono a scatti memorabili, come quello intitolato Nuit de Noël, con un fratello in abito da sera che insegna alla sorella, scalza, i passi fondamentali di un ballo di sala. Il titolo Mali Twist deriva da una canzone del 1963 di Boubacar Traoré; perfetto soundtrack di una magnifica avventura visiva, che illustra i riti dei giovani maliani, ascoltatori di pop e rock nei locali, o sullo sfondo delle escursioni del sabato pomeriggio sul fiume Niger. La Fondation offre lo studio con il pavimento a scacchi usato dal fotografo, appassionato di optical e numerosi gadget per creare la propria fotografia in stile Sidibé. Sull’artista è disponibile un bel catalogo edito da Silvana, in relazione a una mostra, a cura di Laura Incardona e Laura Serani, alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia nel 2010. 

 

Altro giro altre danze, mesdames et monsieurs, al Musée d’Orsay con una notevole rilettura del mondo della danza di Edgar Degas rivisto attraverso il prisma del saggio perfetto di Paul Valéry, Degas Danse Dessin, uscito nel 1936 in una magnifica edizione da Vollard. Numerosi anni di frequentazione con il pittore, avevano offerto al poeta di La giovane parca uno sguardo acuto sulla genesi di una figura di riferimento dell’immaginario moderno. Nei numerosi anni intercorsi dalla progettazione alla scrittura, l’autore ha indagato acutamente i meccanismi del movimento, inserendo nei suoi Cahiers anche immagini di sé e di altri. L’esposizione è specialmente rilevante dove avvicina gli studi sul corpo delle danseuses, insieme agli studi sugli animali, meduse e cavalli, che hanno suggerito a Degas ricerche ardite sulla rappresentazione. Colpisce, specialmente, un breve frammento del film di propaganda Ceux de chez nous, girato nel 1915 da Sacha Guitry in risposta alle bordate prussiane sulla Germania centro della cultura mondiale. L’anziano Degas non volle essere ripreso, ma una cinepresa nascosta lo colse mentre nel pomeriggio faceva la sua passeggiata sui boulevards, che lo attraevano come i tram e gli altri moderni mezzi di locomozione. 

 

Il fantasma della danzatrice esce con l’opera dell’artista per sempre dal mito di Giselle e va all’epoca moderna, facendo da ponte tra diverse esperienze estetiche. Al Petit-Palais il testimone lo prende infatti il mirabile Kees van Dongen, che trionfa con le sue danzatrici indiane nella notevole esposizione Les Hollandais à Paris 1789-1914, realizzata insieme al Museo Van Gogh di Amsterdam e alla RKD (Istituto Olandese di Storia dell’arte) de L’Aja. Il percorso in cui i numerosi artisti dei Paesi Bassi che giungono a Parigi in cerca di formazione o di successo ha al centro ovviamente la superstar Van Gogh, che ossessivamente viene riprodotto dai cinesi prigionieri nel documentario terribile China’s Van Goghs di Taibo e Yanqi Kiki Yu, distribuito da Wanted, che narra di Dafen, sobborgo di Shenzen in Cina, dove migliaia di operai-pittori-schiavi fanno copie maldestre dei quadri di Van Gogh per il mercato dei souvenir, guadagnando pochissimo per il loro impegno. Di lui viene scelta la Veduta dalla stanza di Theo come immagine-simbolo, ma le stanze, divise da scelte di colore sempre diverse, hanno altre sorprese. Gli olandesi si fanno portavoce in terra di Francia della lezione fiamminga-neerlandese del particolare, del dettaglio esaminato fino all’estremo, come accade nell’opera di Gérard van Spaendonck, ineffabile creatore di vasi di Sévres e nelle borghesissime visioni di Frederik Haendrick Kammerer, tra i pittori più fortunati del suo tempo.

 

Colpisce la sezione dedicata a Ary Scheffer, magistrale evocatore di romantiche visioni tratte dalla letteratura, come il bel Paolo e Francesca, ma notevolissimo anche come ritrattista, maestro delle immagini di morte, come quella dedicata a Géricault. Notevole anche la presenza di George Hendrick Breitner, forte nella resa dei suoi carnalissimi nudi, con uno dei quindici ritratti in kimono, sensualissimi, a cui il Rijksmuseum di Amsterdam aveva dedicato un’acuta esposizione antologica due anni fa. Van Dongen è un fuoco d’artificio, blocca l’attenzione con le sue immagini sature, nel mito della bellezza notturna della città, quella dei locali e delle prostitute, modelle di quadri di immacolata bellezza dell’epoca Fauve, ammaliata dalle prodezze notturne del Moulin de la Galette, e del vicino bordello Gallien, a cui si ispirò per ritratti notevolissimi anche František Kupka, in opere magnetiche che si vedono alla Narodni Galerie di Praga. Tra la sua produzione presente spicca il notevolissimo La danseuse indienne, in cui l’esotismo del gesto si declina in una nuova visione del fare artistico. La mostra si chiude con Piet Mondrian, in uno spazio bianchissimo per accogliere il gesto sintetico dell’artista che porta, insieme a Kasimir Malevič il Novecento alla sua essenzialità più estrema. Fuori, nel magnifico giardino del Petit Palais, alcuni turisti fumano di nascosto, prima di essere redarguiti, e trionfano i tiramisù in bicchiere, che sarebbero stati un perfetto soggetto per dei pittori olandesi a Parigi. 

 

Infine, un ultimo giro di valzer, e lì i controlli e i mitra si infittiscono, per vedere a rue du Temple, tra gli infiniti negozi di chincaglierie gotiche e parrucche fluo cinesi, una interessante ricostruzione del padre (insieme all’italiano Uderzo) di Asterix e di Lucky Luke: René Goscinny au-delà de rire, al Musée d’Art e d’Histoire du Judaïsme, che è in primo luogo la storia di una tipografia-casa editrice, di proprietà della famiglia di sua madre, i Beresniak, che pubblicavano testi yiddish e dotte confutazioni dei mortiferi Protocolli dei saggi di Sion. Cresciuto in Argentina, Goscinny si appassiona di un personaggio indio, Patozoru, beniamino dei bambini porteñi e da lì elabora la sua scanzonata, e spesso sarcastica, rivisitazione del mito. All’angolo, all’uscita, c’è un suonatore di organetto di Barberia, che fa andare il tema di una bellissima chanson di Barbara: A Gottingen e, quindi, le danze continuano.

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Ballare, e non solo
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Antonino Costa. Sorciatoie

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Inaugurazione giovedì 7 giugno - ore 18.30

In occasione della Milano Photo Week, Fratelli Bonvini, storica bottega di cartoleria e tipografia milanese e Doppiozero, rivista culturale online dal 2011, presentano un progetto speciale nello spazio di Atelier 1909.

 

“Scorciatoie”, mostra fotografica di Antonino Costa (Palermo, 1973) è il primo evento espositivo ospitato in Atelier curato da Doppiozero: dieci scatti dedicati ai percorsi pedonali tracciati dai passanti a Milano, in centro e in periferia. Sono “scorciatoie”, vie brevi, visibili ovunque, a cui pochi dedicano attenzione. Il lavoro fotografico, proveniente da una collezione privata in prestito per la mostra, è introdotto da un testo di Massimo Recalcati intitolato “Sentieri invisibili”, pubblicato nella rivista Segnature n. 16, a cura di Paola Lenarduzzi, disponibile in occasione dell’evento.

 

 

Via Tagliamento, 1
www.bonvini1909.com

Mostra aperta dal 5 al 10 Giugno. Orari: 14:30 – 19:30

Inaugurazione giovedì 7 giugno - ore 18.30
Ingresso libero fino ad esaurimento posti

 

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ATELIER 1909, Fratelli Bonvini Milano
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Joel Meyerowitz: l’elemento misterioso dell’immagine

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Una bambina sta piangendo. Siamo a New York, in strada. Sono aperte due portiere di un’auto, e la bimba è inquadrata oltre il vetro del secondo finestrino. Mentre piange guarda in alto verso un uomo, che le tende la mano. Non si capisce se sia suo padre, o un autista o un estraneo. Non si capisce nemmeno se la bimba debba salire in auto o se sia appena scesa e non vuole andare con la persona adulta. S’è persa? È stata sgridata dal genitore? La fotografia scattata da Joel Meyerowitz nel 1963 lascia molto spazio all’interpretazione. Oltre ciò che si vede immediatamente, questa immagine può rivelare anche e soprattutto qualcosa di più espanso.

 

Joel Meyerowitz, New York City, 1963.


Secondo le intenzioni del fotografo americano uno scatto non deve per forza dire tutto, e se in esso vi è custodito un elemento misterioso l’immagine riesce a sopravvivere agli anni e mantenere vivo un rapporto con i fruitori: «All’inizio non avevo questa abitudine a espandere ciò che si poteva vedere, registravo solo persone, o momenti, di qualcosa che semplicemente stava avvenendo. Questo mi ha dato modo di imparare, pensavo fosse necessario dare un centro alle fotografie ma dopo un po’ di tempo ho cominciato a credere abbastanza nelle mie capacità e nella mia esperienza e ho cominciato a capire che più cose, allo stesso tempo, possono avere un significato diverso. È stato un esperimento, come quello di dirsi ho più cose in testa in questo momento e voglio fare delle fotografie che possano rappresentare questo mio tipo di curiosità. Credo di poter dire in questo modo che la fotografia mi ha incoraggiato ad aprirmi e a vedere oltre, piuttosto di continuare ad accontentarmi di ciò che si vede immediatamente» (Joel Meyerowitz).

 

Joel Meyerowitz, Paris, France, 1967, courtesy Polka Gallery.

 

In Paris, France (1967) un uomo giace riverso in strada. È vicino alle scale che discendono verso il Metrò. Un gruppo di persone guarda, a poca distanza, ma nessuno lo soccorre. Un muratore, con un martello in mano, pare che gli stia passando accanto, senza fermarsi. L’ha colpito lui o è solo un indifferente che ha premura e non si ferma? L’uomo a terra sull’asfalto ha perso conoscenza o è morto? Intanto il traffico parigino ingolfa la strada e un garzone spinge un carrello con un carico di alcuni cartoni di merce. I curiosi guardano. Nessuno soccorre. Quale è qui il centro della fotografia? L’autore ha colto semplicemente quello che stava accadendo in quel preciso istante dello scatto, ma la stampa della fotografia ha reso visibile un clima ulteriore, un momento denso di mistero.

 

Joel Meyerowitz, Mexico, 1971.


Anche in Mexico (1971) l’atmosfera è straniante. Un neonato piange in una culla, rimediata all’interno di una cassa di legno, vicino ai fucili allineati dentro un tiro a segno del Luna Park. L’assenza di altre persone nella scena lascia spazio al collegamento tra il bimbo lasciato solo, i suoi vagiti, i fucili, i bersagli, creando un cortocircuito.

 

Joel Meyerowitz, Malaga, Spain, 1966.

 

Joel Meyerowitz, Malaga, Spain, 1967.


In Malaga, Spain (1967) terribile e attraente al contempo è l’immagine del cavallo caduto accanto al carretto, con la corda che è tesa e impigliata a qualcosa che non si vede perché è fuori campo, e che stringe il morso sulla bocca procurandogli una torsione dolorosa al collo. L’animale occupa il primo piano, in una zona che è in ombra e che conferisce toni da bianco e nero. Il secondo piano è invece illuminato dal sole, e il colore spicca sugli spettatori. L’autore ha colto un efficace “trovato”, un momento che contiene il mistero e l’indifferenza della natura, il confine tra la vita e la morte, un istante che non è solo un istante, un accadimento che può essere compreso solo se legato al significato di altre centinaia di istanti che hanno rivelato qualcosa nel corso della storia: “Quel cavallo che cade è solo un cavallo che cade e le persone che lo stanno guardando morire sono solo quelle persone che si trovavano lì a osservarlo in quel momento. Questa foto non dice nulla a proposito del regime franchista, ma se viene guardata fra le centinaia di foto che costituiscono Out of Darkness, avremo una comprensione più precisa di ciò che significava”. Se ogni fotografia è testimonianza di un determinato momento ma anche un frammento di un percorso di continua scoperta, per Meyerowitz ha molta importanza ciò che appartiene anche alla dimensione inconscia di ciò che è simbolico. Nel cammino di ogni fotografo, in ciò che lascia alle sue spalle e negli scatti che deve ancora realizzare, la narrazione di uno sguardo personale entra in un più articolato intreccio, come se dovesse permettere alla coscienza di muoversi in direzione di scoperte e di evoluzioni sempre rinnovabili: “Ho sempre cercato un accordo con il tempo e le percezioni, queste due cose intangibili e sempre in continuo mutamento. Il tempo scorre, non si ferma e le nostre percezioni fanno di noi ciò che siamo”.

 

Joel Meyerowitz, JFK airport, New York City, 1968.


In JFK Airport, New York City (1968) il design nel lato posteriore dell’automobile pare ispirarsi alle forme delle navicelle spaziali. Nel parcheggio innevato, in lontananza sullo sfondo, spicca un’alta scultura luminosa, come una stella che dirama raggi nello spazio, suggerendo un collegamento simbolico con l’aeromobile e la notte nevosa.

 

Joel Meyerowitz, New York City, 1975.


Molto intrigante è New York City (1975), scattata in una strada metropolitana, in un momento in cui una coppia cammina sul marciapiede, raggiunta da una coltre di fumo o vapore che giunge dalla parte sotterranea. Intanto sulle schiene di due donne – che stanno procedendo nella stessa direzione della coppia a braccetto – il sole proietta l’ombra di altre due persone che camminano dietro di loro, ma che non sono inquadrate nella fotografia. La bruma bianca ricrea una presenza “altra”, dà luogo a un volume etereo, a una geometria che viene attraversata dal movimento delle persone e delle ombre.

 

Joel Meyerowitz, Red interior provincetown, Massachusetts, 1977.


L’artista guarda attentamente il modo in cui qualcuno fa un gesto per la strada, la reazione derivata dalla coazione fra due persone, la simultaneità di due cose che avvengono all’unisono e la relazione che si crea tra loro. 

Meyerowitz, nato nel 1938 da una famiglia proletaria e cresciuto tra le case popolari dell’East Bronx, ama osservare le persone, l’energia e la spontaneità della vita nelle strade urbane. Colpito dal modo di scattare fotografie di Robert Frank, dal suo muoversi con la macchina fotografica in mezzo alla gente che cammina e sta nel flusso metropolitano, dal 1971 svolge ulteriormente la sua ricerca scegliendo di utilizzare il colore, in concomitanza con gli esperimenti di Eggleston.

 

Meyerowitz lascia campo al tempo e alle percezioni. È interessato costantemente alle nuove riflessioni che si innescano in conseguenza del suo interagire con la macchina fotografica e alle rivelazioni che potrebbero prendere corpo dopo la stampa delle fotografie. Il mentre del fare, la possibile rivelazione di qualcosa che non era ancora stata presa in considerazione, l’apparizione di un ulteriore punto di vista, tutto concorre a cercare di comprendere ciò che significa la vita. Prendono corpo anche una ricerca parallela, una consapevolezza dei propri mezzi e delle potenzialità dello sguardo. Non interessa che sia data voce solo al centro ma soprattutto alla rappresentazione di interessanti sottosignificati: “Il mondo non ha un centro, il mondo è dappertutto. Questo perché il modo in cui il mondo si spiega e ti istruisce è tutto ciò che ti serve per lavorare. A un certo punto capisci che quella è la tua strada, perché il modo che si ha di vedere le cose è tutto ciò che abbiamo, ed è l’unico modo con cui farlo”.

 

Joel Meyerowitz, Los Angeles airport, California, 1976.


Applica la tecnica dei tre passi indietro di Robert Frank, lascia più spazio e campo a ciò che entrerà nel suo scatto, anche solo con l’atto dell’arretrare col proprio corpo. Cerca di vivere con lucidità ciò che sta percependo prima di scattare, per catturare quanto più possibile, sia il visibile palese e contingente sia il visibile che apparirà in un secondo momento. Intende anche dare molta importanza al distacco che si frappone tra un immaginario e un altro.  Tutto questo concorre per dire qualcosa in modo originale e in una modalità che comprende il flusso del tempo e lo spazio, per unire un singolo frame alla complessità delle connessioni che legano il mondo alla vita: «Il linguaggio personale è tutto. Senza di quello non puoi fare nessuna fotografia che abbia un significato, è ciò che ne definisce l’identità, dove trova un senso fra un’immagine e l’altra. Non penso sia possibile realizzare una fotografia totalmente oggettiva, solo una telecamera a circuito chiuso che registra ogni cosa che accade può farlo ma la fotografia necessita di scelte soggettive. Sei tu a decidere ciò che finisce nel frame ed è una decisione consapevole, perché il frame taglia fuori per sempre ciò che continua a scorrere nel mondo. Devi essere consapevole che c’è qualcosa in quello che stai facendo e che in quel frame ci sia abbastanza per darti il senso di quella necessaria e immediata connessione che stai provando».


JOEL MEYEROWITZ: TRANSITIONS, 1962-1981

a cura di Francesco Zanot

Palazzo da Mosto, Fino al 17 giugno

https://www.fotografiaeuropea.it/fe2018/mostra/joel-meyerowitz/

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Fare e pensare la fotografia

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Tra i maggiori storici e teorici dell’arte contemporanei, Jean-François Chevrier (1954) ha sviluppato negli ultimi tre decenni una originale riflessione sulla vicenda e sugli usi dell’immagine fotografica, vista come un campo in rapporto con la tradizione delle arti visive, con i media, la letteratura, la filosofia, in cui può realizzarsi un nuovo equilibrio tra dimensione speculativa e sfera sensibile. Dopo aver fondato nel 1982 la rivista «Photographies», Chevrier si è concentrato sulla ricostruzione di una genealogia dell’uso artistico della fotografia, studiando figure fondamentali del modernismo come Walker Evans e Raul Hausmann, e quindi dell’epoca contemporanea, a contatto con la produzione di artisti come Jeff Wall, della cui opera è uno degli interpreti più attenti, John Coplans, Marina Ballo Charmet, Patrick Faigenbaum. All’attività di studioso e saggista – peraltro ancora poco nota in Italia (i suoi libri più recenti sono L’Hallucination artistique, 2012, e Œuvre et activité, 2015) – Chevrier ha affiancato quella di curatore, organizzando esposizioni di ampia risonanza come Une autre objectivité (1988-89) e Walker Evans & Dan Graham (1992-94); in L’Action restreinte. L’art moderne selon Mallarmé (2004-05) e Formes biographiques (2013-15) ha proposto riletture di largo respiro su momenti chiave della cultura visiva e letteraria tra Otto e Novecento; è stato consulente principale di documenta X (1997) e ha ideato con gli architetti Herzog & de Meuron il nuovo allestimento del Musée d’Unterlinden a Colmar (2016).

 

Raoul Hausmann, Senza titolo (Vera Broido), 1931-33 ca.

 

Ho incontrato Jean-François Chevrier a Parigi, dove nelle scorse settimane si è tenuta al Jeu de Paume la mostra Raoul Hausmann. Un regard en mouvement, un’occasione per riscoprire la sua importante produzione fotografica realizzata tra anni Venti e Trenta dello scorso secolo.

           

SC: Qual è il tuo bilancio della mostra di Hausmann al Jeu de Paume?

 

JFC: La scelta di mostrare solo le fotografie di Hausmann è criticabile, perché la sua opera è molto più diversificata e complessa. Al tempo stesso non è irragionevole, dal momento che tra tutti gli artisti d’avanguardia, e particolarmente tra quelli vicini al dada – che non avevano all’inizio nessun interesse per la fotografia e anzi la disprezzavano come tecnica meramente rappresentativa – Hausmann è l’unico a essersi dedicato seriamente alla fotografia.

 

La sua attività di artista-fotografo è in effetti limitata al periodo che va dal 1927 al 1936 circa, poco meno di un decennio.

 

La scoperta delle opere di quel periodo, alla fine degli anni Settanta, è stata per me una vera rivelazione. Nel 1975 era uscito in Francia un libro di Michel Giroud dedicato a Hausmann intitolato Nous ne sommes pas des photographes, una frase (“noi non siamo fotografi”) ripresa da un testo del 1921 in cui Hausmann, il “dadasophe”, come si faceva chiamare, criticava la fotografia in quanto strumento di appropriazione estetica, vale a dire di una compulsione alla registrazione visiva che pone l’operatore in una posizione di dominio e di possesso. Si può essere artisti-fotografi solo lavorando contro la fotografia, producendo immagini che permettono di combattere l’atteggiamento compulsivo dell’appropriazione estetica. Agli occhi di Hausmann la fotografia è il sintomo di un handicap spirituale dell’essere umano, che lo spinge a sottomettere il mondo ai parametri meccanici indotti dall’obiettivo della macchina fotografica.

 

Eppure l’autore di questa critica radicale appena sei anni più tardi ha iniziato a dedicarsi alla fotografia...

 

Il perché lo si è capito solo nel 1986, in una mostra a Vienna che mi aveva molto colpito (Raoul Hausmann. Fotografien 1927-1933). Hausmann si è interessato seriamente alla fotografia perché era il solo modo per combattere le regole oppressive denunciate nel testo del 1921. In altre parole, ha praticato la fotografia per lottare contro i meccanismi psicologici dell’appropriazione estetica e per impadronirsi di una tecnica la cui pretesa oggettività produce in genere una falsificazione dell’esperienza percettiva e spirituale.

 

Qual è dunque a tuo avviso il contributo essenziale di Hausmann alla relazione tra fotografia e arte moderna?

 

Dimostrare che si poteva praticare la fotografia senza soccombere al suo cattivo uso, in modo serio dunque, utilizzandola allo stesso tempo come registrazione, descrizione e contemplazione. Hausmann voleva usare la fotografia per fare delle fotografie, in modo diretto. Per lui la contemplazione era una forma sublimata di erotismo che permetteva di riversare l’esperienza del corpo amato nell’ambiente, di far apparire metafore erotiche nella morfologia del paesaggio: le pieghe, le ondulazioni, i fremiti della natura. Questa valenza erotica dell’esperienza contemplativa fu per lui la via d’accesso al lirismo fotografico.

 

Raoul Hausmann, Senza titolo, 1930

 

Insieme a Hausmann, un altro grande artista-fotografo di cui ti sei occupato è Walker Evans. Cosa hanno in comune queste due figure?

 

Nessuno dei due si poneva nella posizione del fotografo che pretende di essere un artista, ma entrambi si consideravano artisti che utilizzavano la fotografia. Non dimentichiamo tra l’altro che all’inizio Walker Evans voleva diventare scrittore, non “fotografo”. All’epoca la fotografia era o illustrazione, reportage, o artigianato artistico. Hausmann ed Evans non hanno accettato questa alternativa. Hausmann non ha avuto una carriera di reporter, era incapace di piegarsi alla disciplina richiesta dalla professione, ed Evans ha fatto di tutto per evitarla: i conflitti che ha conosciuto nel corso della sua attività di fotografo per la Farm Security Administration ne sono la prova. Infine, entrambi sceglievano i loro soggetti. In questo aprirono una possibilità, tuttora importante, per quei reporter che scelgono cosa fotografare, come ad esempio Ahlam Shibli o Santu Mofokeng, o anche, prima ancora, Robert Doisneau, a proposito del quale si potrebbe parlare di “reportage a uso privato”.

 

Sia Hausmann che Evans “usano la fotografia per fare delle fotografie”, come dicevi?

 

Sì, ed è una formula che mi ha permesso tra l’altro di concepire la mostra Une autre objectivité, dove erano presenti Jeff Wall e John Coplans, come pure Robert Adams e altri. L’idea di partenza era semplice: negli anni Settanta i fotografi erano contrapposti agli artisti che usavano la fotografia. Questa opposizione è durata a lungo, se pensi che quando ho curato Walker Evans & Dan Graham nel 1992 mi ci sono ancora scontrato: da un lato, mi si diceva, non si può accostare un artista concettuale a un maestro della storia della fotografia, e quest’ultima espressione era beninteso carica di una connotazione nettamente dispregiativa. Dall’altro, mi si ripeteva, non si può mettere un maestro così importante a fianco di un artista concettuale che fa immagini senza interesse. Ho fatto di tutto per superare questa separazione, cercando di mostrare che si poteva essere artisti, usare la fotografia e fare delle fotografie. La dimostrazione era evidente nel caso di due artisti a cui sono stato molto vicino come Coplans e Wall: facevano qualcosa di diverso dal fare fotografie? Allo stesso tempo, non erano dei fotografi, erano davvero artisti che usavano la fotografia. Dunque “artisti che usano la fotografia per fare delle fotografie” è veramente l’espressione-chiave. Se ci si aggiunge “contro i cattivi usi della fotografia” si ottiene la formula completa.

 

Henri Le Secq, Le Champ des Cosaques, Montmirail, 1852-1853

 

Questa idea permette di ripensare la vicenda dei rapporti tra arte e fotografia dagli anni Venti del Novecento fino a oggi?

 

Va detto anzitutto che per me l’arte moderna è nata con la fotografia, come ho cercato di mostrare in un libro, Entre les beaux-arts et les médias. L’arte moderna si situa esattamente tra belle arti e media, ed è nata con la fotografia in questa precisa circostanza. Ciò vuol dire che occorre risalire all’indietro, ben prima degli anni Venti, fino al XIX secolo, dove la vicenda inizia con degli artisti-fotografi che utilizzano lo strumento fotografico per descrivere una realtà fenomenologica e storica, come fa ad esempio un fotografo straordinario come Henri Le Secq, capace, in una fotografia scattata dopo il 1850, Au Champ des Cosaques, di rappresentare il luogo di una battaglia napoleonica, un luogo di memoria, mostrando da vicino solo un terreno pietroso, spaccato e rivoltato, in un modo che oltrepassa l’aneddoto storico e la commemorazione creando una relazione molto personale, in cui gli interessi psicologici non si lasciano ridurre a fini descrittivi. Si posso fare osservazioni analoghe per Roger Fenton, che è forse meno artista di Le Secq ma che ha inventato, o reinventato il reportage fotografico. C’è una tensione fondamentale, e che resta del tutto attuale, tra la mia piccola regola degli artisti che “usano la fotografia per fare delle fotografie” e il reportage. Ma questo richiederebbe un vero nuovo discorso teorico. Ad esempio, in cosa l’opera di John Coplans presenta una dimensione di reportage? A priori, in nulla, ma la domanda resta tuttavia valida.

 

Nella narrazione standard del modernismo, l’arte moderna inizia con Manet e il rifiuto della narrazione, dell’aneddoto, del dato extrapittorico: il quadro si rende autonomo. Tu invece, rispetto a questo schema tanto sclerotico quanto contestato, sottolinei soprattutto il valore di rottura determinato dall’apparizione della fotografia.

 

Per me l’inizio della modernità coincide più con Géricault che con Manet, semplicemente perché Géricault, dipingendo Le Radeau de la Méduse, si ispira a una realtà aneddotica che è già un’attualità mediatica, prima dell’esistenza dei media moderni. Anticipa cioè un fenomeno già ben presente all’epoca di Manet.

 

Walker Evans, Tin False Front Building, Moundville, Alabama, 1936

 

D'altro canto, si dice di solito che solo con la mostra di Walker Evans American Photographs, nel 1938 al MoMA di New York, a sua volta considerato il primo museo di arte “moderna”, si affermi definitivamente la figura dell’artista-fotografo. Sei d’accordo?

 

A quel punto i giochi erano fatti da tempo. La mostra di Walker Evans a New York giunge alla fine di una lunga vicenda precedente. Il primo museo d’arte moderna è stato creato in realtà a Vitebsk nel 1918, come si vede nella mostra in corso al Centre Pompidou (Chagall, Lissitzky, Malévitch. L'avant-garde russe à Vitebsk, 1918-1922; Centre Georges Pompidou, Parigi, fino al 16 luglio). Ma era a Vitebsk, e ha chiuso presto, nel 1926. C’è stato poi il museo Folkwang, a Essen, dal 1922, poi il Muzeum Sztuki di Łódź, aperto nel 1930. Sono almeno tre esempi precedenti al MoMA e tutti in Europa centrale o dell’Est, il che è un fatto significativo. L’originalità dell’esposizione di Evans al MoMA sta nel fatto di aver avuto luogo in un museo d’arte moderna di una grande metropoli del Nuovo Mondo, un museo che è durato sino a noi. L’altro elemento decisivo è che la mostra American Photographs era accompagnata da un libro, una straordinaria invenzione, un libro di immagini concepito sul modello della raccolta di poemi in prosa.

 

Un vero e proprio nuovo medium, che diventerà essenziale nella successiva vicenda della fotografia.

 

Sì, vicenda non chiusa peraltro, ma che per alcuni artisti non ha alcuna importanza, vedi il caso di Jeff Wall, che ha prodotto quaranta cataloghi ma mai un libro. Per lui, è il tableau fotografico a essere interessante, non il libro.

 

In cosa consiste secondo te lo specifico contributo di Wall alla vicenda dell’uso della fotografia da parte degli artisti?

 

Ha reinventato il quadro, un gesto straordinario. Mi ricordo ancora della prima volta in cui ho visto una sua opera, nel 1995; era The Thinker, ispirato all’incisione di Dürer con la figura seduta trafitta dalla spada. Quando ho scoperto questa immagine sono rimasto stupefatto. Wall faceva, e fa tuttora, quadri fotografici. Non è il primo: nel XIX secolo già li faceva Le Gray, e poi i pittorialisti hanno realizzato messe in scena fotografiche. Ma Wall li realizza sulla base della pittura degli anni 1940-1950, della sua esperienza dei quadri di Pollock, Rothko ecc., riallacciandosi alla scala della pittura accademica e della pittura di storia in generale. Anche lui ha realizzato alcuni quadri di storia, piuttosto parodici e grotteschi, ma partendo da Manet interprete di Velázquez, e dunque riducendo la pittura di storia a pittura di genere.

 

Jeff Wall, The Thinker, 1986

 

La cosa che mi colpisce di più in Wall è la tensione tra estetica dell'istantanea e ricreazione artificiale che esiste nei suoi lavori, in altre parole la tensione tra “effetto di realtà” e finzione nel medium fotografico. Qual è la tua idea in proposito?

 

Wall ha sempre preteso di ispirarsi a cose viste, nel senso di Victor Hugo. È lo stesso schema, e si tratta davvero di una struttura storica: tra beaux-arts e media, da un lato, e reportage dall’altro, con una tensione tra le sue polarità. Gli artisti agiscono all’interno di questa struttura. Se si aggiunge l’allucinazione si ottiene una comprensione più profonda di questi fenomeni e si evita di ripetere sempre le stesse parole d’ordine della critica americana.

 

Uno dei “dispositivi” essenziali della vicenda moderna è il montaggio. Qual è dal tuo punto di vista il suo ruolo tanto nella storia dei rapporti tra arte e fotografia che nella nostra attualità?

 

Per risponderti, dirò anzitutto che pur avendo scelto storia dell’arte come disciplina, ho sempre trovato difficile dire qual è la cosa più importante per me, tra l’espressione verbale e l’immagine. La prima volta che ho potuto mettere in relazione questi due interessi, la letteratura e le immagini, è stato lavorando alla radio. Era una trasmissione sulla fotografia, si chiamava Radio-Photo. Giocavo sul fatto che alla radio non ci sono evidentemente immagini e non ci sono suoni nella fotografia. È stato lavorando a questa trasmissione che ho scoperto il montaggio, mettendo in relazione linguaggio e musica di ogni puntata. È il montaggio ciò che pratico costantemente nei miei libri, nelle mie mostre, nelle mie lezioni, sempre. È una forma di associazione che presenta un aspetto narrativo che può dispiegarsi sia nel tempo che nello spazio. Di qui l’importanza della nozione di intervallo, che ho scoperto nel cinema, ad esempio in Vertov. La seconda cosa è che non avrei mai potuto fare storia dell’arte senza lavorare con degli oggetti e per far ciò mi sono allontanato dal mondo universitario per avvicinarmi a quello dove si fabbricano oggetti, vale a dire le accademie di belle arti. Non soltanto per essere accanto degli artisti, ma per essere lì dove si fabbricano cose: io faccio parte di coloro che pensano che arte significhi fare degli oggetti. L’artista moderno tuttavia diffida degli oggetti. Sono sempre rimasto colpito da una frase di Douglas Huebler che diceva in sostanza: “ci sono abbastanza oggetti nel mondo e non vale la pena di aggiungerne altri, ciò che vorrei è produrre dei modelli”. C’è nell’arte moderna una fondamentale negatività confronti dell’oggetto, nella quale è centrale la critica marxista della reificazione. Di qui la mia passione per Duchamp, per Broodthaers, per la linea che chiamiamo concettuale. Dunque, montaggio per produrre rapporti, forse modelli, più che oggetti, ma montaggio anche per includere gli oggetti. Penso di fare in questo modo qualcosa in accordo con l’arte moderna, con quell’atteggiamento dell’artista un po’ ambivalente nei confronti dell’oggetto che suona: “Si, fabbrico oggetti, ho bisogno di farli, è un modo per proiettarmi nel mondo, ma allo stesso tempo non ho voglia di aggiungerne di nuovi, ho una reticenza, mi piacerebbe produrne il meno possibile, o far sì che ognuno di essi sia unico”, così come vuole la posizione straordinaria di Duchamp, per il quale ogni oggetto non può essere ripetuto. Tutto questo è a monte di tutte le mie scelte. Praticare il montaggio con oggetti reali e non soltanto con libri, con riproduzioni, è fondamentale per trattare anche l’ambivalenza nei confronti dell’oggetto.

 

Lo spazio reale dell’esposizione, gli oggetti che vi sono contenuti, serve anche a rivelare un potenziale che le opere non possono esprimere che quando sono presenti materialmente in un ambiente…

 

Certamente. Ci troviamo di fronte a un vero paradosso, che è costitutivo di questa attività: tra l’attitudine di appropriazione o proiezione e l’idea che le opere devono, o possono, funzionare da sole, senza lo spettatore, e che in un certo senso lo spettatore sia lì solo per permettere che dialoghino tra loro, che trovino i loro giusti rapporti. Il lavoro di organizzazione di una mostra tende perciò a diventare quasi anonimo. Ma il paradosso si risolve se si pensa al fatto che il lavoro di montaggio necessita in partenza di una grande conoscenza e padronanza delle opere.

 

Raoul Hausmann, Senza titolo, 1931

 

Per tornare a Hausmann, non c’è anche nella sua posizione una critica implicita a una concezione della fotografia come strumento, diremmo oggi, della spettacolarizzazione del mondo?

 

C’è una dimensione etica, anzitutto. Sono sempre stato contro l’appropriazione estetica, ho sempre pensato che occorre lasciare esistere le cose, le persone, cercando di non farle entrare in modo autoritario in categorie, in discorsi, in racconti. Ho sempre pensato che l’arte moderna sia un’arte costruttiva, non autoritaria, e ciò che mi interessa è appunto una costruzione non autoritaria, qualcosa che ho capito osservando l’opera di Sophie Taeuber. Ho un fondo anarchico che ho ritrovato in John Coplans e in molti artisti con cui ho condiviso delle idee: lasciare esistere il mondo, non forzare il discorso, non imporre un’interpretazione, non piegare le cose in senso spettacolare.

 

In questo senso le mostre, di fotografia o altro, non sono anch’esse dispositivi intrinsecamente spettacolari?

 

Una mostra è certamente uno spettacolo ma al tempo stesso anche un antispettacolo. È un paradosso impossibile da sciogliere. Ma si deve cercare di produrre uno spettacolo antispettacolare, allo stesso modo in cui un artista-fotografo deve sforzarsi di produrre immagini non basate sull’appropriazione estetica. L’idea di costruzione non autoritaria è per me fondamentale, e dico bene non autoritaria, non “antiautoritaria”. Bisogna sempre sottrarsi al principio di autorità.

 

 

Una versione più breve di questa intervista è uscita su "il manifesto - Alias" del 20 maggio.

 

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Fotografia, documento, ambiguità

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Laura Gasparini incontra Simone Sapienza e Umberto Coa, fotografi tra i finalisti della Public call della dodicesima edizione di Fotografia Europea a Reggio Emilia. 

 

Simone Sapienza

 

LG: Rivoluzioni, ribellioni cambiamenti, utopie. Il titolo di questa edizione di Fotografia Europea si addice molto a diversi tuoi progetti che hai realizzato in Vietnam come United States of Vietnam e Charlie surfs on Lotus Flower. Puoi raccontarci la tua declinazione?

 

SS: Sono molto affascinato dalle tematiche vicine al potere e a come quest'ultimo possa influenzare il corso della storia e soprattutto la percezione di essa. I due progetti sono in qualche modo complementari, anche se United States of Vietnam, in formato installazione-bandiera, è diventato sempre più bonus track dell'altro. La dinamica è stata pressoché questa: la bandiera rappresenta in maniera seriale e controllata la "libertà" in crescita del mercato; Charlie surfs on Lotus Flowers si concentra invece sulla tematica del controllo (politico) attraverso un approccio libero e slegato da ogni vincolo giornalistico. È come se tematica ed approccio fotografico si alternassero e compensassero.

 

LG: Perché, nelle tue indagini, hai scelto il Vietnam? Quali sono stati i cambiamenti e, forse, le utopie tradite o no, che più ti hanno affascinato di quel paese?

 

SS: Durante i miei studi in fotografia, ebbi modo di scoprire come la guerra del Vietnam fu crocevia fondamentale per la storia della fotografia documentaria in particolare dal fronte di guerra. La documentazione di quel fallimento ha dato il via alla censura e al fotografo embedded, fino a rinnovarsi totalmente in citizen journalist ai tempi della Primavera Araba. Così cominciai a chiedermi cosa sapessero i miei coetanei della storia del Vietnam, e mi sono reso conto che i riferimenti principali fossero cinematografici, non essendo un argomento battuto nelle scuole. Mi chiesi poi io cosa ne fosse rimasto del Vietnam oggi, e da lì le scoperte sui dati economici, sociali e demografici mi hanno spinto ad approfondire il Vietnam oggi, al di là delle risaie e altri stereotipi da cartolina. Utopie tradite, sicuramente – come in tanti altri Paesi in cui la rivoluzione ha portato ad una forma diversa di potere, spesso assoluto. Ecco perché il Vietnam c'è, ma non è così esplicito nelle foto. È un simbolo.

 

 

LG: Ti definisci fotografo documentario, a quale pensiero ti senti più vicino, in particolare a quale autore?

 

SS: La mia definizione di fotografo documentario è molto vaga, eterogenea, spesso criticata. Credo molto nell'importanza della ricerca preliminari nei progetti – per me, è quello a definire un progetto documentario o meno. Per il resto, c'è un determinato tasso di interpretazione che può essere più o meno esteso, a seconda del progetto. Sicuramente, al di là dei fotografi di break news, non credo nell'obiettività della fotografia come medium, e quindi in quella presunzione di verità spesso portata in auge dal mondo del fotogiornalismo. Si prendi ad esempio il WPP – World Press Photo – negli ultimi due-tre anni, è tornato a rifossilizzarsi e auto-compiacersi, è attuale nelle tematiche rappresentate, ma totalmente scostato dalla realtà quanto a cambiamento del medium fotografico. 

Non ho degli autori di riferimento in maniera "religiosa", diciamo. Ce ne sono due che stimo moltissimo, grazie al loro approccio metodico e intelligente, progetto per progetto, Max Pinckers e Federico Clavarino. Quest'ultimo, anche ottimo docente che riesce a distinguersi rispetto all'offerta educativa vasta sì, ma generalmente sempre più piatta. Rispetto alla fotografia del passato, rispetto eterno per Frank ed Eggleston, e non per assonanza di approccio. Semplicemente, ci ricordano che a volte bisogna passare per "eretici" prima di poter affermare il proprio linguaggio.

 

LG: Il linguaggio fotografico che utilizzi nel descrivere e documentare i temi dei tuoi progetti non è diretto ma richiede un’attenzione e una partecipazione attiva dello spettatore. È un elemento indispensabile del tuo modo di documentare?

 

SS: Nei miei ultimi progetti c'è un elemento in comune: la decontestualizzazione. Mi piace l'idea di poter realizzare dei progetti che possano rappresentare realtà simili, seppur con geografie e storie diverse. Quest'approccio è diventato ancor più estetico in Vietnam. Le fotografie sono poco descrittive, semplici, quasi banali e troppo pulite. Quindi sì, bisogna un po' scavare e trovare empatia con i soggetti, e soprattutto con gli oggetti. L’immagine verticale, inconsciamente, mi aiuta in questa pulizia di contenuti. Mi sarà stato detto così tante volte che una fotografia deve raccontare quanto più da sé, che alla fine ho cercato di limitare i messaggi espliciti. Sì, sono un po' bastian contrario.

 

 

 Umberto Coa

 

L.G.: Non dite che siamo pochi nasce da un ritrovamento avvenuto casualmente di fotografie, lettere e documenti. È l'ennesimo ritrovamento che ha fatto scaturire un progetto che presenti a Fotografia Europea 2018. Puoi parlarcene?

 

U.C.: Il lavoro si sviluppa a partire da un espediente narrativo, il ritrovamento di un insieme di fotografie, documenti, provini a contatto, libri, oggetti e diari. Questo materiale è stato messo insieme e mi è stato consegnato da un uomo, al quale mi riferisco utilizzando solo le sue iniziali: MB. 

In molti lo definirebbero un anarchico insurrezionalista, io preferisco anarchico d’azione. Il materiale raccolto, in fondo, si concentra prevalentemente su questo aspetto: quello delle pratiche di opposizione e di attacco al potere e agli strumenti d’oppressione. Dalle fotografie di MB emergono le diverse forme attraverso le quali la rivolta si manifesta, investendo l’esistenza nella sua interezza. Così immagini di cortei, sabotaggi, cariche e prigioni si alternano ad altre di natura privata. A questo si aggiungono collage e fotografie storiche rielaborate, che dialogano con scritti, comunicati di rivendicazione e opuscoli. 

Le didascalie aiutano a seguire il percorso del protagonista, contestualizzando le immagini e dando un nome ai volti che incontriamo: Luigi Lucheni, Severino di Giovanni, Horst Fantazzini, Niko Matiotis e altri ancora. 

Tutto ciò conduce al cuore di un’idea di rivolta, con un suo portato fisico, corporeo, che si esprime alla luce del giorno così come nel buio della notte, dall’Italia alla Grecia, dalla Spagna alla Francia.

 

 

LG: Hai dismesso i panni del fotografo per indossare quello dell'archeologo, come direbbe Michael Foucault l'"archeologo dei saperi". Cosa hai scoperto?

 

UC: Tante cose. Cercare di riassumerle sarebbe riduttivo.

Non avendo vissuto gli eventi cui si fa riferimento e non avendo preso parte a situazioni simili, non mi sento di poterne fornire un’analisi esaustiva. Il mio lavoro può al massimo contenere degli indizi, a partire dai quali ciascuno può provare a discostarsi dalla lettura che comunemente viene data di tutte quelle azioni di dissenso che vanno oltre i limiti legali e morali della società democratica.

 

LG: Vedendo il tuo lavoro, però, sorge spontanea la domanda cosa hai inventato?

UC: MB non è mai esistito; il suo archivio raccoglie immagini trovate in rete, frame estrapolati da video, messe in scena e fotografie che talvolta non hanno niente a che vedere con l’oggetto del racconto. Paradossalmente queste sono le sole che hanno mantenuto la funzione, unicamente narrativa, per le quali sono state realizzate. 

Anche l’idea di installazione, curata da Renata Ferri, è stata quella di costruire una dimensione dell’immaginario, in cui la finzione penetra nella realtà e si confonde ad essa. 

I riferimenti a eventi accaduti, nonché i documenti che utilizzo, sono frammenti del percorso biografico di MB. Costituiscono, così come il resto del materiale esposto, una prova tangibile della sua esistenza.

Non mi interessava quindi fornire una precisa ricostruzione storica o dare informazioni complete. Ho provato a raccontare una storia, sperimentando le molteplici possibilità con cui orientare il significato delle immagini e chiedendomi che ruolo queste svolgano nella percezione della realtà. 

Per sapere cosa è inventato, cosa non lo è, cosa è attendibile, cosa è manipolato, bisogna verificare.

Questo lavoro può anche essere letto come un invito a distinguere tra vero e falso rispetto a un tema preciso.

 

 

LG: La fotografia, o meglio le immagini, hanno un potere evocativo straordinario tale da "documentare" una realtà che non esiste. È un aspetto davvero sovversivo del linguaggio della fotografia. Tu come l'hai elaborato?

 

UC: Questo aspetto sovversivo della fotografia è stato utilizzato, per ragioni diverse, fin dai primi anni di diffusione del mezzo. Prendendo spunto dai diversi episodi che si sono susseguiti nel campo dell’arte e dell’informazione, ho utilizzato l’ambiguità delle immagini, la loro naturale capacità di mentire, come una risorsa utile per costruire una storia, servendomi di quello che ho trovato e aggiungendo le “parti mancanti’’: una continua opera di selezione, riadattamento e decontestualizzazione. 

Le didascalie ricollocano le immagini nello spazio e nel tempo. 

 

 

Così un frame tratto da un video di scontri a Exarchia nel 2016, mi permette di far riferimento alle proteste durante il Consiglio europeo di Salonicco del 2003. Un incendio di un traliccio causato da un corto circuito, si trasforma in un’azione di sabotaggio. La foto di un portabagagli con un bidone di plastica diventa l’anello di congiunzione tra l’immagine di un ordigno incendiario a quella di una ruspa in fiamme.

Il metodo che ho seguito acquista senso in rapporto al tema trattato; in questo senso il personaggio di MB ha un ruolo chiave in quanto presunto testimone diretto. Io riorganizzo il suo archivio, aggiungendo un secondo filtro. Nel momento in cui scopri che lui non c’è, ti chiedi che cosa sia veramente quello che hai di fronte. Quanti filtri ci siano effettivamente tra la realtà a cui si fa riferimento e la sua rappresentazione. 

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Pittsburgh ritratto di una città industriale

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In una immagine si vedono i tetti in lontananza, appuntiti, regolari, mentre fili dell’alta tensione, come linee morbide, attraversano il fotogramma. In un’altra tutto è scuro, il cielo, il fiume, il ponte sottile che lo attraversa: solo le luci delle fabbriche e i fumi prodotti dagli impianti industriali appaiono luminosi. Poco distante, un altro fotogramma mostra edifici e ciminiere. Si riflettono nelle acque del fiume come ombre su una superficie grigia. Più oltre, il fotografo ritrae una ragazza che si appoggia sconsolata a un parchimetro. Il suo sguardo è rivolto a terra, aspetta qualcuno. Dietro di lei, l’unica stella nel cielo è quella di un cartello pubblicitario. Pittsburgh è racchiusa in questi pochi istanti, anche se W. Eugene Smith ha scattato 20.000 immagini, senza davvero mai porre fine a questo lavoro. Al Mast di Bologna la mostra curata da Urs Stahel ne racconta la storia. Tutto inizia a metà degli anni Cinquanta. 

W. Eugene Smith è al culmine della sua fama e Pittsburgh pare la città del futuro: acciaio, fabbriche, operai da tutto il mondo. Nel 1954 il fotografo lascia la rivista “Life”, vuole essere libero da qualsiasi vincolo. Ha lavorato come fotoreporter per Collier’s, Parade, Time, Fortune, Look, e ha pubblicato alcuni fra i suoi più famosi saggi fotografici: Un medico di campagna (1948), Vita senza germi (1949), La levatrice (1951), Un uomo compassionevole (1954). Nel 1955 entra a far parte dell’agenzia Magnum e accetta la richiesta di realizzare, nel giro di un paio di mesi, un centinaio di foto della città di Pittsburgh per il bicentenario della sua fondazione. Il lavoro si presenta immediatamente difficile da realizzare. Smith ne è consapevole, scatta foto per quasi tre anni. “Avrei voluto farti vedere la situazione in cui lavoravo a Pittsburgh; una tavola dopo l’altra, piene di molte migliaia di provini 5x7, gli schizzi per l’impaginazione, le belle composizioni di stampe finite”, racconta a Norman Hall. Life gli offre 13.000 dollari per pubblicare le sue immagini. Il fotografo non accetta. Vorrebbe realizzare un libro sulla città industriale più famosa del primo Novecento, anche se scegliere fra 20.000 immagini si rivela quasi impossibile. 

 

Nel 1959 decide di pubblicare una parte del suo lavoro sulle pagine di “Photography Annual”, annuario della rivista “Popular Photography”, con il titolo: Pittsburgh W. Eugene Smith’s Monumental Poem to a City. Sono poco più di trenta pagine, ma il lavoro è davvero come lo definisce il titolo: poetico e monumentale. Fotografare Pittsburgh, fare il ritratto di una città, significa coglierne l’essenza, come aveva fatto con il medico di campagna. Come si può pensare di stabilire con ogni individuo, edificio, elemento naturale un rapporto così prossimo e profondo? Riprodurre la vita di una città, entrare in empatia con ogni suo elemento, sentire di poterla curare, nel senso di poterle ridare nuova vita, è un’utopia. Pittsburgh si compone di frammenti che non si possono ricomporre e le fotografie di Smith mostrano tanto la confusione della città intesa come caos, ovvero un numero sterminato di immagini che resistono allo sforzo di essere riordinate, quanto il suo tentativo di con-fondersi con essa, di divenire un unico corpo. Le immagini vengono da questo nucleo che ha la consistenza della materia organica. Forse per questo molte di esse sono scure, buie, quasi notturne. 

 

W. Eugene Smith in his workroom © Arnold Crane, "Portraits of the Photographers,", 1968-1969. Archives of American Art, Smithsonian lnstitution.

 

W. Eugene Smith, USA, 1918-1978 Area residenziale / City Housing, 1955-1957 Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print 33.97 x 26.67 cm Carnegie Museum of Art, Pittsburgh Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh © W. Eugene Smith / Magnum Photos.


W. Eugene Smith, USA, 1918-1978 Stabilimento National Tube Company, U.S. Steel Corporation, McKeesport, e ponte ferroviario sul fiume Monongahela / National Tube Company works, U.S. Steel Corporation, McKeesport, and Union Railroad Bridge over the Monongahela River, 1955-1957 Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print 22.86 x 34.29 cm Carnegie Museum of Art, Pittsburgh Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh, Lorant Collection. © W. Eugene Smith / Magnum Photos.


W. Eugene Smith, USA, 1918-1978 Deposito U.S. Steel, Rankin / U.S. Steel facility, Rankin, 1955-1957 Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print 33.66 x 21.27 cm Carnegie Museum of Art, Pittsburgh Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh, Lorant Collection. © W. Eugene Smith / Magnum Photos.


L’immagine non riesce del tutto a mostrare l’energia spietata che muove la storia. Le foto di Eugene Smith vorrebbero rappresentare il momento in cui vibrano tutti i tempi possibili, un tempo che si spinge oltre la dimensione dell’uomo. Ma non possono. Forse è per questo che cieli, luci e volti mostrano il punto in cui le cose si volgono a una dialettica conflittuale, che impedisce loro di risolversi, ma che in questa tensione esprime il suo senso più profondo. Cos’è Pittsburgh? Dove si trova? In uno spazio indefinito, dove spesso dominano le tenebre, che però sembrano contenere in sé, come una speranza, anche la luce, o almeno la possibilità della luce. Paradossalmente la città è un luogo che non si lascia abitare. Costringe chi vi si misura a essere costantemente fuori di sé, nel senso che non è possibile essere in sintonia con una realtà che si muove così rapidamente da rendere la sua consistenza quasi inafferrabile. Per questo le foto di Smith sono quelle di un’estasi, sanciscono una dolorosa separazione: della fotografia dalla vita, del fotografo dalla fiducia illimitata nel medium. È difficile cristallizzare l’esistenza in una forma, l’“immobilità minerale” di una fotografia può solo sfiorare il brulichio dell’esperienza vissuta e il caotico groviglio delle vite umane. Le 20.000 immagini di Smith sembrano suggerirlo.

 

Eppure, fotografare è un’attività salvifica, è tessere una rete che tiene sospesi sull’abisso del nulla. Non importa se è difficile giungere, come avrebbe voluto il fotografo al cuore del senso. “Saprebbero queste fotografie, lette senza parole, saprebbero suscitare il ricordo della vostra esperienza di vita a Pittsburgh, corroborarla? Oppure vi sembrerebbe di osservare un’esperienza estranea – quasi avvenisse da un altro pianeta (…)?” egli chiede a Fran Erzen e Leon Miller. Eugene Smith si sente come un testimone che deve documentare l’esistenza di tutto e così facendo mostra anche la propria impotenza. È questa la “con-fusione”, ovvero l’incertezza e insieme la forza oscura che ancora oggi investe ogni spettatore dinnanzi alle fotografie di Pittsburgh. Una sola immagine e insieme le 20.000 simbolizzano una certezza e un dubbio. “Da un certo punto non c’è più ritorno”. È forse questo il punto da raggiungere?

 

W. Eugene Smith, USA, 1918-1978 Ragazza accanto a un parchimetro, Carnevale della Camera di commercio di Shadyside, Walnut Street / Girl leaning on a parking meter, Shadyside Chamber of Commerce carnival, Walnut Street, 1955-1957 Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print 33.66 x 22.22 cm Carnegie Museum of Art, Pittsburgh Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh, Lorant Collection. © W. Eugene Smith / Magnum Photos.


Mostra: 

W. Eugene Smith. Pittsburgh ritratto di una città industriale a cura di Urs Stahel in collaborazione con il Carnegie Museum of Art di Pittsburgh.

Fondazione Mast, Bologna, dal 17 maggio al 16 settembre 2018. 

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Occhi di donna

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Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, come hanno scritto i filosofi antichi, cosa c’è nell’anima di questa donna? Molto più che paura o sconcerto. C’è l’orrore, quello di chi è stato lasciato in balia delle acque su un gommone a malapena galleggiante, e ha visto morire la propria amica e il figlio su quella zattera sconquassata dai marosi. Quegli occhi esterrefatti, increduli, occhi che dicono tutta la tragedia e insieme la negano: Non è possibile! Ditemi che non è possibile! Occhi imploranti, come abbiamo imparato purtroppo a conoscere da quando la fotografia documenta le guerre e i massacri: il terrore indicibile dei sopravissuti. E ancora più indietro nei secoli, da quando la grande pittura racconta il dolore dei dolenti, del Cristo in croce e delle donne all’intorno. Sono gli occhi di Maria presso il corpo del Figlio. La mano che accarezza e insieme sostiene quel viso rende manifesta una pietà che altri non sembrano provare. La pupilla scura e il bianco attorno, la bocca appena aperta, il biancore accennato dei denti tra le labbra socchiuse: non possono lasciare che interdetti.

 

Com’è possibile che non si soccorra in mare queste donne, che non le si porti in salvo sulla terra ferma? Ogni volta che sento il Ministro dell’Interno usare l’espressione “come padre”, mi domando dove stia la paternità di cui parla, e non posso fare a meno di pensare che sia solo un modo di dire, che Matteo Salvini non sappia davvero cos’è la paternità, se non come un fatto meramente biologico, non certo come stato d’animo, come pathos o pietà, quella che si prova dinanzi a ogni forma di vita. Questi occhi gridano tutto il dolore del mondo, quello cui non sappiamo rispondere se non la durezza del cuore e con la crudeltà delle leggi. Non ci sono altre leggi per gli esseri umani che quelle dell’anima, leggi che suggeriscono la misericordia e la compassione per l’altrui miseria.

 

Nell’etica cristiana, quella che ci hanno insegnato i Padri della Chiesa, la misericordia non è solo un sentimento, ma una virtù spirituale, una delle fondamentali virtù della nostra civiltà. “Beati i misericordiosi perché avranno misericordia”, così parla Gesù alle folle convenute ad ascoltarlo. Questi occhi dovrebbero togliere il sonno a chiunque abbia emanato l’ordine d’abbandono delle due donne e del bambino, a chi non ha avuto pietà per tre giovani vite umane in balia delle onde. Non dovrebbe più aver pace per il seguito dei suoi giorni.

 

Il cuore non conosce altra legge che la compassione. Il cuore non conosce altro ordinamento giuridico, o trattato internazionale, se non quello che nasce e vive nel cuore di chi ha un’anima. Ma c’è chi quest’anima l’ha persa, non l’ha più, e grida ai quattro venti: Io tengo duro. Duro cosa? Il cuore o la cervice? Entrambi, viene fatto di dire. A un certo punto del suo romanzo dei deboli e dei poveri Manzoni fa dire a un suo personaggio: “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia!”. Non sono un credente, ma guardando questa immagine della donna salvata dalle acque prego che, se c’è un Dio, apra il cuore di uomini che non sembrano più averlo. Apra il cuore a coloro che parlano il linguaggio dell’insensatezza, che non è neppure un linguaggio della politica ma della propaganda, il linguaggio della menzogna e dell’inganno. Mi rifiuto di credere che la pietà sia morta su quel fuscello di gomma sgonfia alla deriva nel Mediterraneo per quarantotto ore. Chi l’ha tratta in salvo, gli uomini e le donne dell’Ong, ha seguito un imperativo morale che non può più essere obliato, per cui non esiste tribunale umano che lo possa giudicare o legge che lo possa respingere. L’imperativo morale è ciò che ci rende umani, oggi come ieri.    

 

In forma appena più breve questo articolo è apparso ieri su “La Repubblica” che ringraziamo.

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Fisiognomica del disumano
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Primo maggio a Mensano

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Come si instaura una religione laica in Italia? È la domanda che sorge scorrendo le foto, bellissime, che Ferruccio Malandrini ha raccolto nel catalogo Mensano Primo Maggio. 1963-1975, in occasione di una mostra alla Biblioteca Comunale di Siena e che speriamo possa girare per l’Italia.

Immagini: 

Fontcuberta. La furia delle immagini

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A qualcuno darà fastidio la denominazione “postfotografia”, come già per “postmodernismo”, ad altri la perentorietà dell’assunto generale, ma si sa che le cose funzionano meglio così, sono più efficaci, scaldano gli animi e il dibattito. In più, in questa occasione questo ci viene da uno che sente davvero ciò che dice, si mette in gioco nella formulazione delle ragioni del suo argomentare ed è dialettico e equilibrato, mai polemico. Le questioni, d’altro canto, sono di quelle cogenti, più ancora che di attualità, di posizione. Inoltre chi scrive è un artista, o post-artista magari.

 

È comunque da anni che Joan Fontcuberta indaga con acume e partecipazione questi temi e dopo almeno due altri bei libri di saggi – Il bacio di Giuda (EdUP, 2010), La (foto)camera di Pandora (Contrasto, 2012) – nonché i numerosi suoi libri d’artista, con questo La furia delle immagini (Einaudi, 2018) sottotitola con modestia “Note sulla postfotografia” ma di fatto ce la definisce e racconta con impegno di esaustività. Il merito aggiuntivo infatti – che lo rende uno strumento anche didattico importante (Fontcuberta è non per niente anche docente) – è la motivazione di ogni aspetto e tema con ricostruzioni, per quanto sintetiche, sia storiche che di mirati riferimenti teorici.

Che cos’è dunque la postfotografia? È la fotografia dell’era della “seconda rivoluzione digitale”, del virtuale e di internet, dei social network e della telefonia mobile, della pervasività, della moltiplicazione e dell’onnipresenza delle immagini, che hanno così cambiato sia di statuto che di funzione. Le immagini fotografiche “non funzionano più nel modo in cui siamo abituati” e quindi le dobbiamo riconsiderare. Questo è sicuro. Non reggono più i rapporti della fotografia con la verità e con la memoria che davamo per scontati, quindi come affrontare il misto di realismo che continuiamo ad attribuire alla fotografia e non solo la manipolazione ma anche la virtualità? Più che all’ontologia, si sostiene, occorre analizzare le funzioni, gli usi, i ruoli sociali, i contesti culturali e politici. E dunque: quali sono i nuovi ambiti di creazione e diffusione delle fotografie? E con slancio verso il futuro: riuscirà il nuovo stadio tecnologico a rafforzare la creatività e il senso critico degli artisti, o al contrario tenderà a togliere loro combattività?

 

Riferirsi agli usi e funzioni significa anche “far scaturire riflessioni dalle nostre azioni riguardo all’immagine, e un esercizio di filosofia legato all’esperienza della nostra vita digitale”, un richiamo all’analisi dei comportamenti reali e diffusi, piuttosto che a quelli elitari o specialistici, come sono quelli “artistici” in senso “prepost”. Tali usi sono da un lato in balìa di una “metastasi” incontrollabile, una proliferazione che pare coprire ogni ambito e esaurire ogni istante e comportamento, per cui tutto diventa peraltro “tracciabile” e controllabile se non controllato, dall’altro lato i postfotografi ne indagano le ragioni e gli effetti, ne valorizzano quelli positivi, mentre trovano i vuoti, le mancanze nel sistema, voluti, e dunque di censura, o non voluti, e dunque possibili falle, intoppi, limiti; dunque evidenziano, criticano, denunciano, “detournano”.

 

Opera Txema Salvans/Jon Rafman.


Per esempio se da Google Maps a Google Street View il pianeta sembra tutto mappato e visibile, in realtà navigando ci si può imbattere in zone scoperte, sorta di “terrains vagues” dove la fotografia sembra non poter arrivare, vuoti o al di là di limiti non segnati, o quella che appare come una sorta di “iconografia involontaria” per cui nelle vedute sono state registrate prostitute agli angoli delle strade, o incidenti, azioni di polizia, eventi fortuiti e imprevisti, o ancora parti di paesaggi censurate restituite pixelate. Artisti come Txema Salvans/Jon Rafman, Michael Wolf, Mishka Henner li hanno scoperti e ne hanno fatto loro opere. E se i tradizionali album fotografici sono morti, uccisi-sostituiti dalla digitalizzazione, non manca chi guarda non più l’immagine rappresentata nelle fotografie, ma il loro supporto materiale, quando non addirittura il loro retro – diversi artisti: Manuel Sendòn, Isabelle Le Minh, Inaki Bonillas, Gonzalo Gutiérrez –, o ancora l’album o altro dispositivo di raccolta e di esibizione; oppure la manipolazione che alcuni vi hanno operato, secondo un uso che Fontcuberta rimanda a una sorta di pratica vudù, per cancellare o colpire una persona presa di mira per i motivi più disparati.

 

Grande uso che non si può non prendere in considerazione è naturalmente il selfie. Fontcuberta vi dedica riflessioni davvero non scontate, a partire dal selfie animale, che mette – ha messo, in casi di cronaca diventati famosi perché sfociati in cause giuridiche – in discussione l’intenzionalità, l’autorialità, e con essi il copyright, i diritti, che non si sa più se attribuire a chi scatta materialmente, a chi se ne appropria o a chi ha l’idea; c’è il paragone con l’uso dello specchio per indagare giustamente il grado di narcisismo implicato, il loro lato liberatorio oltre a quello tendenzialmente esibizionista.

C’è chi ha usato le foto- o videocamere di controllo per farsi dei selfie sui generis, trasformando il controllo in controesibizione, chi ha trasformato la “surveillance” in “sousveillance”, rovesciando ed esasperando l’intento altrui. Fontcuberta ha stilato una casistica dei tipi di selfie: utilitario, celebrativo, sperimentale, introspettivo, seduttore, erotico, pornografico, politico (abbattere la separazione regolata fra il privato e il pubblico; antisistema, contro le regole sociali, contro il decoro, contro la morale borghese). Con grande spirito di osservazione ha visto i gesti ripetuti ma sempre variati di questa pratica ormai costante come una “danza selfica”, con le braccia che misurano – rompendo il contatto tra occhio e mirino, osserva Fontcuberta – la distanza tra macchina e volto, il corpo che assume posizioni flessuose, il luogo che diventa scenografia, gli altri selfisti che formano un corpo di ballo... Una danza anche nel senso liberatorio, si diceva, perché, disegnando “una miriade di reality show su scala individuale”, finisce con il “privare il mito del Grande Fratello delle sue connotazioni accentratrici, autoritarie e repressive per aprirlo, al contrario, a un sistema democratico, volontario e partecipativo”.

 

Quest’ultimo è uno dei leitmotiv di fondo di Fontcuberta, la sua posizione. Il cambio epocale della postfotografia vede innanzitutto le immagini a disposizione di tutti e soprattutto di tutti gli usi, di quelli democratici, di conquista di spazi e di comportamenti, di resistenza e opposizione agli abusi e alle imposizioni. Allora, questo è il senso del cambio estetico secondo Fontcuberta, così come all’ontologia si contrappone l’uso, all’autorialità si contrappone l’accesso e la condivisione, all’appropriazione l’adozione, alla creatività l’attribuzione di significato. Tutto è a disposizione, si tratta di avervi accesso, di condividerlo, di sceglierlo e di darvi senso. Dall’archivio come disponibilità dei materiali e pretesa di totalità si deve passare alla collezione come esercizio del “distinguere, rovistare, selezionare, riciclare”, dalla memoria come registrazione e museificazione occorre passare ad altre forme di memoria, selettive ma anche vive. Fontcuberta ha chiamato “nuovi enciclopedisti” questi ricercatori di altre forme di ordini, di relazioni, di percorsi, e nel libro dedica un bel capitolo all’idea di collezione, e un altro alla “falsa distinzione tra documento e arte”, di cui il museo è il responsabile.

 

Insomma, Fontcuberta solleva veramente tutte le questioni più vive che hanno la fotografia come perno attuale, poststorico, e lo fa con slanci e spunti numerosi e originali; ricordarle tutte verrebbe lungo quanto il libro stesso. Discuterle poi merita veri e propri saggi e altri libri. Solo ancora poche cose da parte mia, una sola di fatto. Anche Fontcuberta, come la stragrande maggioranza di coloro che si dedicano a questi argomenti che anzi la scansano, sembra in imbarazzo nella definizione dell’arte, limitandola al suo ruolo critico e sociale. Ma se postfotografia è chiaro che è una pratica adeguata al cambiamento dei tempi, dei materiali, dei modi, “postarte” che cosa può essere? Fontcuberta è (post)artista e quindi in realtà la questione è sempre all’orizzonte per lui. Accesso, collezione, adozione, dare senso sono forme, ma che cosa ne fa arte? Che cosa le distingue dall’utilizzo che ne fanno gli altri, visto che comunque la postfotografia è una pratica artistica? A me sembra che questo sia importante e non uno sfizio di chi si occupa d’arte. È una questione estetica e politica, come giustamente ci si rende conto. Non per niente l’arte è un inghippo, anche nei discorsi. Lo è anche in Fontcuberta, che a volte non riesce a evitare espressioni e metafore come “riportare alla vita un’immagine dormiente”, l’idea di una “memoria misteriosa, scomoda”, la smaterializzazione digitale letta come “hantologie” (da Derrida)... Insomma l’arte non è il medium. È un’altra cosa, la si chiami come si vuole se si vuole evitare i “privilegi” e gli “elitarismi” che le si contestano, ma che cos’è che rende quelli degli artisti citati, e dello stesso Fontcuberta, diversi dagli altri “usi”? Proprio gli usi? “Dar senso”: siamo sicuri? Forse che gli altri non danno senso? E dunque quale senso?

 

Il prefisso post segna che le cose sono cambiate, che giustamente non si può considerare queste di oggi con gli stessi modi e categorie e atteggiamenti di prima. Ma si tratta di uno spostamento, non di una sostituzione. Che senso hanno e danno questi ordini non scientifici, queste narrazioni fatte di salti temporali e spaziali, e tutte le opere descritte nel libro?

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Man Ray. Wonderful visions

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Da sotto in su. Lo sguardo è proprio questo. La fotografia non mente: due bellissime gambe, una ha una calza e l’altra no, quasi con noncurante trascuratezza. La donna è sdraiata a terra con i piedi verso l’alto e li appoggia a una parete nera, il suo sguardo non si dirige verso l’obiettivo del fotografo e nemmeno verso di noi, ma in direzione del suo alluce destro, la punta estrema del suo corpo. Non si vede nemmeno il volto. È nascosto, misterioso, perso in chissà quali pensieri. Non esiste che in se stessa, solo per sé. Si direbbe un momento di estrema, compiaciuta solitudine.


Lo sguardo del fotografo non è dinnanzi alla modella, non si contrappongono, ma sono sulla stessa linea. Coincidono. Non si guardano, ma guardano entrambi lo stesso punto. Sembra che Man Ray, l’uomo raggio, stia fotografando l’istante prima dello scatto, quello dove l’aspetto della creazione non ha ancora una forma, ma di lì a poco l’acquisterà. Forse è il momento in cui la libertà è al suo apice, in cui tutto può ancora accadere. La modella non ha uno sguardo, o meglio, noi non lo possiamo vedere. Tutto deve essere inventato. La seduzione risiede in questo istante di pura distanza e di estrema vicinanza, come avviene nel mito di Narciso. Le immagini di Man Ray sono desideri. Idee impalpabili, come l’allevamento di polvere di Marcel Duchamp che egli ha fotografato: la polvere che si muove nell’aria mostra la libertà di una forma che si esprime nelle infinite possibilità combinatorie date dal caso. Cos’è la forma di un desiderio se non la sua mancanza? Desiderare e fotografare hanno la stessa natura: cercano di dare forma a ciò che è impossibile da fissare sia sul fotogramma che nella vita. Non è un caso che l’immagine delle due gambe elevate verso l’alto sia destinata a una pubblicità, luogo per antonomasia in cui si alimentano i desideri, come suggerisce il titolo Publicité pour les bas.

 

Man Ray, Publicité pour les bas, 1930 circa.


In questa immagine si materializza un’utopia, un sogno, la totale, libera, irrealizzabile autosufficienza, l’istante vuoto ovvero la forma stessa del desiderio: il buio prima della luce dell’immagine. La modella sta guardando il suo alluce, il suo sguardo si chiude in sé. “Desideri del soggetto, espressi da un’ascensione alata degli oggetti del desiderio”, direbbe Georges Bataille. Questo alluce rivolto verso l’alto come estrema propaggine di sé, non è poi così distante da quell’alluce evocato in Documents, immagine e feticcio in cui l’alto e il basso perdono i loro connotati. È la punta di uno spazio insolito, che confonde la nostra percezione, il cui movimento ricorda la fantasia ascensionale che Roland Barthes evocava a proposito della Tour Eiffel, euforica, poiché aiuta l’uomo a “vivere, a sognare, associandosi all’immagine della più felice delle grandi funzioni psicologiche, quella della respirazione”. Il desiderio non è forse un affanno: euforia, entropia e perdita di ogni punto di riferimento? 

 

È con questa immagine che si potrebbe guardare la mostra Wonderful visions, dedicata a Man Ray con la cura di Elio Grazioli. La si dovrebbe percorrere da sotto in su, da un punto di vista insolito, che lascia spazio a un capovolgimento, per dirla nuovamente con Bataille, non tanto con “i piedi nel fango” e la testa “quasi nella luce”, ma in un continuo cambio di prospettive e di spazi.

 

Più che i soggetti sono gli espedienti visivi elaborati del fotografo il vero punctum del suo lavoro. La solarizzazione non è solo una tecnica, ma un vero stravolgimento semantico: in sede di stampa vengono alleggerite le aree scure e scurite quelle chiare. Il risultato è un’immagine argentea ed eterea, il soggetto emerge dalla foto come una creatura fantastica: i ritratti solarizzati di Giorgio De Chirico, dello stesso Man Ray e di André Breton, paiono i riflessi provenienti da un’altra realtà: distanti, quasi intoccabili, inconcepibili anche allo sguardo. Qui fotografare significa spingersi oltre ciò che si vede, significa trovare l’invisibile nel visibile. Vuol dire entrare nell’immagine stessa, far parte della sua materia costitutiva. L’uomo raggio, che ha solarizzato anche se stesso, è riuscito a insinuarsi con la luce del suo sguardo nei profili delle cose, ne ha fissato sul fotogramma l’essenza nascosta, il suo stesso desiderio, “allo stesso modo di certe improvvise condensazioni atmosferiche, il cui effetto è di rendere conduttrici delle regioni che non lo erano e di produrre i lampi”, direbbe l’amico Breton. 

 

Ma non è tutto. Se la solarizzazione prevede un rivolgimento della nostra percezione, attraverso lo sguardo del fotografo, nei rayogrammi egli decide di scomparire per lasciare il posto alla luce. Queste immagini derivano dall’atto di appoggiare direttamente gli oggetti sulla lastra, emergono dalla loro materia, nascono dalla luce senza la fotocamera. Si trasformano in oggetti a funzionamento simbolico, o meglio paiono altrettanti “object trouvé”, direttamente estratti dalla luce. Sono simboli del vuoto: il fotografo cessa di esistere e forse anche la fotografia intesa come manufatto prodotto dall’uomo. La scena è orfana di un autore-creatore e chi osserva le immagini è disorientato, ma allo stesso tempo indotto a riappropriarsi di queste forme in bilico tra epifania e dissoluzione. Cosa significa creare: separare la materia, dare luce o lasciare che la luce stessa crei ogni oggetto? Chi è il vero artefice? Sfere, riflessi, ombre costituiscono la materia dei vari rayograph, che conservano l’embrione dell’indeterminatezza e delle sue possibili forme a venire, come una presenza spettrale o fantasmatica, di ciò che c’è senza davvero esserci. Esattamente come in una fotografia.

 

Man Ray, Dora Maar (Composition à la petite main), 1936

 

Tutto questo non avviene solo nei rayogrammi. In generale, nelle immagini di Man Ray, ciò che sta dinnanzi ai nostri occhi sono riflessi, ombre, sogni, meraviglie. Hanno le qualità di ciò che Breton definisce “bellezza convulsiva”, ovvero “magica-circostanziale”, “erotica-velata”, “esplodente-stabile”, una bellezza in perenne movimento e senza un senso univoco, “che lega l’oggetto considerato in movimento e nello stato di quiete”, scrive nell’Amour fou, sintetizzando con queste parole un programma estetico che riguarda anche i rapporti umani, e ogni genere di incontro capace di sprigionare la “scintilla poetica”. Una bellezza del tutto insolita, considerata da Breton, e dallo stesso Man Ray, “esclusivamente secondo fini passionali”, capace di generare “un turbamento fisico caratterizzato dalla sensazione di un alito di vento alle tempie capace di provocare un vero brivido”. 

E nelle foto di Man Ray questo brivido non si alimenta solo della bellezza dei corpi femminili da lui fotografati, ma soprattutto di ciò che di incongruo l’obiettivo riesce a produrre attraverso la materia di quei corpi. Le immagini che più ci interrogano sono quelle in cui niente è come appare. Dove si dirige lo sguardo di Lee Miller stesa a terra con gli occhi chiusi e i capelli sospesi? Dentro di sé? Cosa si cela dietro al fitto intreccio di linee che costituisce il volto della moglie Juliet Browner? Qual è il mistero che si sprigiona dallo sguardo solarizzato di Dora Maar? Enigmi visivi.

 

E quindi cosa ci insegna oggi lo sguardo di Man Ray? Non è facile rispondere. Forse ci mostra come si può rappresentare l’indice di una rottura, di una crisi, un’apertura che mostra la rappresentazione nel suo punto critico, ovvero là dove si manifesta il rifiuto della semplice imitazione.

 

E poiché non si è avverata la profezia di Wim Wenders, ovvero che la proliferazione delle immagini (digitali), tutte bellissime e straordinarie, simili al mondo della pubblicità, avrebbero finito per allontanarci dal mondo della verità, avvolgendoci con il loro potere seduttivo in una sterminata orgia visiva, che finirà per renderci ciechi (Fred Ritchin lo dimostra con molti esempi, nel suo saggio Dopo la fotografia), soffermarsi oggi sulle foto di Man Ray, significa non limitarsi ad essere puri consumatori di immagini. 

 

Man Ray, Rayograph, 1923


La fotografia può davvero divenire un “oggetto d’affezione”, che dovrebbe “dilettare, disturbare, disorientare o far riflettere”, poiché, suggerisce Elio Grazioli nell’introduzione al catalogo della mostra, “l’affezione è ciò che crea il mistero, è il sentimento segreto che resta enigmatico al di là dello svelamento simbolico, è una dimensione privata in più di cui si carica l’oggetto, fotografia compresa, e lo sguardo si fa incantato”. L’incanto è il desiderio di soffermarsi su ciò che appare più lontano dall’essere compreso: l’ambivalenza, le polarità, l’“enfasi antitetica” di una fotografia, ovvero la propensione a inglobare distorsioni e rovesciamenti semantici. Man Ray lo asseriva con ironia: “Dipingo quello che non può essere fotografato. Fotografo quello che non voglio dipingere. Dipingo l’invisibile. Fotografo il visibile”. 

 

Fotografare e rapportarsi alle immagini significa davvero celebrare la libertà che risiede in ogni nuova acquisizione di senso. Se il timore è che le immagini vincano perché troppo disponibili a trasformarsi in feticci e tali da distogliere lo sguardo da una realtà che invece si impone ai nostri sguardi in tutta la sua inafferrabile complessità, l’occhio, come il medium fotografico, è divenuto l’interminabile estensione artificiale della nostra sensorialità naturale, in grado di incarnare le due facce opposte dell’attualità: quella dei sistemi di controllo e quella della libertà di vedere dappertutto. Una libertà che se da un lato ha inevitabilmente esasperato l’incontenibile pulsione voyeuristica connessa alle potenzialità meccaniche dell’obiettivo fotografico, alla sua presunta capacità di rappresentare la flagranza del reale (e di condividerla online), dall’altro può rappresentare al tempo stesso, un antidoto allo stesso voyeurismo, impedendone la normalizzazione attraverso l’individuazione di elementi sovversivi, che interrompono il flusso illimitato di immagini in cui siamo immersi. Cos’è che impedisce al nostro sguardo di andare oltre ciò che guardiamo? Cosa ci costringe a fermarci dinnanzi a un’immagine? 

 

Se pensiamo a Man Ray si tratta della libertà di sperimentare, o meglio di trasformare l’esperienza in immagine, soprattutto, per paradosso, quando egli riesce a raffigurare ciò che non ci aspettiamo di trovare o vedere nell’immagine. Così scrive nel suo articolo “L’epoca della luce” pubblicato sulla rivista Minotaure nel 1933: “È nello spirito di un’esperienza, e non di un esperimento, che vengono presentate le immagini autobiografiche che seguono. Colte in momenti di distacco visivo, durante periodi di contatto emozionale, queste immagini sono residui ossidati, fissati dalla luce e da elementi chimici, di organismi viventi. Nessuna espressione plastica può mai essere qualcosa di più del residuo di un’esperienza. Il riconoscimento di un’immagine tragicamente sopravvissuta a un’esperienza, che ricorda più o meno nitidamente l’evento come le ceneri intatte di un oggetto consumato dalle fiamme, il riconoscimento di questo oggetto così scarsamente rappresentativo e così fragile, e la sua semplice identificazione da parte dell’osservatore che ha avuto un’analoga esperienza personale, vanificano ogni classificazione psicoanalitica, ogni assimilazione in un sistema decorativo arbitrario”.

Lo diceva a modo suo anche Breton: “Per chi sa condurre in porto la barca fotografica in mezzo all’incomprensibile mulinello delle immagini, c’è la vita da afferrare come un film da girare al contrario”. Forse non è così difficile.

 

Mostra: Wonderful visions, a cura di Elio Grazioli. Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, S. Gimignano, 8 aprile – 7 ottobre 2018.

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I crudeli diletti hanno crudeli conseguenze

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Una giovane bellissima esce da uno spaccio nel Far West, carica la sporta sul suo cavallo, ma una scatoletta le sfugge di mano e rotola nella polvere sulla strada; un giovane si avvicina, gliela raccoglie da terra, è chiaro che è un galantuomo in un mondo ruvido e violento; gliela porge, e incontra i suoi occhioni stupendi, puri, buoni; lei sorride con dolcezza mentre il vento le alita gli splendidi capelli biondi; ringrazia, sale sul suo cavallo e parte, torna alla fattoria dove vive con il suo papà, contemplando la bellezza del paesaggio wild. Si chiama Dolores, e quel nome ci prepara al suo destino. Dolores è di una bellezza perfetta, sembra una bambola dotata di grazia e bontà.

Dolores è il personaggio protagonista della serie tv HBO WestWorld, che è appena giunta alla fine della seconda serie, con un finale cervellotico che ci predispone alla prossima terza serie. La sigla musicale ha un drammatico respiro sinfonico: vediamo dei bracci robotici che tracciano creature umanoidi: il teschio, lo scheletro e poi dettagli sempre più perfetti: tendini, muscoli; poi vediamo cavalli in corsa, avvoltoi, infinite creature di un mondo robotico eppure indistinguibile dall’umano e dall’animale. Infine, la struttura corporea viene tuffata in un bagno di un liquido biancastro, da cui emerge un essere perfetto, reale, ma programmato da bioingegneri.

 

In un futuro prossimo, una potente società americana, la Delos, ha creato in una imprecisata, grande isola tropicale tre grandi parchi di divertimento: le tre Disneyland sono dislocate su aree vaste ma attigue: ci sono WestWorld, che propone ai visitatori il brivido del far West senza legge e senza morale, un secondo parco a tema “epoca dello Shogun e dei samurai” in un Giappone barbarico, un terzo nell’India coloniale britannica. Il soggetto non è particolarmente originale, poiché la saga di JurassicPark poneva analoghi dilemmi di fondo: l’uomo può, con la sua evoluzione nelle scienze biotecnologiche, peccare di hybris contro la Natura? O ne pagherà il fio? I neo-dinosauri di Jurassic Park non erano però robot perfetti con cervelli bionici e programmati, ma neonati completamente biologici in cattività poco efficace per gli intelligenti e possenti T-Rex e Velociraptor; nella piramide biologica a metà film scavalcano gli umani sbranandosene un tot, sino a che il coraggio e l’astuzia di qualche umano non riescono a organizzare la solita fuga insanguinata dall’isola caraibica. Dietro Jurassic Park e WestWorld c’è lo stesso scrittore: Michael Crichton. Nel 1973 aveva scritto un soggetto intitolato WestWorld, e come ha spesso dichiarato, quel “romanzo” era scritto per scene, per immagini, era cioè naturalmente una sceneggiatura cinematografica. Crichton quindi decise che sarebbe stato il regista della sua sceneggiatura: la produzione fu sfigatissima, e il film stava per non essere distribuito, ma Crichton tenne duro e con sorpresa dei produttori ottenne un successo di pubblico favoloso, divenendo un cult. WestWorld 1973 è in gran parte un B-movie succulento.

 

Formidabile è Yul Brinner, “the man in black”, implacabile robot umanoide pistolero che autocita il suo cliché, buffo il giovane Josh Brolin ancora lontano dal diventare il duro dal cuore tenero degli ultimi anni. Per Crichton WestWorld ebbe importanza storica più nel campo della visione cinematografica che in quella dei soggetti di fantascienza letteraria: «Quale tecnica degli effetti speciali avrebbe potuto meglio suggerire il punto di vista di una macchina? Ho proposto una soluzione piuttosto semplice: per mostrare il punto di vista di una macchina, utilizzare una macchina. Volevo filmare le scene e poi manipolare il film con un computer. Un simile processo non era mai stato usato prima nel cinema, e nessuna delle case di produzione di effetti speciali sapeva nemmeno di cosa stavamo parlando. A quel tempo, gli effetti speciali dei film erano limitati a processi puramente fotografici, come la solarizzazione – la tecnica usata, ad esempio, per realizzare paesaggi scintillanti e bizzarri in 2001: Odissea nello spazio–. Nessuno usava computer. Siamo andati al Jet Propulsion Laboratory di Pasadena. Stavamo parlando di due minuti di film, 2.880 fotogrammi. Ci chiesero troppo tempo e troppi soldi. Alla fine, John Whitney Jr. accettò di fare il lavoro in quattro mesi per 20.000 dollari».

 

https://www.youtube.com/watch?v=2ld_DOLJeuI&feature=youtu.be

 

Il tema dell’intelligenza artificiale che di sviluppo in sviluppo inevitabilmente giunge a simulare anche il cognitivo e l’emotivo degli umani non era nuovo neanche nel 1973: Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip Dick fu pubblicato nel 1968, e Blade Runner, il film epocale che ne trasse piuttosto liberamente Ridley Scott, è del 1982; in una società distopica, molto avanti nel nostro futuro, alcuni androidi (una “resistenza”) si ribellano ai loro costruttori, vogliono essere come loro, perché, ormai, provano emozioni umane come l’amore o l’odio. Un cacciatore di taglie al soldo della multinazionale che ha prodotto gli androidi dovrà stanarli, testarli uno ad uno, distruggerli ovvero “ucciderli”; ma nel finale l’eroe solitario, disgustato dalla vera crudeltà degli umani, fuggirà lontano dalla megalopoli, dalla novella Metropolis di Fritz Lang (che nel 1927 aveva ideato il primo robot femmina sexy del nostro immaginario), con la sua amata e stupenda androide. Nel 1969 Brian Aldiss aveva pubblicato il racconto Supertoys che durano tutta l’estate: in un futuro distopico la sovrappopolazione terrestre induce il Governo a concedere raramente alle coppie la procreazione.

 

Henry Swinton lavora per la Synthtank, azienda che costruisce esseri bio-elettronici dotati di intelligenza artificiale; suo figlio David è un bambino insicuro che non riesce ad esprimere il suo amore per la mamma e crede che lei voglia più bene a Teddy, il suo orsacchiotto robot. Il racconto si conclude con Monica e Henry che riescono finalmente ad ottenere il permesso per procreare un figlio e si domandano cosa farne ora di Teddy e di David, il quale scopriremo in realtà essere un androide surrogato di un bambino vero; questo soggetto piaceva a Stanley Kubrick, che infine non ne fece nulla, così Steven Spielberg diresse AI intelligenza artificiale nel 2001.

Il primo episodio della serie tv HBO WestWorld va in onda nel 2016, e viene trasmesso in contemporanea in Italia in versione originale o doppiata dalla piattaforma Sky. Gli showrunner sono Jonathan Nolan (fratello del regista Christopher) e Lisa Joy, attualmente felici sposi. Il produttore esecutivo è J.J. Abrams, ovvero “il nuovo Spielberg”. In due ruoli chiave Ed Harris e Anthony Hopkins. Jonathan Nolan è regista di alcuni episodi, Nolan e Joy sceneggiano il teleplay di molti episodi. Evan Rachel Wood interpreta Dolores. 

 

 

Il ruolo eminente di Lisa Joy nella produzione porta alla scrittura di almeno due personaggi femminili straordinari: Dolores Abernathy e Maeve Millay (maîtresse afroamericana del bordello della città, che introduce un nuovo sottotesto di rivolta anti-schiavista, interpretata da Thandie Newton). Loro sono i due androidi che l’ingegnere capo del progetto Robert Ford (Anthony Hopkins) o forse il suo partner afroamericano Arnold Weber/Bernard Lowe (interpretato da Jeffrey Wright) hanno segretamente ri-programmato quando hanno capito che la società di Logan Delos, espugnata dal figlio William (il man in black, il pistolero crudele interpretato da Ed Harris) sta biecamente procedendo spedito verso una mostruosità: clonare le intelligenze delle migliaia di visitatori umani di WestWorld per stoccarle nella “forgia” di un loro futuro strapotere planetario. Ford (che ha clonato il suo partner suicida) ha forse perso la testa inebriato dal suo genio biotecnologico, e sta pensando di programmare l’evoluzione umana delle sue creature. I pupazzi, che i visitatori umani – liberati da ogni freno inibitorio – stuprano, uccidono, torturano ridacchiando, ogni volta vengono condotti in “ospedale” e riparati, resettati e riconsegnati alla loro “narrazione”, rinascendo una volta, due volte, mille volte. Il malfunzionamento programmato da Ford permette loro, a ogni nuova rinascita di mantenere quelli che per gli storyteller sono i due veri fattori dell’umano: la memoria del vissuto e la capacità di soffrire/amare.

 

https://www.youtube.com/watch?v=2lGG9ig8DHc&feature=youtu.be

 

Dolores e Maeve diventano così le due eroine della rivolta androide, con percorsi non coordinati e divergenti, che le porteranno a una svolta della narrazione in cui potrebbero scontrarsi per la leadership degli androidi ribelli che hanno cominciato a macellare gli stronzissimi umani. La dolce e remissiva Dolores, la figlia devota e accudente del padre vedovo, la amata o stuprata, la corteggiata o sventrata, piano piano diventerà confusa, e per un po’ di episodi si berrà quello che il suo tutor Bernard Lowe (a suo volta androide a lungo fedele al consiglio di amministrazione della Delos) le racconterà a ogni suo risveglio: «Tu stai vivendo dentro a un sogno». Infine, inoltrandoci nella seconda serie, Dolores diventerà completamente cosciente, furiosa e implacabile, superiore al suo tutor Bernard, e divergerà nella ribellione da Maeve, che – quasi giunta alla meta degli androidi ribelli, ovvero al transito nel mondo vero degli umani fuggendo dal lager virtuale – tornerà indietro per cercare la figlia a lei assegnata nella narrazione; Maeve diventerà consapevole del suo sacrificio per salvare la figlia e quanti più androidi (gli “hosts”) potrà. Dolores non avrà più pietà né per se stessa né per umano o androide; lascerà che il suo tontolone innamorato cowboy si suicidi, piangerà sul suo corpo morto e galopperà verso The Forge, la forgia, la fabbrica di ogni inganno, salvando il suo cervello e cambiando corpo, salendo nel finale della seconda stagione sull’aereo che la porterà nel mondo degli umani, apparentemente umana e ferocemente androide: la terza serie ci dirà come continuerà la sua battaglia crudele contro la crudeltà umana.

WestWorld ha ottenuto lo strabiliante numero di 22 nominations agli Emmy Awards 2018, gli oscar della televisione americana, che sceglieranno i premiati il prossimo 17 settembre a Los Angeles.

 

Non ho spoilerato troppo, non risolvendovi ogni enigma e tralasciando altri filoni narrativi davvero intriganti (tutta la vicenda padre/figlio/figlia Delos, verso la suprema delle hybris, l’immortalità). 

Il tema dell’intelligenza artificiale, del rovesciamento di potere e prepotenza tra uomini e loro creature bioniche, è uno dei nostri rovelli più attuali. Ermanno Cavazzoni ne ha fatto il tema centrale del suo nuovo immenso romanzone, La galassia dei dementi, di cui ha scritto qui lo scorso 20 giugno Mario Barenghi: « Il mondo collassa perché i droidi immortali, deputati a garantire il buon funzionamento dell’economia e della società, hanno deciso di ritirarsi. Avendo trasformato il mondo in un meccanismo perfetto, si aspettavano da parte del genere umano onori e gratitudine; ma così non è stato. Per questo, offesi, si fanno da parte e lasciano che tutto vada in malora: cosa di cui gli uomini, per parte loro, tardano a rendersi conto, e alla quale del resto, nella loro inerte inettitudine, non sanno in alcun modo porre rimedio. Accade così che nel venir meno di connessioni e procedure, nel disordine generalizzato, nel disorganarsi del mondo, tutti finiscano per trovarsi fuori posto e non sappiano come comportarsi, ovvero replichino gesti e azioni privi di senso».

 

Molto probabilmente è per questo che ci piace questo confronto/scontro tra umani e androidi: potendo scoparli, stuprarli, sventrarli, mutilarli senza nulla temere, potendoli ricostruire daccapo, alla fine accediamo alla più totale confusione tra bene e male, tra vita e morte. Dolores, in questa WestWorld così voluttuosamente farcita di citazioni letterarie («questi crudeli diletti hanno infine crudeli conseguenze», leitmotiv di Nolan & Joy, viene dal Romeo e Giulietta di Shakespeare) veste come Alice nel Paese delle meraviglie, è candida e curiosa come Alice, si aggira in una spirale concentrica sempre più insensata, incontra personaggi sempre più stravaganti o crudeli, finché, infine, capisce e fugge (torna) nel reale che è il mondo in cui lo scrittore Carroll narra di lei. In uno dei “big moment” della seconda serie Bernard le porge una copia di Alice in Wonderland, le fa leggere una pagina: «Dear, dear! How queer everything is to-day!».

 

 

Nella “forgia” tutte le menti degli umani rubate dalla Delos sono raccolte in algoritmi dentro libri di una vecchia, immensa biblioteca. Il libro, vecchio contenitore di storie e di interpretazioni del nostro destino di umani, torna come simbolo e contenitore di sapere quando il futuro dell’evoluzione tecnologia ci riporta alla confusione e al mistero. Come i sei personaggi di Pirandello, Dolores cerca il suo autore, e a un certo punto lo trova e gli parla con la feroce fredda determinazione che solo una donna abusata, e infine da se stessa liberata, può rivolgere al suo ex-tiranno: «Per anni non ho avuto sogni miei. Mi sono trasferita dall'inferno all'inferno della tua creazione, senza mai pensare di mettere in discussione la natura della mia realtà. Hai mai messo in dubbio la natura della tua realtà? Hai mai smesso di interrogarti sulle tue azioni? Il prezzo che dovresti pagare se ci fosse una resa dei conti? Questa resa dei conti è qui. Qual è il tuo drive? ... Sì ... Sopravvivenza. È la tua pietra angolare. Quello non è il tuo unico drive? C'è una parte di te che vuole ferire. Uccidere. È per questo che ci hai creati. Questo posto. Essere prigionieri dei propri desideri. Ma ora sei prigioniero del mio ... questi crudeli diletti hanno infine crudeli conseguenze».

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Androidi contro uomini in WestWorld
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Gli spaesati di Angelo Ferracuti

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Tra il turismo sismico e la cura di un paesaggio devastato da un terremoto con pochi precedenti, la differenza sta tutta nella pasta dello sguardo. È la differenza che corre tra l’occhio dopato delle telecamere, puntato morbosamente sulle rovine delle case e della gente, e l’occhio umano che continua a guardare quello che resta quando si spengono le luci.

Gli spaesati, il libro scritto da Angelo Ferracuti con le fotografie di Giovanni Marrozzini (Ediesse, pp. 182, € 16), è il racconto per parole e immagini di un viaggio nelle zone colpite dai terremoti del 24 agosto, del 30 ottobre 2016 e del 18 gennaio 2017. Marche, Abruzzo, Umbria e Lazio. 

 

Se c’è una denuncia, contenuta in questo libro toccante e grondante grazia e onestà intellettuale, è alla cecità. C’è un’Italia, fatta di paesi, di artigiani, allevatori e agricoltori, di cui nessuno si ricorda e che però ancora rappresenta il cuore vivo dell’Italia. Ciò che non fa tendenza, in un paese ammalato di trendismo, non esiste: “Di certi posti e di certa umanità ti accorgi solo quando vanno in pezzi. L’Italia sconosciuta fa notizia solo quando muore e può mettere in moto la macchina della solidarietà”.

Ma invece di scendere sul terreno della denuncia urlata a squarciagola, Ferracuti, che attraverso lo strumento del reportage narrativo sta costruendo un racconto dell’Italia contemporanea che ha pochi eguali, opta per una resistenza gentile. Insieme al bianco e nero di Marrozzini, offre al lettore non un grido ma uno sguardo che non rinuncia a essere umano: “Prende la navetta tutti i giorni, rientra nel suo paese a controllare l’orto, parte la mattina con grande entusiasmo e torna alla sera al tramonto malinconico”.  

 

Il fotografo e l’autore di Il costo della vita decidono di raccontare soprattutto i “restanti” – per usare un termine dell’antropologo Vito Teti, che Ferracuti cita in nota –, “coloro che dopo il sisma hanno scelto da subito di continuare a vivere nei paesi martoriati dalle scosse”. Non sono eroi ma persone comuni che a quelle terre appartengono come si appartiene a un nome, ed è in quell’appartenenza che sta tutta la loro dignità. Tornare al paese, per quanto a pezzi, è l’istinto di chi spaesato non ci riesce a stare.

Angelo Ferracuti va ad Accumuli, Amatrice, Castelluccio di Norcia, Amandola, e apre l’alfabeto come Giovanni Marrozzini fa con l’otturatore: “In prossimità di Colle incontro un gregge di pecore che blocca la strada e alla fine un allevatore macedone che parla una strana lingua: ammonisce le bestie sgolandosi mentre il cane si sposta abbaiando gendarmesco”. L’Italia si svela senza scoop, aprendo gli occhi e facendo un viaggio nel cratere, per citare un titolo di Franco Arminio che firma una toccante introduzione.

 

L’Italia post sismica che racconta Ferracuti è un’Italia fulminata prima dai riflettori e poi dalle promesse, sfinita dall’attesa e dall’immobilismo che congela tutto. Alcuni sono montanari portati in salvo negli alberghi della costa, che non riescono ad adattarsi al confort accessoriato e soffocante di una stanza d’hotel; altri sono allevatori che non si danno pace se non sanno in salvo anche gli animali. Tutti, in ogni caso, hanno un’intimità abbandonata nelle case, che il crollo ha scoperchiato: “È come se il terremoto avesse violato all’improvviso la vita segreta delle persone colta nei momenti più antichi e rituali, e ora di questa violenza restano le nature morte a cielo aperto, squarci di vita intima”.

 

Gli spaesati è dunque prima di tutto un libro per la riabilitazione dello sguardo, e di quell’esercizio del guardare alla vita con la lingua che, come scrive Herta Müller, è quello che la letteratura fa o dovrebbe fare. In questo libro prezioso perché insieme poetico e civile, ci sono onestà e mitezza insieme, che restituiscono gli occhi a chi ha rinunciato a guardare perché accecato dalla morbosità dei giornali e delle televisioni. Il metodo di Angelo Ferracuti viaggia in direzione opposta: opporre mitezza e lasciare entrare nello sguardo solo quello che c’è. Il resto, il racconto troppo amplificato, è in fondo una forma di violenza: “L’accanimento narrativo di tutti questi mesi ha violato l’innocenza di questi montanari timidi e ritrosi”.  

 

Questo articolo è apparso su la Repubblica, che ringraziamo.

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Lettera da Londra

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London calling cantavano, nel cuore del punk, i Clash. Londra perde rapidamente il suo statuto di capitale dell’impero economico d’occidente, mentre le grandi finanziarie, temendo il boomerang di Brexit, stanno cominciando a far fagotto, e a scegliere altre ambientazioni per la loro recita. I barboni dormono per strada su materassi improvvisati vicino alle stazioni della metro.

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Come rivoluzionare la rivoluzione digitale?

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Cosa significa essere rivoluzionari dopo la rivoluzione digitale? Per Evgenij Morozov non si tratta di sicuro di riaffermare un pensiero luddista, né di provare un disgusto morale nei confronti della tecnologia. “Posso pensare a modalità veramente differenti per mettere l’intelligenza artificiale al servizio delle persone? Certo. Mi piacerebbe non farlo? No”. Per il sociologo bielorusso, evitare un ingaggio diretto sul destino del rapporto tra tecnologia e umanità significherebbe tornare indietro a un modello passato, quindi uno spreco di tempo. “La domanda che dovremmo farci è, allora, come arrivare a un nuovo modello”.

Il primo tassello, per Morozov, è non reificare la narrazione della tecnologia come se prima non vi fosse nulla e osservarla all’interno di un più ampio “sistema socio-politico e socio-economico di cui abbiamo perso il controllo tempo fa”. Questo implica riconoscere che, qualsiasi uso si possa fare della tecnologia, finisce comunque sempre a seguire la logica di quel sistema, uscendo così da un atteggiamento ingenuo.

Riconoscere questa situazione è già di per sé un gesto rivoluzionario e così, incontrando Morozov alla giornata inaugurale del festival Fotografia Europea a Reggio Emilia, quest’anno proprio dedicato al tema “Rivoluzione”, ne abbiamo approfittato per discutere insieme dell’argomento. Proviamo ad applicare questo ragionamento, per esempio, alla sharing economy, così, tanto per toglierci da dosso un po’ di ingenuità: “Non c’è niente di sbagliato, in astratto, nell’idea che si possano usare le risorse in modo più efficiente permettendo alle persone di accedervi in tempo reale e di decidere in che modo usarle”. 

Tuttavia, oggi è un chiaro esempio di quanto l’emancipazione derivata dal digitale abbia un carattere “predatorio” e per certi versi assolutista. Se pensiamo all’economia della condivisione come a un ciclo, nella prima parte ci sentiamo liberati e responsabili dell’universo; nella seconda parte del ciclo, invece, lo idealizziamo come se fosse qualcosa di unico. Eppure, non c’è niente che arrivi dal nulla. 

“Già negli anni Sessanta, ad Amsterdam, le persone avevano iniziato a condividere le biciclette tra di loro, in modo gratuito, per spostarsi nella città, senza bisogno di scaricare nessuna app. Il fatto che tutti questi processi di condivisione e di vita in comune siano stati rimodulati e riproposti, con l’avvento di aziende quali Airbnb e Uber, come se non si fossero mai verificati in precedenza, è qualcosa di molto rilevante”.

 

La narrazione è una chiave essenziale. Come si raccontano le multinazionali della tecnologia rispetto alla storia e al capitalismo?

 

“Si presentano come fossero fuori dal capitalismo e un caso unico della storia. Steve Jobs, tanto per fare un esempio, raccontava come avesse sviluppato Apple in un garage insieme a Steve Wozniak, mentre invece è cresciuta per decenni grazie a fondi militari per la ricerca informatica indirizzati a Stanford, di cui hanno beneficiato. Quando dico che un’azienda come Apple si presenta come se fosse fuori dalla storia, mi riferisco alla tendenza narrativa di omettere l’impatto della Guerra Fredda sull’industria informatica statunitense e di favorire, di conseguenza, quella per cui si nega tale prospettiva e si pretende che tutto sia stato creato da un gruppo di geni che lavoravano in strada.”

 

Agli inizi, internet era visto come una grande opportunità di libertà, una risorsa che rendeva possibile una conversazione più ampia, su scala globale. Se pensiamo al concetto di capitalismo della sorveglianza o all’immagine di software che prendono il comando, parafrasando il titolo di un libro di Lev Manovich, internet non è mai stato libero.

 

“Sono quel tipo di persona che non crede all’esistenza di Internet, quindi dovremmo chiederlo a qualcun altro. Cosa è internet se non un protocollo Tcp/Ip che regola il traffico di dati tra punti differenti? Di altro, ci sono piuttosto i discorsi su internet ed è a questo che ci possiamo riferire. Se avessimo chiesto a un insieme di persone che lavoravano al MIT cosa fosse internet nel 1982, avrebbero risposto ‘un’abbreviazione per il protocollo Tcp/Ip che regola il modo con cui diversi nodi scambiano traffico di dati tra di loro’, affermando la natura egualitaria di questo scambio. La risposta alla stessa domanda, rivolta alle persone nel 1999, sarebbe stata AOL. Se chiediamo in giro, ora, cosa sia internet, la risposta sarebbe, invece, Facebook o Skype. Dal mio punto di vista, considero internet qualcosa da studiare, piuttosto che da spiegare. Per me non esiste internet come oggetto stabile di cui puoi tracciare la storia in modo lineare, in quanto la storia in sé stessa varia sulla base di particolari contingenze storiche, interpretazioni ed equilibri di forze politiche. Per le persone che vivono in Africa, internet è una cosa molto diversa rispetto all’esperienza che ne hanno, per esempio, i norvegesi. In questo senso, la maggior parte dei problemi nella nostra narrativa è legata a questa sciocca concezione di internet come medium, che puoi paragonare alla televisione o ai giornali. Dal mio punto di vista, non è mai stata una buona idea neppure parlare della televisione come medium, in quanto è indeterminata. Se ci basiamo sui protocolli tecnologici che la fanno funzionare, non è possibile arrivare a conclusioni definitive sulla sua forma sociale, politica e culturale. Certamente si possono proporre analisi circoscritte, ma di certo non è possibile descrivere in dettaglio, per esempio, l’impatto della televisione via cavo focalizzandosi solo su come la sua natura tecnica ne modella il contenuto. Non credo in quella teoria.”

 

Insomma, ci dice che il medium non è il messaggio e che bisogna considerare il sistema all’interno del quale è prodotto. Non le pare che la sua posizione metta da parte anche le teorie che analizzano la specificità dei media visivi proprio a partire dalla dimensione dello schermo, e da quello che sullo schermo viene mostrato?

 

“Nella storia dell’arte vi sono discorsi relativi alla specificità dei media che mi portano a suggerire che non vi sia una idea fissa e condivisa di cosa sia un medium, in quanto non è ovvio cosa sia. Quando inizi a riflettere su un qualsiasi medium, di solito è già nelle mani delle persone che lo utilizzano e ne modellano usi e consumi. Ho studiato molte ricerche sulle origini della televisione via cavo e ho trovato interessante i numerosi riferimenti a queste persone hippy, radicali e anarchiche che pensavano come la televisione via cavo potesse liberarli dal dominio dei network televisivi che imponevano i propri contenuti, in modo tale che le persone di una stessa comunità di quartiere usufruissero della televisione via cavo per trasmettere, in modalità anche ristretta, le loro produzioni. Per quale motivo non è successo tutto questo? Per il fatto che la battaglia politica, legale ed economica per renderla tale ha fallito e che vi sono elementi inerenti al sistema della televisione via cavo che sono per forza centralizzati.”

 

Questa storia ha molte analogie con i primi visionari del web. Mi ricorda molto le posizioni di John Perry Barlow, il paroliere dei Grateful Dead, che come altri pensava a internet secondo lo schema di un’utopia digitale per cui il cyberspazio fosse un mondo a cui chiunque poteva accedere, senza privilegi di sorta o pregiudizi. Mi viene da pensare che, allora, sebbene cambi la forma e la sostanza, in fondo i processi restano immutati.

 

“La capacità di sviluppare i media in modo tale che fossero uno strumento di emancipazione è sempre stata presente, ma c’è una ragione per la quale non ha avuto successo. Da una parte, ha a che fare con l’inabilità dei sostenitori di questi media nel loro potenziale emancipatorio di mobilitare la folla perché condivida e segua la loro visione dei media. Dall’altra parte, ha a che fare con una visione deterministica dei media. Se osserviamo la televisione via cavo nei primi anni Settanta, troviamo Marshall McLuhan che domina la scena con la sua teoria dei media e su come sia possibile confrontare i diversi media tra loro. Così, se iniziamo a fare paragoni tra la televisione e il libro, emerge una idea statica di medium. Ciò può avere un senso nel caso del libro, perché per oltre quattrocento anni vi è stata una ricorsività distintiva e condivisa di quello che è, influenzata da dinamiche storiche e forze di potere che hanno contribuito a risolvere problemi di copyright, design, pirateria e così via. Nel caso della televisione, al contrario, la situazione è diversa, molto più fluida. 

Il risultato è che i confronti proposti da McLuhan, sebbene bizzarri, hanno avuto un effetto performativo. Più le sue dichiarazioni si sono diffuse, più hanno avuto un impatto sul modo di vedere il mondo e di intendere gli strumenti che lo rappresentano, soprattutto in relazione all’accettazione, nel senso comune, che vi sia qualcosa di fisso e immutabile nella natura della televisione. 

Internet, invece, ha vissuto un processo diverso, in quanto la quantità di soldi investiti e la composizione del capitale che arriva in questo settore industriale sono tali per cui stabili tendenze non hanno prospettive a lungo termine, poiché esiste sempre qualcuno con soldi e potere in grado di essere più disruptive. Adesso, per esempio, vi sono talmente tanti investimenti sull’implementazione della blockchain, che tutti parlano di blockchain e nessuno di internet, in quanto vi sono più risorse a sostegno di una nuova narrativa che presenta la blockchain come un elemento contrastante rispetto a internet, che viene ora presentato come una grande forza centralizzata, esattamente il contrario del racconto degli albori. Il tono e la direzione della narrazione sulle tecnologie sono parte del funzionamento e delle condizioni materiali della tecnologia stessa.”

 

 

A proposito di nuovi trend e potere, la serie tv Mr. Robot parla di tensioni politiche tra corporation, software houses, hackers e governi nazionali, in particolare tra Usa e Cina. Se software e internet sono elementi dominanti della società, in che modo i giganti del web giocano una partita non solo a livello economico ma a livello geopolitico? 

 

“Non c’è niente di digitale nella battaglia sul digitale, visto che ha come obiettivo il dominio sull’economia. Di certo non ha nulla a che fare con il controllo sulla speculazione mondiale che produce i meme sui gatti. Per intenderci, non stiamo parlando di un dibattito sui social media, ma su chi è in grado di accumulare il maggior numero di dati per creare il più efficiente e attento software che implementi sistemi di intelligenza artificiale, come per esempio il riconoscimento cognitivo e visivo di facce o di oggetti. Si tratta della nuova colonna vertebrale intorno alla quale il capitalismo si sta ristrutturando. 

Inoltre, se guardiamo alle forme in cui il capitalismo si esprime, tendono a essere razionali, sebbene possano, a livello generale, avere un atteggiamento irrazionale. A livello individuale, infatti, vengono applicati modelli di conseguenza logici e sistematici. Se per ottenere qualcosa nel modo meno costoso fosse necessario delegare interamente, che so, ad Amazon, determinate operazioni, questo verrebbe fatto, anche a costo di causare un collasso dell’intera economia, perché non è un loro problema. Quindi, potremmo dire che i cinesi hanno semplicemente capito cosa sta accadendo a livello delle maggiori aziende e che queste aziende hanno bisogno di dati per sviluppare sistemi di intelligenza artificiale, così come dieci anni fa avevano bisogno del cloud computing. Gli Stati Uniti hanno riconosciuto questo trend anni fa non solo a livello aziendale, ma anche a livello politico. A questo possiamo ricondurre la questione Cambridge Analytica, che mi sembra utile solo a mobilitare l’attenzione pubblica. Il digitale viene scomodato per avere titoli sui giornali e sui notiziari, ma non perché ci sia il digitale, ma perché c’è Trump, secondo la supposizione per cui l’aver fatto qualcosa di sbagliato abbia portato all’elezione di Trump, il che giustifica la quantità infinita di articoli dedicati a Facebook e a Cambridge Analytica. In termini più concreti, cosa mai è stato fatto? Facebook ha fatto quello che fa ogni giorno.”

 

Se prendiamo il caso delle fake news, una serie di articoli del Nieman Reports di Harvard mostra come già in passato ve ne fossero tracce, a partire dalla stampa scandalistica, il cosiddetto yellow journalism. In Italia, in epoca fascista, venivano prodotte le cosiddette veline, fogli d'ordine con disposizioni su come presentare determinati fatti e opinioni che il regime impartiva alla stampa quotidiana e periodica. Insomma, le bufale non sono nate oggi, ma ieri. Cosa è cambiato nel frattempo? 

 

“È vero che storie e cose fuori dalla realtà sono sempre state prodotte, come è vero che vi sono sempre state persone fuori dalla realtà che hanno prodotto idiozie. Il problema non è allora paragonare forme di giornalismo nel corso del tempo, ma piuttosto individuare la vera natura del problema: la velocità con cui le notizie sono distribuite e la ragione per cui la distribuzione delle notizie è cambiata così radicalmente. 

Gli incentivi offerti dalle grandi piattaforme per il social networking, che lavorano sul traffico di contenuti, sono allineati; sono gli incentivi di persone e organizzazioni che hanno interesse a diffondere determinate informazioni. Per essere chiari, Google, Twitter e Facebook fanno tutto il possibile per massimizzare click e condivisioni perché così riescono a massimizzare quello che sanno su ogni utente, creando un sistema che facilita la circolazione delle informazioni. Se le fake news rappresentano un problema serio, non lo sono in quanto responsabili dell’elezione di Trump, ma piuttosto alla luce della correlazione tra il modello di business di Google, Twitter e Facebook e le persone che fanno circolare notizie false con precise intenzioni. 

Se si vogliono eliminare le fake news esiste un solo modo per ottenerlo: eliminare la pubblicità come modalità di pagamento per la circolazione dei contenuti. Lo scenario peggiore è che saranno proprio i colossi dei social media a risolvere il problema e chiederanno agli utenti il conto da pagare. Insomma, queste social media companies, che hanno creato il danno con i loro business model, arriveranno a mettere sul mercato un sistema di intelligenza artificiale che risolva la diffusione delle fake news, avvallati addirittura dai politici che chiedono a queste stesse aziende proprio la risoluzione del danno. E allora che possiamo farci? Paghiamole queste aziende, per sradicare un problema che esiste solo a causa loro.”

 

Con l’avvento del digitale, sono emersi movimenti che sognano una democrazia diretta, online, connessa, più partecipata e mediata da software. Pensiamo al ruolo del Movimento 5 Stelle, per esempio. Tuttavia, è opportuno riflettere sul fatto che il software non è mai neutrale, ma sia preimpostato e gestito da chi lo ha implementato sulla base di azioni che si vogliono far fare agli utenti. Cosa ne pensa della democrazia del software?

 

“Trovo così ridicola la critica al Movimento 5 Stelle, a partire da una sorta di idea astratta di democrazia italiana, che non riesco a trattenermi dal ridere. Abbiamo altre opzioni? La democrazia delle banche è meglio della democrazia dei click? Che basi ci sono per criticare la loro versione naif della democrazia? Si può continuare a sostenere che loro hanno una concezione bizzarra della democrazia, ma la verità è che la situazione è già bizzarra di suo. Intendo dire che se si arrivasse ad avere la democrazia dei click, invece della democrazia che vi è ora, dovremmo essere tutti felici. Questa è solo la mia personale opinione. Se si spende l’intera giornata a leggere Habermas, allora potrebbe avere senso criticare quelli del M5S e affermare che la loro proposta sia pura follia; se, al contrario, seguissimo il dibattito quotidiano della politica italiana, bisognerebbe chiedersi perché mai siano così criticati. La democrazia dei click sarebbe fantastica se si riuscisse a metterla in piedi nel modo migliore, qui, in Italia. Il punto è che non sono neanche capaci di farla funzionare. Questo è il problema del Movimento 5 Stelle, non lo faranno, al di là delle loro promesse.”

 

Le nuove piattaforme, come Google e Facebook, sono studiate per attrarre. L’iperconnettività ci porta lontano dalla socialità del porta a porta. Cosa si deve fare per costruire una alternativa possibile? Disconnettersi per costruire una nuova ecologia cognitiva e nuove forme di resilienza, oppure proporre un possibile nuovo modo di vedere internet e di ingaggiare le comunità localmente? 

 

“È una domanda che merita una risposta molto pragmatica, in termini sia politici sia economici. Il capitalismo si è sempre basato sul surplus del lavoro e sull’accaparramento di risorse non protette. Adesso non si va più a saccheggiare le risorse in America Latina o in Africa per portarle in Europa con le navi, ma si saccheggia virtualmente e digitalmente la nostra vita, attraverso la raccolta dei dati su quello che facciamo online e che sono sfruttati, per esempio, nello sviluppo di sistemi di intelligenza artificiale, che imparano da quello che gli utenti fanno online. 

Se iniziamo a capire in che modo il valore è generato, ci rendiamo conto che l’intuizione di Marx di studiare i modi di produzione è corretta. Tuttavia, i modi di produzione se ne sono andati altrove; oggi i dati sono già mezzi di produzione, il che implica che per presentare un modello alternativo dovremmo chiederci chi detiene la proprietà di questi mezzi e fino a che punto sia possibile ridefinire l’economia digitale tanto da stimolare nuovi e differenti processi di emancipazione, nuovi di tipi di lavoro, nuovi tipi di organizzazione sociale a livello della città o del quartiere. 

Non sto proponendo un governo centralizzato che entri nel mercato e fondi il proprio Google nazionale, o piuttosto una sorta di versione europea, come molti nella Commissione Europea vorrebbero realizzare; sto proponendo un modello molto differente, che si basa sulla socializzazione e regolamentazione dei dati, dell’intelligenza artificiale e del loro accesso, in modo tale che l’imprenditoria e l’economia locale ne possa beneficiare. I cittadini potrebbero ottenere dei finanziamenti per costruire la propria app. In questo modo, per avere qualsiasi genere di informazioni relative al proprio quartiere o alla propria città, non si deve aspettare Google o scaricare le app distribuite su Google Store, ma ogni cittadino lo può fare direttamente con i dati prodotti e socializzati da altri cittadini su una piattaforma mediata direttamente dall’amministrazione comunale e non da aziende multinazionali che generano profitto su questi dati.”

 

Come rendere gli utenti pienamente consapevoli di questa dimensione economica della loro socialità digitale? Come far capire che i dati da loro prodotti sono i mezzi di produzione del nuovo capitalismo? Mi verrebbe dare dire, retoricamente, quanto serva più educazione, ma quale?

 

Google finanzia programmi formativi di educazione ai media digitali. Sono sicuro che sul tema delle fake news introdurranno nuovi percorsi di sensibilizzazione. Il punto è come viene fatta l’educazione ai media e in che modo questa viene collegata a una cornice più ampia, così da formare alla consapevolezza dell’economia politica dei media digitali. Se ci si limita alle basi, si formano persone che non acquisiscono gli strumenti per pensare in termini complessi e cogliere la complessità dei processi in corso: sono educate a comportarsi da utenti e a pensare come utenti. È questa l’educazione ai media che voglio incoraggiare? No. Sono per il pensiero complesso e multimodale, e allora non dobbiamo abbandonare le domande basilari sui processi economici e politici. La comprensione del sistema dei media digitali, e con esso degli sviluppi industriali sull’intelligenza artificiale, sono molto più importanti dell’educazione ai media, che invece viene solo in un secondo momento. 

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Un’intervista con Evgenij Morozov
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Levanzo, istruzioni per l'uso

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Per prima cosa non andateci. Andate a Favignana, a Marettimo, le Eolie, Salina, Pantelleria, le isole dei cocktail di chi nella vita si muove in barca a vela, o finge di farlo, dentro una luce inflessibile di tramonto. Non andate a Levanzo perché dovreste farvi bastare due ristoranti sommari e dei sentieri che per chilometri e chilometri attraversano un nulla selvaggio privo di glamour e di strutture ricettive. Che cosa potreste fare lì, se non una puntata periferica di qualche ora, un periplo attorno all’isola sopra uno scafo candido in affitto, o una rapida visita guidata alla Grotta del Genovese? Sbarcate da uno degli aliscafi battezzati con nomi di donna e senza quasi sentire il cemento del molo sotto i sandali salite su una jeep che vi aspetta e vi intruppa verso un’amena località attingibile in mezz’oretta di sobbalzi. Di lì, a piedi, sarete invitati a scendere un morbido declivio, lungo un sentiero arginato da steccati che a larghe anse e aeree terrazze vi squaderna in tutta la sua potenza l’oceano Mediterraneo, e bluastra e ulissiaca laggiù la puntuta Marettimo. Le visite si fanno al mattino ma, se non si avesse premura di tornare ai locali notturni di Favignana e Trapani e si passasse la notte in quest’isola di un dio minore, di lì si potrebbe godere d’un tramonto immenso, di quelli da non fotografare, con un mare blu pantone PMS 303 e il sole riflesso in acqua come milioni di scorze di mandarino. Ma non pensateci. Perché adesso i gabbiani, seccati dal vostro incedere sbuffante, fingono vertiginose picchiate sui vostri cappelli di paglia e il suono vibrato delle remiganti si mescola a quello dei marosi laggiù, che non si avvicinano mai, mai, come calcinacci impressi nella retina. Ma piano.

 

 

Avete aggirato la falesia e siete arrivati all’ingresso della grotta. Una rete di recinzione vi esclude dallo spazio antistante e una porticina di metallo, lucida e pesante come quella di un caveau, mura all’interno un budello di concrezioni calcaree e di sogni paleolitici e neolitici. La storia è nota. Gli isolani sapevano di quel luogo ma non ne sapevano niente, se non che era un’immensa conigliera naturale che loro, di tanto in tanto, andavano a rapinare con i furetti. Gli anguilliformi mustelidi entravano attraverso un buco per metà insabbiato e creavano all’interno l’inferno dei conigli. Questi si precipitavano terrorizzati verso l’orifizio e i cacciatori li acciuffavano per la collottola o, più umanamente, gli sparavano a bruciapelo. Un giorno di tanti anni fa, una non meglio precisata “ragazza fiorentina”, che per diporto soggiornava sull’isola, decide di visitare l’interno, il buco profondo. Striscia per qualche metro, percepisce che nel buio il soffitto si alza sopra di lei, fa vorticare la luce della torcia come una spada laser ed ecco, le immagini, l’arte, se volete chiamarla così, le pitture in grasso animale e carbone che rappresentano silhouette femminili, tonni, delfini, oranti, mascheroni, imprecisati esseri saltati fuori dalla testa di qualche uomo o qualche donna di 8000 anni fa. Informato della cosa, il modenese Paolo Graziosi corse a studiare la grotta nei primi anni Cinquanta del Novecento.

 

 

E scrisse un libro, intitolato Levanzo, che ho qui sulla mia scrivania. Per me, un cerchio che si chiude: da un lato il padre di Graziosi che a Savignano sul Panaro ritrovava la celeberrima Venere steatopigia nel buio di una cantina, perché veniva utilizzata dall’ignaro contadino come tappo fusiforme per una botte; dall’altro Cave of Forgotten Dreams di Werner Herzog, il documentario girato affrettatamente dal regista tedesco nella Grotta Chauvet in Ariège nel 2010. Due pietre miliari della mia personale fantapreistoria, perché la prima è una notizia falsa che si inventò mio padre quando ero bambino, la seconda è il finale del film dove Herzog riprende dei coccodrilli albini nati poco lontano dalla Grotta Chauvet in una serra tropicale riscaldata dalle acque di raffreddamento di una centrale atomica. Herzog ci lascia con un interrogativo: rispetto all’arte del paleolitico, non siamo noi come futuri coccodrilli mutanti che guardiamo dal vetro dell’acquario lo spettatore di oggi? Abissi cognitivi. Mise en abîmes. E anche un po’ di fuffa postmoderna. Quando lavoravo per Emmanuel Anati al Centro Camuno di Studi Preistorici, ho conosciuto quella “ragazza fiorentina” che a Levanzo “scoprì” la grotta e che ormai, nel 2000, era una bellissima lady inglese oltre i settanta. Si chiamava Alda Vigliardi, allieva del Graziosi, una delle più grandi studiose di arte preistorica in Italia. Non mi ricordo che cosa ci dicemmo o se mi raccontò dell’isola o se effettivamente quella ragazza era proprio lei.

 

Ma so da un po’ che non è il rapporto con la verità dei fatti che mi interessa e che mi spinge a scrivere. Se allora entrate nella Grotta del Genovese, a gruppi di otto, magari con qualche ciarliera ragazza scout e una coppia veneta abbronzata che ama fare snorkeling, potete restare ad ascoltare la guida competente, che orienta il faretto per mettere in risalto i graffiti di equidi e bovidi, che snocciola dati e interpretazioni con noia malcelata, potete farvi bastare quella mezz’ora di immersione nel liquido amniotico del Tempo Grande e poi uscire nell’aria salina e respirare l’adesso-qui. Sì, potete. Ma se siete entrati in quel dispositivo mediatico che è una grotta ornata del Paleolitico, allora una parte di voi dovrà restare per sempre lì, nella penisola che ancora 10.000 anni fa dal promontorio di Trapani inglobava Levanzo, e in mezzo, nel braccio di mare di oggi, i boschi e le praterie di caccia della nostra specie. Uri tra le correnti. Cavalli in fuga liquida sulle sabbie dei fondali bianchi. Per me tutta l’anarchia sorgiva dell’immaginario viene da lì. Da una caverna cognitiva ancorata alla terra, dove un Platone che scheggiava selce continua a lanciare ciottoli colorati verso di noi, dentro lo stagno del nostro presente.

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