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Lettera da Parigi

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Paris Bal Musette: così scandisce, seducente, una guida giapponese al Pont Neuf, che promette di far vivere ai suoi connazionali la “real Paris experience”, che include la visita al Café des Deux Moulins in rue Lepic 15, all’angolo con rue Cachois. Si tratta del set del Favoloso mondo di Amelie di Jean-Pierre Jeunet, panacea dei visitatori nipponici, che spesso ricorrono a un servizio di consulenza psicanalitica messo su da intraprendenti connazionali, quando scoprono che la metropoli francese non è all’altezza del nitore proposto negli anime, inclusa l’immortale serie di Lady Oscar (in originale Berusaya no Bara, ossia Le rose di Versailles), e garantito dagli infiniti film sulla Ville Lumiére. Fuori dai musei è il ballo dei mitra, per gli infiniti soldati che l’epoca post-attentati registra nei luoghi turistici, nei musei, nelle vie dello shopping. L’idea di vivere nella “ville bunker” è oggetto di interventi satirici sui muri, dove improvvisamente compaiono dal nulla opere di street artists, che non necessariamente fanno graffiti, ma anzi spesso preferiscono i piccoli formati fotografici incorniciati, da esporre in strada, prima che arrivino i pulitori a rimuoverli.

 

 

Il ballo è il filo conduttore di alcune mostre notevoli. Fino al 25 febbraio la Fondation Cartier celebra Malick Sidibé, scomparso nel 2016: il maestro di Bamako era stato rivelato al pubblico europeo proprio in questi spazi nel 1995. Ora, dopo un anno dalla morte, brilla il suo notevolissimo talento nel raccontare la quotidianità di Bamako vista nei miti popolari. Mirabili ritratti di elegantoni yè-yè, di fans di James Brown, di imitatori maliani dei Jackson Brown si uniscono a scatti memorabili, come quello intitolato Nuit de Noël, con un fratello in abito da sera che insegna alla sorella, scalza, i passi fondamentali di un ballo di sala. Il titolo Mali Twist deriva da una canzone del 1963 di Boubacar Traoré; perfetto soundtrack di una magnifica avventura visiva, che illustra i riti dei giovani maliani, ascoltatori di pop e rock nei locali, o sullo sfondo delle escursioni del sabato pomeriggio sul fiume Niger. La Fondation offre lo studio con il pavimento a scacchi usato dal fotografo, appassionato di optical e numerosi gadget per creare la propria fotografia in stile Sidibé. Sull’artista è disponibile un bel catalogo edito da Silvana, in relazione a una mostra, a cura di Laura Incardona e Laura Serani, alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia nel 2010. 

 

Altro giro altre danze, mesdames et monsieurs, al Musée d’Orsay con una notevole rilettura del mondo della danza di Edgar Degas rivisto attraverso il prisma del saggio perfetto di Paul Valéry, Degas Danse Dessin, uscito nel 1936 in una magnifica edizione da Vollard. Numerosi anni di frequentazione con il pittore, avevano offerto al poeta di La giovane parca uno sguardo acuto sulla genesi di una figura di riferimento dell’immaginario moderno. Nei numerosi anni intercorsi dalla progettazione alla scrittura, l’autore ha indagato acutamente i meccanismi del movimento, inserendo nei suoi Cahiers anche immagini di sé e di altri. L’esposizione è specialmente rilevante dove avvicina gli studi sul corpo delle danseuses, insieme agli studi sugli animali, meduse e cavalli, che hanno suggerito a Degas ricerche ardite sulla rappresentazione. Colpisce, specialmente, un breve frammento del film di propaganda Ceux de chez nous, girato nel 1915 da Sacha Guitry in risposta alle bordate prussiane sulla Germania centro della cultura mondiale. L’anziano Degas non volle essere ripreso, ma una cinepresa nascosta lo colse mentre nel pomeriggio faceva la sua passeggiata sui boulevards, che lo attraevano come i tram e gli altri moderni mezzi di locomozione. 

 

Il fantasma della danzatrice esce con l’opera dell’artista per sempre dal mito di Giselle e va all’epoca moderna, facendo da ponte tra diverse esperienze estetiche. Al Petit-Palais il testimone lo prende infatti il mirabile Kees van Dongen, che trionfa con le sue danzatrici indiane nella notevole esposizione Les Hollandais à Paris 1789-1914, realizzata insieme al Museo Van Gogh di Amsterdam e alla RKD (Istituto Olandese di Storia dell’arte) de L’Aja. Il percorso in cui i numerosi artisti dei Paesi Bassi che giungono a Parigi in cerca di formazione o di successo ha al centro ovviamente la superstar Van Gogh, che ossessivamente viene riprodotto dai cinesi prigionieri nel documentario terribile China’s Van Goghs di Taibo e Yanqi Kiki Yu, distribuito da Wanted, che narra di Dafen, sobborgo di Shenzen in Cina, dove migliaia di operai-pittori-schiavi fanno copie maldestre dei quadri di Van Gogh per il mercato dei souvenir, guadagnando pochissimo per il loro impegno. Di lui viene scelta la Veduta dalla stanza di Theo come immagine-simbolo, ma le stanze, divise da scelte di colore sempre diverse, hanno altre sorprese. Gli olandesi si fanno portavoce in terra di Francia della lezione fiamminga-neerlandese del particolare, del dettaglio esaminato fino all’estremo, come accade nell’opera di Gérard van Spaendonck, ineffabile creatore di vasi di Sévres e nelle borghesissime visioni di Frederik Haendrick Kammerer, tra i pittori più fortunati del suo tempo.

 

Colpisce la sezione dedicata a Ary Scheffer, magistrale evocatore di romantiche visioni tratte dalla letteratura, come il bel Paolo e Francesca, ma notevolissimo anche come ritrattista, maestro delle immagini di morte, come quella dedicata a Géricault. Notevole anche la presenza di George Hendrick Breitner, forte nella resa dei suoi carnalissimi nudi, con uno dei quindici ritratti in kimono, sensualissimi, a cui il Rijksmuseum di Amsterdam aveva dedicato un’acuta esposizione antologica due anni fa. Van Dongen è un fuoco d’artificio, blocca l’attenzione con le sue immagini sature, nel mito della bellezza notturna della città, quella dei locali e delle prostitute, modelle di quadri di immacolata bellezza dell’epoca Fauve, ammaliata dalle prodezze notturne del Moulin de la Galette, e del vicino bordello Gallien, a cui si ispirò per ritratti notevolissimi anche František Kupka, in opere magnetiche che si vedono alla Narodni Galerie di Praga. Tra la sua produzione presente spicca il notevolissimo La danseuse indienne, in cui l’esotismo del gesto si declina in una nuova visione del fare artistico. La mostra si chiude con Piet Mondrian, in uno spazio bianchissimo per accogliere il gesto sintetico dell’artista che porta, insieme a Kasimir Malevič il Novecento alla sua essenzialità più estrema. Fuori, nel magnifico giardino del Petit Palais, alcuni turisti fumano di nascosto, prima di essere redarguiti, e trionfano i tiramisù in bicchiere, che sarebbero stati un perfetto soggetto per dei pittori olandesi a Parigi. 

 

Infine, un ultimo giro di valzer, e lì i controlli e i mitra si infittiscono, per vedere a rue du Temple, tra gli infiniti negozi di chincaglierie gotiche e parrucche fluo cinesi, una interessante ricostruzione del padre (insieme all’italiano Uderzo) di Asterix e di Lucky Luke: René Goscinny au-delà de rire, al Musée d’Art e d’Histoire du Judaïsme, che è in primo luogo la storia di una tipografia-casa editrice, di proprietà della famiglia di sua madre, i Beresniak, che pubblicavano testi yiddish e dotte confutazioni dei mortiferi Protocolli dei saggi di Sion. Cresciuto in Argentina, Goscinny si appassiona di un personaggio indio, Patozoru, beniamino dei bambini porteñi e da lì elabora la sua scanzonata, e spesso sarcastica, rivisitazione del mito. All’angolo, all’uscita, c’è un suonatore di organetto di Barberia, che fa andare il tema di una bellissima chanson di Barbara: A Gottingen e, quindi, le danze continuano.

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Ballare, e non solo
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Antonino Costa. Scorciatoie

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Inaugurazione giovedì 7 giugno - ore 18.30

In occasione della Milano Photo Week, Fratelli Bonvini, storica bottega di cartoleria e tipografia milanese e Doppiozero, rivista culturale online dal 2011, presentano un progetto speciale nello spazio di Atelier 1909.

 

“Scorciatoie”, mostra fotografica di Antonino Costa (Palermo, 1973) è il primo evento espositivo ospitato in Atelier curato da Doppiozero: dieci scatti dedicati ai percorsi pedonali tracciati dai passanti a Milano, in centro e in periferia. Sono “scorciatoie”, vie brevi, visibili ovunque, a cui pochi dedicano attenzione. Il lavoro fotografico, proveniente da una collezione privata in prestito per la mostra, è introdotto da un testo di Massimo Recalcati intitolato “Sentieri invisibili”, pubblicato nella rivista Segnature n. 16, a cura di Paola Lenarduzzi, disponibile in occasione dell’evento.

 

Via Tagliamento, 1
www.bonvini1909.com

Mostra aperta dal 5 al 10 Giugno. Orari: 14:30 – 19:30

Inaugurazione giovedì 7 giugno - ore 18.30
Ingresso libero fino ad esaurimento posti

 

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ATELIER 1909, Fratelli Bonvini Milano
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Joel Meyerowitz: l’elemento misterioso dell’immagine

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Una bambina sta piangendo. Siamo a New York, in strada. Sono aperte due portiere di un’auto, e la bimba è inquadrata oltre il vetro del secondo finestrino. Mentre piange guarda in alto verso un uomo, che le tende la mano. Non si capisce se sia suo padre, o un autista o un estraneo. Non si capisce nemmeno se la bimba debba salire in auto o se sia appena scesa e non vuole andare con la persona adulta. S’è persa? È stata sgridata dal genitore? La fotografia scattata da Joel Meyerowitz nel 1963 lascia molto spazio all’interpretazione. Oltre ciò che si vede immediatamente, questa immagine può rivelare anche e soprattutto qualcosa di più espanso.

 

Joel Meyerowitz, New York City, 1963.


Secondo le intenzioni del fotografo americano uno scatto non deve per forza dire tutto, e se in esso vi è custodito un elemento misterioso l’immagine riesce a sopravvivere agli anni e mantenere vivo un rapporto con i fruitori: «All’inizio non avevo questa abitudine a espandere ciò che si poteva vedere, registravo solo persone, o momenti, di qualcosa che semplicemente stava avvenendo. Questo mi ha dato modo di imparare, pensavo fosse necessario dare un centro alle fotografie ma dopo un po’ di tempo ho cominciato a credere abbastanza nelle mie capacità e nella mia esperienza e ho cominciato a capire che più cose, allo stesso tempo, possono avere un significato diverso. È stato un esperimento, come quello di dirsi ho più cose in testa in questo momento e voglio fare delle fotografie che possano rappresentare questo mio tipo di curiosità. Credo di poter dire in questo modo che la fotografia mi ha incoraggiato ad aprirmi e a vedere oltre, piuttosto di continuare ad accontentarmi di ciò che si vede immediatamente» (Joel Meyerowitz).

 

Joel Meyerowitz, Paris, France, 1967, courtesy Polka Gallery.

 

In Paris, France (1967) un uomo giace riverso in strada. È vicino alle scale che discendono verso il Metrò. Un gruppo di persone guarda, a poca distanza, ma nessuno lo soccorre. Un muratore, con un martello in mano, pare che gli stia passando accanto, senza fermarsi. L’ha colpito lui o è solo un indifferente che ha premura e non si ferma? L’uomo a terra sull’asfalto ha perso conoscenza o è morto? Intanto il traffico parigino ingolfa la strada e un garzone spinge un carrello con un carico di alcuni cartoni di merce. I curiosi guardano. Nessuno soccorre. Quale è qui il centro della fotografia? L’autore ha colto semplicemente quello che stava accadendo in quel preciso istante dello scatto, ma la stampa della fotografia ha reso visibile un clima ulteriore, un momento denso di mistero.

 

Joel Meyerowitz, Mexico, 1971.


Anche in Mexico (1971) l’atmosfera è straniante. Un neonato piange in una culla, rimediata all’interno di una cassa di legno, vicino ai fucili allineati dentro un tiro a segno del Luna Park. L’assenza di altre persone nella scena lascia spazio al collegamento tra il bimbo lasciato solo, i suoi vagiti, i fucili, i bersagli, creando un cortocircuito.

 

Joel Meyerowitz, Malaga, Spain, 1966.

 

Joel Meyerowitz, Malaga, Spain, 1967.


In Malaga, Spain (1967) terribile e attraente al contempo è l’immagine del cavallo caduto accanto al carretto, con la corda che è tesa e impigliata a qualcosa che non si vede perché è fuori campo, e che stringe il morso sulla bocca procurandogli una torsione dolorosa al collo. L’animale occupa il primo piano, in una zona che è in ombra e che conferisce toni da bianco e nero. Il secondo piano è invece illuminato dal sole, e il colore spicca sugli spettatori. L’autore ha colto un efficace “trovato”, un momento che contiene il mistero e l’indifferenza della natura, il confine tra la vita e la morte, un istante che non è solo un istante, un accadimento che può essere compreso solo se legato al significato di altre centinaia di istanti che hanno rivelato qualcosa nel corso della storia: “Quel cavallo che cade è solo un cavallo che cade e le persone che lo stanno guardando morire sono solo quelle persone che si trovavano lì a osservarlo in quel momento. Questa foto non dice nulla a proposito del regime franchista, ma se viene guardata fra le centinaia di foto che costituiscono Out of Darkness, avremo una comprensione più precisa di ciò che significava”. Se ogni fotografia è testimonianza di un determinato momento ma anche un frammento di un percorso di continua scoperta, per Meyerowitz ha molta importanza ciò che appartiene anche alla dimensione inconscia di ciò che è simbolico. Nel cammino di ogni fotografo, in ciò che lascia alle sue spalle e negli scatti che deve ancora realizzare, la narrazione di uno sguardo personale entra in un più articolato intreccio, come se dovesse permettere alla coscienza di muoversi in direzione di scoperte e di evoluzioni sempre rinnovabili: “Ho sempre cercato un accordo con il tempo e le percezioni, queste due cose intangibili e sempre in continuo mutamento. Il tempo scorre, non si ferma e le nostre percezioni fanno di noi ciò che siamo”.

 

Joel Meyerowitz, JFK airport, New York City, 1968.


In JFK Airport, New York City (1968) il design nel lato posteriore dell’automobile pare ispirarsi alle forme delle navicelle spaziali. Nel parcheggio innevato, in lontananza sullo sfondo, spicca un’alta scultura luminosa, come una stella che dirama raggi nello spazio, suggerendo un collegamento simbolico con l’aeromobile e la notte nevosa.

 

Joel Meyerowitz, New York City, 1975.


Molto intrigante è New York City (1975), scattata in una strada metropolitana, in un momento in cui una coppia cammina sul marciapiede, raggiunta da una coltre di fumo o vapore che giunge dalla parte sotterranea. Intanto sulle schiene di due donne – che stanno procedendo nella stessa direzione della coppia a braccetto – il sole proietta l’ombra di altre due persone che camminano dietro di loro, ma che non sono inquadrate nella fotografia. La bruma bianca ricrea una presenza “altra”, dà luogo a un volume etereo, a una geometria che viene attraversata dal movimento delle persone e delle ombre.

 

Joel Meyerowitz, Red interior provincetown, Massachusetts, 1977.


L’artista guarda attentamente il modo in cui qualcuno fa un gesto per la strada, la reazione derivata dalla coazione fra due persone, la simultaneità di due cose che avvengono all’unisono e la relazione che si crea tra loro. 

Meyerowitz, nato nel 1938 da una famiglia proletaria e cresciuto tra le case popolari dell’East Bronx, ama osservare le persone, l’energia e la spontaneità della vita nelle strade urbane. Colpito dal modo di scattare fotografie di Robert Frank, dal suo muoversi con la macchina fotografica in mezzo alla gente che cammina e sta nel flusso metropolitano, dal 1971 svolge ulteriormente la sua ricerca scegliendo di utilizzare il colore, in concomitanza con gli esperimenti di Eggleston.

 

Meyerowitz lascia campo al tempo e alle percezioni. È interessato costantemente alle nuove riflessioni che si innescano in conseguenza del suo interagire con la macchina fotografica e alle rivelazioni che potrebbero prendere corpo dopo la stampa delle fotografie. Il mentre del fare, la possibile rivelazione di qualcosa che non era ancora stata presa in considerazione, l’apparizione di un ulteriore punto di vista, tutto concorre a cercare di comprendere ciò che significa la vita. Prendono corpo anche una ricerca parallela, una consapevolezza dei propri mezzi e delle potenzialità dello sguardo. Non interessa che sia data voce solo al centro ma soprattutto alla rappresentazione di interessanti sottosignificati: “Il mondo non ha un centro, il mondo è dappertutto. Questo perché il modo in cui il mondo si spiega e ti istruisce è tutto ciò che ti serve per lavorare. A un certo punto capisci che quella è la tua strada, perché il modo che si ha di vedere le cose è tutto ciò che abbiamo, ed è l’unico modo con cui farlo”.

 

Joel Meyerowitz, Los Angeles airport, California, 1976.


Applica la tecnica dei tre passi indietro di Robert Frank, lascia più spazio e campo a ciò che entrerà nel suo scatto, anche solo con l’atto dell’arretrare col proprio corpo. Cerca di vivere con lucidità ciò che sta percependo prima di scattare, per catturare quanto più possibile, sia il visibile palese e contingente sia il visibile che apparirà in un secondo momento. Intende anche dare molta importanza al distacco che si frappone tra un immaginario e un altro.  Tutto questo concorre per dire qualcosa in modo originale e in una modalità che comprende il flusso del tempo e lo spazio, per unire un singolo frame alla complessità delle connessioni che legano il mondo alla vita: «Il linguaggio personale è tutto. Senza di quello non puoi fare nessuna fotografia che abbia un significato, è ciò che ne definisce l’identità, dove trova un senso fra un’immagine e l’altra. Non penso sia possibile realizzare una fotografia totalmente oggettiva, solo una telecamera a circuito chiuso che registra ogni cosa che accade può farlo ma la fotografia necessita di scelte soggettive. Sei tu a decidere ciò che finisce nel frame ed è una decisione consapevole, perché il frame taglia fuori per sempre ciò che continua a scorrere nel mondo. Devi essere consapevole che c’è qualcosa in quello che stai facendo e che in quel frame ci sia abbastanza per darti il senso di quella necessaria e immediata connessione che stai provando».


JOEL MEYEROWITZ: TRANSITIONS, 1962-1981

a cura di Francesco Zanot

Palazzo da Mosto, Fino al 17 giugno

https://www.fotografiaeuropea.it/fe2018/mostra/joel-meyerowitz/

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Transitions, 1962-1981
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Fare e pensare la fotografia

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Tra i maggiori storici e teorici dell’arte contemporanei, Jean-François Chevrier (1954) ha sviluppato negli ultimi tre decenni una originale riflessione sulla vicenda e sugli usi dell’immagine fotografica, vista come un campo in rapporto con la tradizione delle arti visive, con i media, la letteratura, la filosofia, in cui può realizzarsi un nuovo equilibrio tra dimensione speculativa e sfera sensibile. Dopo aver fondato nel 1982 la rivista «Photographies», Chevrier si è concentrato sulla ricostruzione di una genealogia dell’uso artistico della fotografia, studiando figure fondamentali del modernismo come Walker Evans e Raul Hausmann, e quindi dell’epoca contemporanea, a contatto con la produzione di artisti come Jeff Wall, della cui opera è uno degli interpreti più attenti, John Coplans, Marina Ballo Charmet, Patrick Faigenbaum. All’attività di studioso e saggista – peraltro ancora poco nota in Italia (i suoi libri più recenti sono L’Hallucination artistique, 2012, e Œuvre et activité, 2015) – Chevrier ha affiancato quella di curatore, organizzando esposizioni di ampia risonanza come Une autre objectivité (1988-89) e Walker Evans & Dan Graham (1992-94); in L’Action restreinte. L’art moderne selon Mallarmé (2004-05) e Formes biographiques (2013-15) ha proposto riletture di largo respiro su momenti chiave della cultura visiva e letteraria tra Otto e Novecento; è stato consulente principale di documenta X (1997) e ha ideato con gli architetti Herzog & de Meuron il nuovo allestimento del Musée d’Unterlinden a Colmar (2016).

 

Raoul Hausmann, Senza titolo (Vera Broido), 1931-33 ca.

 

Ho incontrato Jean-François Chevrier a Parigi, dove nelle scorse settimane si è tenuta al Jeu de Paume la mostra Raoul Hausmann. Un regard en mouvement, un’occasione per riscoprire la sua importante produzione fotografica realizzata tra anni Venti e Trenta dello scorso secolo.

           

SC: Qual è il tuo bilancio della mostra di Hausmann al Jeu de Paume?

 

JFC: La scelta di mostrare solo le fotografie di Hausmann è criticabile, perché la sua opera è molto più diversificata e complessa. Al tempo stesso non è irragionevole, dal momento che tra tutti gli artisti d’avanguardia, e particolarmente tra quelli vicini al dada – che non avevano all’inizio nessun interesse per la fotografia e anzi la disprezzavano come tecnica meramente rappresentativa – Hausmann è l’unico a essersi dedicato seriamente alla fotografia.

 

La sua attività di artista-fotografo è in effetti limitata al periodo che va dal 1927 al 1936 circa, poco meno di un decennio.

 

La scoperta delle opere di quel periodo, alla fine degli anni Settanta, è stata per me una vera rivelazione. Nel 1975 era uscito in Francia un libro di Michel Giroud dedicato a Hausmann intitolato Nous ne sommes pas des photographes, una frase (“noi non siamo fotografi”) ripresa da un testo del 1921 in cui Hausmann, il “dadasophe”, come si faceva chiamare, criticava la fotografia in quanto strumento di appropriazione estetica, vale a dire di una compulsione alla registrazione visiva che pone l’operatore in una posizione di dominio e di possesso. Si può essere artisti-fotografi solo lavorando contro la fotografia, producendo immagini che permettono di combattere l’atteggiamento compulsivo dell’appropriazione estetica. Agli occhi di Hausmann la fotografia è il sintomo di un handicap spirituale dell’essere umano, che lo spinge a sottomettere il mondo ai parametri meccanici indotti dall’obiettivo della macchina fotografica.

 

Eppure l’autore di questa critica radicale appena sei anni più tardi ha iniziato a dedicarsi alla fotografia...

 

Il perché lo si è capito solo nel 1986, in una mostra a Vienna che mi aveva molto colpito (Raoul Hausmann. Fotografien 1927-1933). Hausmann si è interessato seriamente alla fotografia perché era il solo modo per combattere le regole oppressive denunciate nel testo del 1921. In altre parole, ha praticato la fotografia per lottare contro i meccanismi psicologici dell’appropriazione estetica e per impadronirsi di una tecnica la cui pretesa oggettività produce in genere una falsificazione dell’esperienza percettiva e spirituale.

 

Qual è dunque a tuo avviso il contributo essenziale di Hausmann alla relazione tra fotografia e arte moderna?

 

Dimostrare che si poteva praticare la fotografia senza soccombere al suo cattivo uso, in modo serio dunque, utilizzandola allo stesso tempo come registrazione, descrizione e contemplazione. Hausmann voleva usare la fotografia per fare delle fotografie, in modo diretto. Per lui la contemplazione era una forma sublimata di erotismo che permetteva di riversare l’esperienza del corpo amato nell’ambiente, di far apparire metafore erotiche nella morfologia del paesaggio: le pieghe, le ondulazioni, i fremiti della natura. Questa valenza erotica dell’esperienza contemplativa fu per lui la via d’accesso al lirismo fotografico.

 

Raoul Hausmann, Senza titolo, 1930

 

Insieme a Hausmann, un altro grande artista-fotografo di cui ti sei occupato è Walker Evans. Cosa hanno in comune queste due figure?

 

Nessuno dei due si poneva nella posizione del fotografo che pretende di essere un artista, ma entrambi si consideravano artisti che utilizzavano la fotografia. Non dimentichiamo tra l’altro che all’inizio Walker Evans voleva diventare scrittore, non “fotografo”. All’epoca la fotografia era o illustrazione, reportage, o artigianato artistico. Hausmann ed Evans non hanno accettato questa alternativa. Hausmann non ha avuto una carriera di reporter, era incapace di piegarsi alla disciplina richiesta dalla professione, ed Evans ha fatto di tutto per evitarla: i conflitti che ha conosciuto nel corso della sua attività di fotografo per la Farm Security Administration ne sono la prova. Infine, entrambi sceglievano i loro soggetti. In questo aprirono una possibilità, tuttora importante, per quei reporter che scelgono cosa fotografare, come ad esempio Ahlam Shibli o Santu Mofokeng, o anche, prima ancora, Robert Doisneau, a proposito del quale si potrebbe parlare di “reportage a uso privato”.

 

Sia Hausmann che Evans “usano la fotografia per fare delle fotografie”, come dicevi?

 

Sì, ed è una formula che mi ha permesso tra l’altro di concepire la mostra Une autre objectivité, dove erano presenti Jeff Wall e John Coplans, come pure Robert Adams e altri. L’idea di partenza era semplice: negli anni Settanta i fotografi erano contrapposti agli artisti che usavano la fotografia. Questa opposizione è durata a lungo, se pensi che quando ho curato Walker Evans & Dan Graham nel 1992 mi ci sono ancora scontrato: da un lato, mi si diceva, non si può accostare un artista concettuale a un maestro della storia della fotografia, e quest’ultima espressione era beninteso carica di una connotazione nettamente dispregiativa. Dall’altro, mi si ripeteva, non si può mettere un maestro così importante a fianco di un artista concettuale che fa immagini senza interesse. Ho fatto di tutto per superare questa separazione, cercando di mostrare che si poteva essere artisti, usare la fotografia e fare delle fotografie. La dimostrazione era evidente nel caso di due artisti a cui sono stato molto vicino come Coplans e Wall: facevano qualcosa di diverso dal fare fotografie? Allo stesso tempo, non erano dei fotografi, erano davvero artisti che usavano la fotografia. Dunque “artisti che usano la fotografia per fare delle fotografie” è veramente l’espressione-chiave. Se ci si aggiunge “contro i cattivi usi della fotografia” si ottiene la formula completa.

 

Henri Le Secq, Le Champ des Cosaques, Montmirail, 1852-1853

 

Questa idea permette di ripensare la vicenda dei rapporti tra arte e fotografia dagli anni Venti del Novecento fino a oggi?

 

Va detto anzitutto che per me l’arte moderna è nata con la fotografia, come ho cercato di mostrare in un libro, Entre les beaux-arts et les médias. L’arte moderna si situa esattamente tra belle arti e media, ed è nata con la fotografia in questa precisa circostanza. Ciò vuol dire che occorre risalire all’indietro, ben prima degli anni Venti, fino al XIX secolo, dove la vicenda inizia con degli artisti-fotografi che utilizzano lo strumento fotografico per descrivere una realtà fenomenologica e storica, come fa ad esempio un fotografo straordinario come Henri Le Secq, capace, in una fotografia scattata dopo il 1850, Au Champ des Cosaques, di rappresentare il luogo di una battaglia napoleonica, un luogo di memoria, mostrando da vicino solo un terreno pietroso, spaccato e rivoltato, in un modo che oltrepassa l’aneddoto storico e la commemorazione creando una relazione molto personale, in cui gli interessi psicologici non si lasciano ridurre a fini descrittivi. Si posso fare osservazioni analoghe per Roger Fenton, che è forse meno artista di Le Secq ma che ha inventato, o reinventato il reportage fotografico. C’è una tensione fondamentale, e che resta del tutto attuale, tra la mia piccola regola degli artisti che “usano la fotografia per fare delle fotografie” e il reportage. Ma questo richiederebbe un vero nuovo discorso teorico. Ad esempio, in cosa l’opera di John Coplans presenta una dimensione di reportage? A priori, in nulla, ma la domanda resta tuttavia valida.

 

Nella narrazione standard del modernismo, l’arte moderna inizia con Manet e il rifiuto della narrazione, dell’aneddoto, del dato extrapittorico: il quadro si rende autonomo. Tu invece, rispetto a questo schema tanto sclerotico quanto contestato, sottolinei soprattutto il valore di rottura determinato dall’apparizione della fotografia.

 

Per me l’inizio della modernità coincide più con Géricault che con Manet, semplicemente perché Géricault, dipingendo Le Radeau de la Méduse, si ispira a una realtà aneddotica che è già un’attualità mediatica, prima dell’esistenza dei media moderni. Anticipa cioè un fenomeno già ben presente all’epoca di Manet.

 

Walker Evans, Tin False Front Building, Moundville, Alabama, 1936

 

D'altro canto, si dice di solito che solo con la mostra di Walker Evans American Photographs, nel 1938 al MoMA di New York, a sua volta considerato il primo museo di arte “moderna”, si affermi definitivamente la figura dell’artista-fotografo. Sei d’accordo?

 

A quel punto i giochi erano fatti da tempo. La mostra di Walker Evans a New York giunge alla fine di una lunga vicenda precedente. Il primo museo d’arte moderna è stato creato in realtà a Vitebsk nel 1918, come si vede nella mostra in corso al Centre Pompidou (Chagall, Lissitzky, Malévitch. L'avant-garde russe à Vitebsk, 1918-1922; Centre Georges Pompidou, Parigi, fino al 16 luglio). Ma era a Vitebsk, e ha chiuso presto, nel 1926. C’è stato poi il museo Folkwang, a Essen, dal 1922, poi il Muzeum Sztuki di Łódź, aperto nel 1930. Sono almeno tre esempi precedenti al MoMA e tutti in Europa centrale o dell’Est, il che è un fatto significativo. L’originalità dell’esposizione di Evans al MoMA sta nel fatto di aver avuto luogo in un museo d’arte moderna di una grande metropoli del Nuovo Mondo, un museo che è durato sino a noi. L’altro elemento decisivo è che la mostra American Photographs era accompagnata da un libro, una straordinaria invenzione, un libro di immagini concepito sul modello della raccolta di poemi in prosa.

 

Un vero e proprio nuovo medium, che diventerà essenziale nella successiva vicenda della fotografia.

 

Sì, vicenda non chiusa peraltro, ma che per alcuni artisti non ha alcuna importanza, vedi il caso di Jeff Wall, che ha prodotto quaranta cataloghi ma mai un libro. Per lui, è il tableau fotografico a essere interessante, non il libro.

 

In cosa consiste secondo te lo specifico contributo di Wall alla vicenda dell’uso della fotografia da parte degli artisti?

 

Ha reinventato il quadro, un gesto straordinario. Mi ricordo ancora della prima volta in cui ho visto una sua opera, nel 1995; era The Thinker, ispirato all’incisione di Dürer con la figura seduta trafitta dalla spada. Quando ho scoperto questa immagine sono rimasto stupefatto. Wall faceva, e fa tuttora, quadri fotografici. Non è il primo: nel XIX secolo già li faceva Le Gray, e poi i pittorialisti hanno realizzato messe in scena fotografiche. Ma Wall li realizza sulla base della pittura degli anni 1940-1950, della sua esperienza dei quadri di Pollock, Rothko ecc., riallacciandosi alla scala della pittura accademica e della pittura di storia in generale. Anche lui ha realizzato alcuni quadri di storia, piuttosto parodici e grotteschi, ma partendo da Manet interprete di Velázquez, e dunque riducendo la pittura di storia a pittura di genere.

 

Jeff Wall, The Thinker, 1986

 

La cosa che mi colpisce di più in Wall è la tensione tra estetica dell'istantanea e ricreazione artificiale che esiste nei suoi lavori, in altre parole la tensione tra “effetto di realtà” e finzione nel medium fotografico. Qual è la tua idea in proposito?

 

Wall ha sempre preteso di ispirarsi a cose viste, nel senso di Victor Hugo. È lo stesso schema, e si tratta davvero di una struttura storica: tra beaux-arts e media, da un lato, e reportage dall’altro, con una tensione tra le sue polarità. Gli artisti agiscono all’interno di questa struttura. Se si aggiunge l’allucinazione si ottiene una comprensione più profonda di questi fenomeni e si evita di ripetere sempre le stesse parole d’ordine della critica americana.

 

Uno dei “dispositivi” essenziali della vicenda moderna è il montaggio. Qual è dal tuo punto di vista il suo ruolo tanto nella storia dei rapporti tra arte e fotografia che nella nostra attualità?

 

Per risponderti, dirò anzitutto che pur avendo scelto storia dell’arte come disciplina, ho sempre trovato difficile dire qual è la cosa più importante per me, tra l’espressione verbale e l’immagine. La prima volta che ho potuto mettere in relazione questi due interessi, la letteratura e le immagini, è stato lavorando alla radio. Era una trasmissione sulla fotografia, si chiamava Radio-Photo. Giocavo sul fatto che alla radio non ci sono evidentemente immagini e non ci sono suoni nella fotografia. È stato lavorando a questa trasmissione che ho scoperto il montaggio, mettendo in relazione linguaggio e musica di ogni puntata. È il montaggio ciò che pratico costantemente nei miei libri, nelle mie mostre, nelle mie lezioni, sempre. È una forma di associazione che presenta un aspetto narrativo che può dispiegarsi sia nel tempo che nello spazio. Di qui l’importanza della nozione di intervallo, che ho scoperto nel cinema, ad esempio in Vertov. La seconda cosa è che non avrei mai potuto fare storia dell’arte senza lavorare con degli oggetti e per far ciò mi sono allontanato dal mondo universitario per avvicinarmi a quello dove si fabbricano oggetti, vale a dire le accademie di belle arti. Non soltanto per essere accanto degli artisti, ma per essere lì dove si fabbricano cose: io faccio parte di coloro che pensano che arte significhi fare degli oggetti. L’artista moderno tuttavia diffida degli oggetti. Sono sempre rimasto colpito da una frase di Douglas Huebler che diceva in sostanza: “ci sono abbastanza oggetti nel mondo e non vale la pena di aggiungerne altri, ciò che vorrei è produrre dei modelli”. C’è nell’arte moderna una fondamentale negatività confronti dell’oggetto, nella quale è centrale la critica marxista della reificazione. Di qui la mia passione per Duchamp, per Broodthaers, per la linea che chiamiamo concettuale. Dunque, montaggio per produrre rapporti, forse modelli, più che oggetti, ma montaggio anche per includere gli oggetti. Penso di fare in questo modo qualcosa in accordo con l’arte moderna, con quell’atteggiamento dell’artista un po’ ambivalente nei confronti dell’oggetto che suona: “Si, fabbrico oggetti, ho bisogno di farli, è un modo per proiettarmi nel mondo, ma allo stesso tempo non ho voglia di aggiungerne di nuovi, ho una reticenza, mi piacerebbe produrne il meno possibile, o far sì che ognuno di essi sia unico”, così come vuole la posizione straordinaria di Duchamp, per il quale ogni oggetto non può essere ripetuto. Tutto questo è a monte di tutte le mie scelte. Praticare il montaggio con oggetti reali e non soltanto con libri, con riproduzioni, è fondamentale per trattare anche l’ambivalenza nei confronti dell’oggetto.

 

Lo spazio reale dell’esposizione, gli oggetti che vi sono contenuti, serve anche a rivelare un potenziale che le opere non possono esprimere che quando sono presenti materialmente in un ambiente…

 

Certamente. Ci troviamo di fronte a un vero paradosso, che è costitutivo di questa attività: tra l’attitudine di appropriazione o proiezione e l’idea che le opere devono, o possono, funzionare da sole, senza lo spettatore, e che in un certo senso lo spettatore sia lì solo per permettere che dialoghino tra loro, che trovino i loro giusti rapporti. Il lavoro di organizzazione di una mostra tende perciò a diventare quasi anonimo. Ma il paradosso si risolve se si pensa al fatto che il lavoro di montaggio necessita in partenza di una grande conoscenza e padronanza delle opere.

 

Raoul Hausmann, Senza titolo, 1931

 

Per tornare a Hausmann, non c’è anche nella sua posizione una critica implicita a una concezione della fotografia come strumento, diremmo oggi, della spettacolarizzazione del mondo?

 

C’è una dimensione etica, anzitutto. Sono sempre stato contro l’appropriazione estetica, ho sempre pensato che occorre lasciare esistere le cose, le persone, cercando di non farle entrare in modo autoritario in categorie, in discorsi, in racconti. Ho sempre pensato che l’arte moderna sia un’arte costruttiva, non autoritaria, e ciò che mi interessa è appunto una costruzione non autoritaria, qualcosa che ho capito osservando l’opera di Sophie Taeuber. Ho un fondo anarchico che ho ritrovato in John Coplans e in molti artisti con cui ho condiviso delle idee: lasciare esistere il mondo, non forzare il discorso, non imporre un’interpretazione, non piegare le cose in senso spettacolare.

 

In questo senso le mostre, di fotografia o altro, non sono anch’esse dispositivi intrinsecamente spettacolari?

 

Una mostra è certamente uno spettacolo ma al tempo stesso anche un antispettacolo. È un paradosso impossibile da sciogliere. Ma si deve cercare di produrre uno spettacolo antispettacolare, allo stesso modo in cui un artista-fotografo deve sforzarsi di produrre immagini non basate sull’appropriazione estetica. L’idea di costruzione non autoritaria è per me fondamentale, e dico bene non autoritaria, non “antiautoritaria”. Bisogna sempre sottrarsi al principio di autorità.

 

 

Una versione più breve di questa intervista è uscita su "il manifesto - Alias" del 20 maggio.

 

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Fotografia, documento, ambiguità

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Laura Gasparini incontra Simone Sapienza e Umberto Coa, fotografi tra i finalisti della Public call della dodicesima edizione di Fotografia Europea a Reggio Emilia. 

 

Simone Sapienza

 

LG: Rivoluzioni, ribellioni cambiamenti, utopie. Il titolo di questa edizione di Fotografia Europea si addice molto a diversi tuoi progetti che hai realizzato in Vietnam come United States of Vietnam e Charlie surfs on Lotus Flower. Puoi raccontarci la tua declinazione?

 

SS: Sono molto affascinato dalle tematiche vicine al potere e a come quest'ultimo possa influenzare il corso della storia e soprattutto la percezione di essa. I due progetti sono in qualche modo complementari, anche se United States of Vietnam, in formato installazione-bandiera, è diventato sempre più bonus track dell'altro. La dinamica è stata pressoché questa: la bandiera rappresenta in maniera seriale e controllata la "libertà" in crescita del mercato; Charlie surfs on Lotus Flowers si concentra invece sulla tematica del controllo (politico) attraverso un approccio libero e slegato da ogni vincolo giornalistico. È come se tematica ed approccio fotografico si alternassero e compensassero.

 

LG: Perché, nelle tue indagini, hai scelto il Vietnam? Quali sono stati i cambiamenti e, forse, le utopie tradite o no, che più ti hanno affascinato di quel paese?

 

SS: Durante i miei studi in fotografia, ebbi modo di scoprire come la guerra del Vietnam fu crocevia fondamentale per la storia della fotografia documentaria in particolare dal fronte di guerra. La documentazione di quel fallimento ha dato il via alla censura e al fotografo embedded, fino a rinnovarsi totalmente in citizen journalist ai tempi della Primavera Araba. Così cominciai a chiedermi cosa sapessero i miei coetanei della storia del Vietnam, e mi sono reso conto che i riferimenti principali fossero cinematografici, non essendo un argomento battuto nelle scuole. Mi chiesi poi io cosa ne fosse rimasto del Vietnam oggi, e da lì le scoperte sui dati economici, sociali e demografici mi hanno spinto ad approfondire il Vietnam oggi, al di là delle risaie e altri stereotipi da cartolina. Utopie tradite, sicuramente – come in tanti altri Paesi in cui la rivoluzione ha portato ad una forma diversa di potere, spesso assoluto. Ecco perché il Vietnam c'è, ma non è così esplicito nelle foto. È un simbolo.

 

 

LG: Ti definisci fotografo documentario, a quale pensiero ti senti più vicino, in particolare a quale autore?

 

SS: La mia definizione di fotografo documentario è molto vaga, eterogenea, spesso criticata. Credo molto nell'importanza della ricerca preliminari nei progetti – per me, è quello a definire un progetto documentario o meno. Per il resto, c'è un determinato tasso di interpretazione che può essere più o meno esteso, a seconda del progetto. Sicuramente, al di là dei fotografi di break news, non credo nell'obiettività della fotografia come medium, e quindi in quella presunzione di verità spesso portata in auge dal mondo del fotogiornalismo. Si prendi ad esempio il WPP – World Press Photo – negli ultimi due-tre anni, è tornato a rifossilizzarsi e auto-compiacersi, è attuale nelle tematiche rappresentate, ma totalmente scostato dalla realtà quanto a cambiamento del medium fotografico. 

Non ho degli autori di riferimento in maniera "religiosa", diciamo. Ce ne sono due che stimo moltissimo, grazie al loro approccio metodico e intelligente, progetto per progetto, Max Pinckers e Federico Clavarino. Quest'ultimo, anche ottimo docente che riesce a distinguersi rispetto all'offerta educativa vasta sì, ma generalmente sempre più piatta. Rispetto alla fotografia del passato, rispetto eterno per Frank ed Eggleston, e non per assonanza di approccio. Semplicemente, ci ricordano che a volte bisogna passare per "eretici" prima di poter affermare il proprio linguaggio.

 

 

LG: Il linguaggio fotografico che utilizzi nel descrivere e documentare i temi dei tuoi progetti non è diretto ma richiede un’attenzione e una partecipazione attiva dello spettatore. È un elemento indispensabile del tuo modo di documentare?

 

SS: Nei miei ultimi progetti c'è un elemento in comune: la decontestualizzazione. Mi piace l'idea di poter realizzare dei progetti che possano rappresentare realtà simili, seppur con geografie e storie diverse. Quest'approccio è diventato ancor più estetico in Vietnam. Le fotografie sono poco descrittive, semplici, quasi banali e troppo pulite. Quindi sì, bisogna un po' scavare e trovare empatia con i soggetti, e soprattutto con gli oggetti. L’immagine verticale, inconsciamente, mi aiuta in questa pulizia di contenuti. Mi sarà stato detto così tante volte che una fotografia deve raccontare quanto più da sé, che alla fine ho cercato di limitare i messaggi espliciti. Sì, sono un po' bastian contrario.

 

 

 Umberto Coa

 

L.G.: Non dite che siamo pochi nasce da un ritrovamento avvenuto casualmente di fotografie, lettere e documenti. È l'ennesimo ritrovamento che ha fatto scaturire un progetto che presenti a Fotografia Europea 2018. Puoi parlarcene?

 

U.C.: Il lavoro si sviluppa a partire da un espediente narrativo, il ritrovamento di un insieme di fotografie, documenti, provini a contatto, libri, oggetti e diari. Questo materiale è stato messo insieme e mi è stato consegnato da un uomo, al quale mi riferisco utilizzando solo le sue iniziali: MB. 

In molti lo definirebbero un anarchico insurrezionalista, io preferisco anarchico d’azione. Il materiale raccolto, in fondo, si concentra prevalentemente su questo aspetto: quello delle pratiche di opposizione e di attacco al potere e agli strumenti d’oppressione. Dalle fotografie di MB emergono le diverse forme attraverso le quali la rivolta si manifesta, investendo l’esistenza nella sua interezza. Così immagini di cortei, sabotaggi, cariche e prigioni si alternano ad altre di natura privata. A questo si aggiungono collage e fotografie storiche rielaborate, che dialogano con scritti, comunicati di rivendicazione e opuscoli. 

Le didascalie aiutano a seguire il percorso del protagonista, contestualizzando le immagini e dando un nome ai volti che incontriamo: Luigi Lucheni, Severino di Giovanni, Horst Fantazzini, Niko Matiotis e altri ancora. 

Tutto ciò conduce al cuore di un’idea di rivolta, con un suo portato fisico, corporeo, che si esprime alla luce del giorno così come nel buio della notte, dall’Italia alla Grecia, dalla Spagna alla Francia.

 

 

LG: Hai dismesso i panni del fotografo per indossare quello dell'archeologo, come direbbe Michael Foucault l'"archeologo dei saperi". Cosa hai scoperto?

 

UC: Tante cose. Cercare di riassumerle sarebbe riduttivo.

Non avendo vissuto gli eventi cui si fa riferimento e non avendo preso parte a situazioni simili, non mi sento di poterne fornire un’analisi esaustiva. Il mio lavoro può al massimo contenere degli indizi, a partire dai quali ciascuno può provare a discostarsi dalla lettura che comunemente viene data di tutte quelle azioni di dissenso che vanno oltre i limiti legali e morali della società democratica.

 

LG: Vedendo il tuo lavoro, però, sorge spontanea la domanda cosa hai inventato?

UC: MB non è mai esistito; il suo archivio raccoglie immagini trovate in rete, frame estrapolati da video, messe in scena e fotografie che talvolta non hanno niente a che vedere con l’oggetto del racconto. Paradossalmente queste sono le sole che hanno mantenuto la funzione, unicamente narrativa, per le quali sono state realizzate. 

Anche l’idea di installazione, curata da Renata Ferri, è stata quella di costruire una dimensione dell’immaginario, in cui la finzione penetra nella realtà e si confonde ad essa. 

I riferimenti a eventi accaduti, nonché i documenti che utilizzo, sono frammenti del percorso biografico di MB. Costituiscono, così come il resto del materiale esposto, una prova tangibile della sua esistenza.

Non mi interessava quindi fornire una precisa ricostruzione storica o dare informazioni complete. Ho provato a raccontare una storia, sperimentando le molteplici possibilità con cui orientare il significato delle immagini e chiedendomi che ruolo queste svolgano nella percezione della realtà. 

Per sapere cosa è inventato, cosa non lo è, cosa è attendibile, cosa è manipolato, bisogna verificare.

Questo lavoro può anche essere letto come un invito a distinguere tra vero e falso rispetto a un tema preciso.

 

 

LG: La fotografia, o meglio le immagini, hanno un potere evocativo straordinario tale da "documentare" una realtà che non esiste. È un aspetto davvero sovversivo del linguaggio della fotografia. Tu come l'hai elaborato?

 

UC: Questo aspetto sovversivo della fotografia è stato utilizzato, per ragioni diverse, fin dai primi anni di diffusione del mezzo. Prendendo spunto dai diversi episodi che si sono susseguiti nel campo dell’arte e dell’informazione, ho utilizzato l’ambiguità delle immagini, la loro naturale capacità di mentire, come una risorsa utile per costruire una storia, servendomi di quello che ho trovato e aggiungendo le “parti mancanti’’: una continua opera di selezione, riadattamento e decontestualizzazione. 

Le didascalie ricollocano le immagini nello spazio e nel tempo. 

 

 

Così un frame tratto da un video di scontri a Exarchia nel 2016, mi permette di far riferimento alle proteste durante il Consiglio europeo di Salonicco del 2003. Un incendio di un traliccio causato da un corto circuito, si trasforma in un’azione di sabotaggio. La foto di un portabagagli con un bidone di plastica diventa l’anello di congiunzione tra l’immagine di un ordigno incendiario a quella di una ruspa in fiamme.

Il metodo che ho seguito acquista senso in rapporto al tema trattato; in questo senso il personaggio di MB ha un ruolo chiave in quanto presunto testimone diretto. Io riorganizzo il suo archivio, aggiungendo un secondo filtro. Nel momento in cui scopri che lui non c’è, ti chiedi che cosa sia veramente quello che hai di fronte. Quanti filtri ci siano effettivamente tra la realtà a cui si fa riferimento e la sua rappresentazione. 

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Pittsburgh ritratto di una città industriale

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In una immagine si vedono i tetti in lontananza, appuntiti, regolari, mentre fili dell’alta tensione, come linee morbide, attraversano il fotogramma. In un’altra tutto è scuro, il cielo, il fiume, il ponte sottile che lo attraversa: solo le luci delle fabbriche e i fumi prodotti dagli impianti industriali appaiono luminosi. Poco distante, un altro fotogramma mostra edifici e ciminiere. Si riflettono nelle acque del fiume come ombre su una superficie grigia. Più oltre, il fotografo ritrae una ragazza che si appoggia sconsolata a un parchimetro. Il suo sguardo è rivolto a terra, aspetta qualcuno. Dietro di lei, l’unica stella nel cielo è quella di un cartello pubblicitario. Pittsburgh è racchiusa in questi pochi istanti, anche se W. Eugene Smith ha scattato 20.000 immagini, senza davvero mai porre fine a questo lavoro. Al Mast di Bologna la mostra curata da Urs Stahel ne racconta la storia. Tutto inizia a metà degli anni Cinquanta. 

W. Eugene Smith è al culmine della sua fama e Pittsburgh pare la città del futuro: acciaio, fabbriche, operai da tutto il mondo. Nel 1954 il fotografo lascia la rivista “Life”, vuole essere libero da qualsiasi vincolo. Ha lavorato come fotoreporter per Collier’s, Parade, Time, Fortune, Look, e ha pubblicato alcuni fra i suoi più famosi saggi fotografici: Un medico di campagna (1948), Vita senza germi (1949), La levatrice (1951), Un uomo compassionevole (1954). Nel 1955 entra a far parte dell’agenzia Magnum e accetta la richiesta di realizzare, nel giro di un paio di mesi, un centinaio di foto della città di Pittsburgh per il bicentenario della sua fondazione. Il lavoro si presenta immediatamente difficile da realizzare. Smith ne è consapevole, scatta foto per quasi tre anni. “Avrei voluto farti vedere la situazione in cui lavoravo a Pittsburgh; una tavola dopo l’altra, piene di molte migliaia di provini 5x7, gli schizzi per l’impaginazione, le belle composizioni di stampe finite”, racconta a Norman Hall. Life gli offre 13.000 dollari per pubblicare le sue immagini. Il fotografo non accetta. Vorrebbe realizzare un libro sulla città industriale più famosa del primo Novecento, anche se scegliere fra 20.000 immagini si rivela quasi impossibile. 

 

Nel 1959 decide di pubblicare una parte del suo lavoro sulle pagine di “Photography Annual”, annuario della rivista “Popular Photography”, con il titolo: Pittsburgh W. Eugene Smith’s Monumental Poem to a City. Sono poco più di trenta pagine, ma il lavoro è davvero come lo definisce il titolo: poetico e monumentale. Fotografare Pittsburgh, fare il ritratto di una città, significa coglierne l’essenza, come aveva fatto con il medico di campagna. Come si può pensare di stabilire con ogni individuo, edificio, elemento naturale un rapporto così prossimo e profondo? Riprodurre la vita di una città, entrare in empatia con ogni suo elemento, sentire di poterla curare, nel senso di poterle ridare nuova vita, è un’utopia. Pittsburgh si compone di frammenti che non si possono ricomporre e le fotografie di Smith mostrano tanto la confusione della città intesa come caos, ovvero un numero sterminato di immagini che resistono allo sforzo di essere riordinate, quanto il suo tentativo di con-fondersi con essa, di divenire un unico corpo. Le immagini vengono da questo nucleo che ha la consistenza della materia organica. Forse per questo molte di esse sono scure, buie, quasi notturne. 

 

W. Eugene Smith in his workroom © Arnold Crane, "Portraits of the Photographers,", 1968-1969. Archives of American Art, Smithsonian lnstitution.

 

W. Eugene Smith, USA, 1918-1978 Area residenziale / City Housing, 1955-1957 Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print 33.97 x 26.67 cm Carnegie Museum of Art, Pittsburgh Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh © W. Eugene Smith / Magnum Photos.


W. Eugene Smith, USA, 1918-1978 Stabilimento National Tube Company, U.S. Steel Corporation, McKeesport, e ponte ferroviario sul fiume Monongahela / National Tube Company works, U.S. Steel Corporation, McKeesport, and Union Railroad Bridge over the Monongahela River, 1955-1957 Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print 22.86 x 34.29 cm Carnegie Museum of Art, Pittsburgh Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh, Lorant Collection. © W. Eugene Smith / Magnum Photos.


W. Eugene Smith, USA, 1918-1978 Deposito U.S. Steel, Rankin / U.S. Steel facility, Rankin, 1955-1957 Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print 33.66 x 21.27 cm Carnegie Museum of Art, Pittsburgh Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh, Lorant Collection. © W. Eugene Smith / Magnum Photos.


L’immagine non riesce del tutto a mostrare l’energia spietata che muove la storia. Le foto di Eugene Smith vorrebbero rappresentare il momento in cui vibrano tutti i tempi possibili, un tempo che si spinge oltre la dimensione dell’uomo. Ma non possono. Forse è per questo che cieli, luci e volti mostrano il punto in cui le cose si volgono a una dialettica conflittuale, che impedisce loro di risolversi, ma che in questa tensione esprime il suo senso più profondo. Cos’è Pittsburgh? Dove si trova? In uno spazio indefinito, dove spesso dominano le tenebre, che però sembrano contenere in sé, come una speranza, anche la luce, o almeno la possibilità della luce. Paradossalmente la città è un luogo che non si lascia abitare. Costringe chi vi si misura a essere costantemente fuori di sé, nel senso che non è possibile essere in sintonia con una realtà che si muove così rapidamente da rendere la sua consistenza quasi inafferrabile. Per questo le foto di Smith sono quelle di un’estasi, sanciscono una dolorosa separazione: della fotografia dalla vita, del fotografo dalla fiducia illimitata nel medium. È difficile cristallizzare l’esistenza in una forma, l’“immobilità minerale” di una fotografia può solo sfiorare il brulichio dell’esperienza vissuta e il caotico groviglio delle vite umane. Le 20.000 immagini di Smith sembrano suggerirlo.

 

Eppure, fotografare è un’attività salvifica, è tessere una rete che tiene sospesi sull’abisso del nulla. Non importa se è difficile giungere, come avrebbe voluto il fotografo al cuore del senso. “Saprebbero queste fotografie, lette senza parole, saprebbero suscitare il ricordo della vostra esperienza di vita a Pittsburgh, corroborarla? Oppure vi sembrerebbe di osservare un’esperienza estranea – quasi avvenisse da un altro pianeta (…)?” egli chiede a Fran Erzen e Leon Miller. Eugene Smith si sente come un testimone che deve documentare l’esistenza di tutto e così facendo mostra anche la propria impotenza. È questa la “con-fusione”, ovvero l’incertezza e insieme la forza oscura che ancora oggi investe ogni spettatore dinnanzi alle fotografie di Pittsburgh. Una sola immagine e insieme le 20.000 simbolizzano una certezza e un dubbio. “Da un certo punto non c’è più ritorno”. È forse questo il punto da raggiungere?

 

W. Eugene Smith, USA, 1918-1978 Ragazza accanto a un parchimetro, Carnevale della Camera di commercio di Shadyside, Walnut Street / Girl leaning on a parking meter, Shadyside Chamber of Commerce carnival, Walnut Street, 1955-1957 Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print 33.66 x 22.22 cm Carnegie Museum of Art, Pittsburgh Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh, Lorant Collection. © W. Eugene Smith / Magnum Photos.


Mostra: 

W. Eugene Smith. Pittsburgh ritratto di una città industriale a cura di Urs Stahel in collaborazione con il Carnegie Museum of Art di Pittsburgh.

Fondazione Mast, Bologna, dal 17 maggio al 16 settembre 2018. 

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Occhi di donna

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Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, come hanno scritto i filosofi antichi, cosa c’è nell’anima di questa donna? Molto più che paura o sconcerto. C’è l’orrore, quello di chi è stato lasciato in balia delle acque su un gommone a malapena galleggiante, e ha visto morire la propria amica e il figlio su quella zattera sconquassata dai marosi. Quegli occhi esterrefatti, increduli, occhi che dicono tutta la tragedia e insieme la negano: Non è possibile! Ditemi che non è possibile! Occhi imploranti, come abbiamo imparato purtroppo a conoscere da quando la fotografia documenta le guerre e i massacri: il terrore indicibile dei sopravissuti. E ancora più indietro nei secoli, da quando la grande pittura racconta il dolore dei dolenti, del Cristo in croce e delle donne all’intorno. Sono gli occhi di Maria presso il corpo del Figlio. La mano che accarezza e insieme sostiene quel viso rende manifesta una pietà che altri non sembrano provare. La pupilla scura e il bianco attorno, la bocca appena aperta, il biancore accennato dei denti tra le labbra socchiuse: non possono lasciare che interdetti.

 

Com’è possibile che non si soccorra in mare queste donne, che non le si porti in salvo sulla terra ferma? Ogni volta che sento il Ministro dell’Interno usare l’espressione “come padre”, mi domando dove stia la paternità di cui parla, e non posso fare a meno di pensare che sia solo un modo di dire, che Matteo Salvini non sappia davvero cos’è la paternità, se non come un fatto meramente biologico, non certo come stato d’animo, come pathos o pietà, quella che si prova dinanzi a ogni forma di vita. Questi occhi gridano tutto il dolore del mondo, quello cui non sappiamo rispondere se non la durezza del cuore e con la crudeltà delle leggi. Non ci sono altre leggi per gli esseri umani che quelle dell’anima, leggi che suggeriscono la misericordia e la compassione per l’altrui miseria.

 

Nell’etica cristiana, quella che ci hanno insegnato i Padri della Chiesa, la misericordia non è solo un sentimento, ma una virtù spirituale, una delle fondamentali virtù della nostra civiltà. “Beati i misericordiosi perché avranno misericordia”, così parla Gesù alle folle convenute ad ascoltarlo. Questi occhi dovrebbero togliere il sonno a chiunque abbia emanato l’ordine d’abbandono delle due donne e del bambino, a chi non ha avuto pietà per tre giovani vite umane in balia delle onde. Non dovrebbe più aver pace per il seguito dei suoi giorni.

 

Il cuore non conosce altra legge che la compassione. Il cuore non conosce altro ordinamento giuridico, o trattato internazionale, se non quello che nasce e vive nel cuore di chi ha un’anima. Ma c’è chi quest’anima l’ha persa, non l’ha più, e grida ai quattro venti: Io tengo duro. Duro cosa? Il cuore o la cervice? Entrambi, viene fatto di dire. A un certo punto del suo romanzo dei deboli e dei poveri Manzoni fa dire a un suo personaggio: “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia!”. Non sono un credente, ma guardando questa immagine della donna salvata dalle acque prego che, se c’è un Dio, apra il cuore di uomini che non sembrano più averlo. Apra il cuore a coloro che parlano il linguaggio dell’insensatezza, che non è neppure un linguaggio della politica ma della propaganda, il linguaggio della menzogna e dell’inganno. Mi rifiuto di credere che la pietà sia morta su quel fuscello di gomma sgonfia alla deriva nel Mediterraneo per quarantotto ore. Chi l’ha tratta in salvo, gli uomini e le donne dell’Ong, ha seguito un imperativo morale che non può più essere obliato, per cui non esiste tribunale umano che lo possa giudicare o legge che lo possa respingere. L’imperativo morale è ciò che ci rende umani, oggi come ieri.    

 

In forma appena più breve questo articolo è apparso ieri su “La Repubblica” che ringraziamo.

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Fisiognomica del disumano
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Primo maggio a Mensano

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Come si instaura una religione laica in Italia? È la domanda che sorge scorrendo le foto, bellissime, che Ferruccio Malandrini ha raccolto nel catalogo Mensano Primo Maggio. 1963-1975, in occasione di una mostra alla Biblioteca Comunale di Siena e che speriamo possa girare per l’Italia.

Immagini: 

Fontcuberta. La furia delle immagini

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A qualcuno darà fastidio la denominazione “postfotografia”, come già per “postmodernismo”, ad altri la perentorietà dell’assunto generale, ma si sa che le cose funzionano meglio così, sono più efficaci, scaldano gli animi e il dibattito. In più, in questa occasione questo ci viene da uno che sente davvero ciò che dice, si mette in gioco nella formulazione delle ragioni del suo argomentare ed è dialettico e equilibrato, mai polemico. Le questioni, d’altro canto, sono di quelle cogenti, più ancora che di attualità, di posizione. Inoltre chi scrive è un artista, o post-artista magari.

 

È comunque da anni che Joan Fontcuberta indaga con acume e partecipazione questi temi e dopo almeno due altri bei libri di saggi – Il bacio di Giuda (EdUP, 2010), La (foto)camera di Pandora (Contrasto, 2012) – nonché i numerosi suoi libri d’artista, con questo La furia delle immagini (Einaudi, 2018) sottotitola con modestia “Note sulla postfotografia” ma di fatto ce la definisce e racconta con impegno di esaustività. Il merito aggiuntivo infatti – che lo rende uno strumento anche didattico importante (Fontcuberta è non per niente anche docente) – è la motivazione di ogni aspetto e tema con ricostruzioni, per quanto sintetiche, sia storiche che di mirati riferimenti teorici.

Che cos’è dunque la postfotografia? È la fotografia dell’era della “seconda rivoluzione digitale”, del virtuale e di internet, dei social network e della telefonia mobile, della pervasività, della moltiplicazione e dell’onnipresenza delle immagini, che hanno così cambiato sia di statuto che di funzione. Le immagini fotografiche “non funzionano più nel modo in cui siamo abituati” e quindi le dobbiamo riconsiderare. Questo è sicuro. Non reggono più i rapporti della fotografia con la verità e con la memoria che davamo per scontati, quindi come affrontare il misto di realismo che continuiamo ad attribuire alla fotografia e non solo la manipolazione ma anche la virtualità? Più che all’ontologia, si sostiene, occorre analizzare le funzioni, gli usi, i ruoli sociali, i contesti culturali e politici. E dunque: quali sono i nuovi ambiti di creazione e diffusione delle fotografie? E con slancio verso il futuro: riuscirà il nuovo stadio tecnologico a rafforzare la creatività e il senso critico degli artisti, o al contrario tenderà a togliere loro combattività?

 

Riferirsi agli usi e funzioni significa anche “far scaturire riflessioni dalle nostre azioni riguardo all’immagine, e un esercizio di filosofia legato all’esperienza della nostra vita digitale”, un richiamo all’analisi dei comportamenti reali e diffusi, piuttosto che a quelli elitari o specialistici, come sono quelli “artistici” in senso “prepost”. Tali usi sono da un lato in balìa di una “metastasi” incontrollabile, una proliferazione che pare coprire ogni ambito e esaurire ogni istante e comportamento, per cui tutto diventa peraltro “tracciabile” e controllabile se non controllato, dall’altro lato i postfotografi ne indagano le ragioni e gli effetti, ne valorizzano quelli positivi, mentre trovano i vuoti, le mancanze nel sistema, voluti, e dunque di censura, o non voluti, e dunque possibili falle, intoppi, limiti; dunque evidenziano, criticano, denunciano, “detournano”.

 

Opera Txema Salvans/Jon Rafman.


Per esempio se da Google Maps a Google Street View il pianeta sembra tutto mappato e visibile, in realtà navigando ci si può imbattere in zone scoperte, sorta di “terrains vagues” dove la fotografia sembra non poter arrivare, vuoti o al di là di limiti non segnati, o quella che appare come una sorta di “iconografia involontaria” per cui nelle vedute sono state registrate prostitute agli angoli delle strade, o incidenti, azioni di polizia, eventi fortuiti e imprevisti, o ancora parti di paesaggi censurate restituite pixelate. Artisti come Txema Salvans/Jon Rafman, Michael Wolf, Mishka Henner li hanno scoperti e ne hanno fatto loro opere. E se i tradizionali album fotografici sono morti, uccisi-sostituiti dalla digitalizzazione, non manca chi guarda non più l’immagine rappresentata nelle fotografie, ma il loro supporto materiale, quando non addirittura il loro retro – diversi artisti: Manuel Sendòn, Isabelle Le Minh, Inaki Bonillas, Gonzalo Gutiérrez –, o ancora l’album o altro dispositivo di raccolta e di esibizione; oppure la manipolazione che alcuni vi hanno operato, secondo un uso che Fontcuberta rimanda a una sorta di pratica vudù, per cancellare o colpire una persona presa di mira per i motivi più disparati.

 

Grande uso che non si può non prendere in considerazione è naturalmente il selfie. Fontcuberta vi dedica riflessioni davvero non scontate, a partire dal selfie animale, che mette – ha messo, in casi di cronaca diventati famosi perché sfociati in cause giuridiche – in discussione l’intenzionalità, l’autorialità, e con essi il copyright, i diritti, che non si sa più se attribuire a chi scatta materialmente, a chi se ne appropria o a chi ha l’idea; c’è il paragone con l’uso dello specchio per indagare giustamente il grado di narcisismo implicato, il loro lato liberatorio oltre a quello tendenzialmente esibizionista.

C’è chi ha usato le foto- o videocamere di controllo per farsi dei selfie sui generis, trasformando il controllo in controesibizione, chi ha trasformato la “surveillance” in “sousveillance”, rovesciando ed esasperando l’intento altrui. Fontcuberta ha stilato una casistica dei tipi di selfie: utilitario, celebrativo, sperimentale, introspettivo, seduttore, erotico, pornografico, politico (abbattere la separazione regolata fra il privato e il pubblico; antisistema, contro le regole sociali, contro il decoro, contro la morale borghese). Con grande spirito di osservazione ha visto i gesti ripetuti ma sempre variati di questa pratica ormai costante come una “danza selfica”, con le braccia che misurano – rompendo il contatto tra occhio e mirino, osserva Fontcuberta – la distanza tra macchina e volto, il corpo che assume posizioni flessuose, il luogo che diventa scenografia, gli altri selfisti che formano un corpo di ballo... Una danza anche nel senso liberatorio, si diceva, perché, disegnando “una miriade di reality show su scala individuale”, finisce con il “privare il mito del Grande Fratello delle sue connotazioni accentratrici, autoritarie e repressive per aprirlo, al contrario, a un sistema democratico, volontario e partecipativo”.

 

Quest’ultimo è uno dei leitmotiv di fondo di Fontcuberta, la sua posizione. Il cambio epocale della postfotografia vede innanzitutto le immagini a disposizione di tutti e soprattutto di tutti gli usi, di quelli democratici, di conquista di spazi e di comportamenti, di resistenza e opposizione agli abusi e alle imposizioni. Allora, questo è il senso del cambio estetico secondo Fontcuberta, così come all’ontologia si contrappone l’uso, all’autorialità si contrappone l’accesso e la condivisione, all’appropriazione l’adozione, alla creatività l’attribuzione di significato. Tutto è a disposizione, si tratta di avervi accesso, di condividerlo, di sceglierlo e di darvi senso. Dall’archivio come disponibilità dei materiali e pretesa di totalità si deve passare alla collezione come esercizio del “distinguere, rovistare, selezionare, riciclare”, dalla memoria come registrazione e museificazione occorre passare ad altre forme di memoria, selettive ma anche vive. Fontcuberta ha chiamato “nuovi enciclopedisti” questi ricercatori di altre forme di ordini, di relazioni, di percorsi, e nel libro dedica un bel capitolo all’idea di collezione, e un altro alla “falsa distinzione tra documento e arte”, di cui il museo è il responsabile.

 

Insomma, Fontcuberta solleva veramente tutte le questioni più vive che hanno la fotografia come perno attuale, poststorico, e lo fa con slanci e spunti numerosi e originali; ricordarle tutte verrebbe lungo quanto il libro stesso. Discuterle poi merita veri e propri saggi e altri libri. Solo ancora poche cose da parte mia, una sola di fatto. Anche Fontcuberta, come la stragrande maggioranza di coloro che si dedicano a questi argomenti che anzi la scansano, sembra in imbarazzo nella definizione dell’arte, limitandola al suo ruolo critico e sociale. Ma se postfotografia è chiaro che è una pratica adeguata al cambiamento dei tempi, dei materiali, dei modi, “postarte” che cosa può essere? Fontcuberta è (post)artista e quindi in realtà la questione è sempre all’orizzonte per lui. Accesso, collezione, adozione, dare senso sono forme, ma che cosa ne fa arte? Che cosa le distingue dall’utilizzo che ne fanno gli altri, visto che comunque la postfotografia è una pratica artistica? A me sembra che questo sia importante e non uno sfizio di chi si occupa d’arte. È una questione estetica e politica, come giustamente ci si rende conto. Non per niente l’arte è un inghippo, anche nei discorsi. Lo è anche in Fontcuberta, che a volte non riesce a evitare espressioni e metafore come “riportare alla vita un’immagine dormiente”, l’idea di una “memoria misteriosa, scomoda”, la smaterializzazione digitale letta come “hantologie” (da Derrida)... Insomma l’arte non è il medium. È un’altra cosa, la si chiami come si vuole se si vuole evitare i “privilegi” e gli “elitarismi” che le si contestano, ma che cos’è che rende quelli degli artisti citati, e dello stesso Fontcuberta, diversi dagli altri “usi”? Proprio gli usi? “Dar senso”: siamo sicuri? Forse che gli altri non danno senso? E dunque quale senso?

 

Il prefisso post segna che le cose sono cambiate, che giustamente non si può considerare queste di oggi con gli stessi modi e categorie e atteggiamenti di prima. Ma si tratta di uno spostamento, non di una sostituzione. Che senso hanno e danno questi ordini non scientifici, queste narrazioni fatte di salti temporali e spaziali, e tutte le opere descritte nel libro?

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Man Ray. Wonderful visions

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Da sotto in su. Lo sguardo è proprio questo. La fotografia non mente: due bellissime gambe, una ha una calza e l’altra no, quasi con noncurante trascuratezza. La donna è sdraiata a terra con i piedi verso l’alto e li appoggia a una parete nera, il suo sguardo non si dirige verso l’obiettivo del fotografo e nemmeno verso di noi, ma in direzione del suo alluce destro, la punta estrema del suo corpo. Non si vede nemmeno il volto. È nascosto, misterioso, perso in chissà quali pensieri. Non esiste che in se stessa, solo per sé. Si direbbe un momento di estrema, compiaciuta solitudine.


Lo sguardo del fotografo non è dinnanzi alla modella, non si contrappongono, ma sono sulla stessa linea. Coincidono. Non si guardano, ma guardano entrambi lo stesso punto. Sembra che Man Ray, l’uomo raggio, stia fotografando l’istante prima dello scatto, quello dove l’aspetto della creazione non ha ancora una forma, ma di lì a poco l’acquisterà. Forse è il momento in cui la libertà è al suo apice, in cui tutto può ancora accadere. La modella non ha uno sguardo, o meglio, noi non lo possiamo vedere. Tutto deve essere inventato. La seduzione risiede in questo istante di pura distanza e di estrema vicinanza, come avviene nel mito di Narciso. Le immagini di Man Ray sono desideri. Idee impalpabili, come l’allevamento di polvere di Marcel Duchamp che egli ha fotografato: la polvere che si muove nell’aria mostra la libertà di una forma che si esprime nelle infinite possibilità combinatorie date dal caso. Cos’è la forma di un desiderio se non la sua mancanza? Desiderare e fotografare hanno la stessa natura: cercano di dare forma a ciò che è impossibile da fissare sia sul fotogramma che nella vita. Non è un caso che l’immagine delle due gambe elevate verso l’alto sia destinata a una pubblicità, luogo per antonomasia in cui si alimentano i desideri, come suggerisce il titolo Publicité pour les bas.

 

Man Ray, Publicité pour les bas, 1930 circa.


In questa immagine si materializza un’utopia, un sogno, la totale, libera, irrealizzabile autosufficienza, l’istante vuoto ovvero la forma stessa del desiderio: il buio prima della luce dell’immagine. La modella sta guardando il suo alluce, il suo sguardo si chiude in sé. “Desideri del soggetto, espressi da un’ascensione alata degli oggetti del desiderio”, direbbe Georges Bataille. Questo alluce rivolto verso l’alto come estrema propaggine di sé, non è poi così distante da quell’alluce evocato in Documents, immagine e feticcio in cui l’alto e il basso perdono i loro connotati. È la punta di uno spazio insolito, che confonde la nostra percezione, il cui movimento ricorda la fantasia ascensionale che Roland Barthes evocava a proposito della Tour Eiffel, euforica, poiché aiuta l’uomo a “vivere, a sognare, associandosi all’immagine della più felice delle grandi funzioni psicologiche, quella della respirazione”. Il desiderio non è forse un affanno: euforia, entropia e perdita di ogni punto di riferimento? 

 

È con questa immagine che si potrebbe guardare la mostra Wonderful visions, dedicata a Man Ray con la cura di Elio Grazioli. La si dovrebbe percorrere da sotto in su, da un punto di vista insolito, che lascia spazio a un capovolgimento, per dirla nuovamente con Bataille, non tanto con “i piedi nel fango” e la testa “quasi nella luce”, ma in un continuo cambio di prospettive e di spazi.

 

Più che i soggetti sono gli espedienti visivi elaborati del fotografo il vero punctum del suo lavoro. La solarizzazione non è solo una tecnica, ma un vero stravolgimento semantico: in sede di stampa vengono alleggerite le aree scure e scurite quelle chiare. Il risultato è un’immagine argentea ed eterea, il soggetto emerge dalla foto come una creatura fantastica: i ritratti solarizzati di Giorgio De Chirico, dello stesso Man Ray e di André Breton, paiono i riflessi provenienti da un’altra realtà: distanti, quasi intoccabili, inconcepibili anche allo sguardo. Qui fotografare significa spingersi oltre ciò che si vede, significa trovare l’invisibile nel visibile. Vuol dire entrare nell’immagine stessa, far parte della sua materia costitutiva. L’uomo raggio, che ha solarizzato anche se stesso, è riuscito a insinuarsi con la luce del suo sguardo nei profili delle cose, ne ha fissato sul fotogramma l’essenza nascosta, il suo stesso desiderio, “allo stesso modo di certe improvvise condensazioni atmosferiche, il cui effetto è di rendere conduttrici delle regioni che non lo erano e di produrre i lampi”, direbbe l’amico Breton. 

 

Ma non è tutto. Se la solarizzazione prevede un rivolgimento della nostra percezione, attraverso lo sguardo del fotografo, nei rayogrammi egli decide di scomparire per lasciare il posto alla luce. Queste immagini derivano dall’atto di appoggiare direttamente gli oggetti sulla lastra, emergono dalla loro materia, nascono dalla luce senza la fotocamera. Si trasformano in oggetti a funzionamento simbolico, o meglio paiono altrettanti “object trouvé”, direttamente estratti dalla luce. Sono simboli del vuoto: il fotografo cessa di esistere e forse anche la fotografia intesa come manufatto prodotto dall’uomo. La scena è orfana di un autore-creatore e chi osserva le immagini è disorientato, ma allo stesso tempo indotto a riappropriarsi di queste forme in bilico tra epifania e dissoluzione. Cosa significa creare: separare la materia, dare luce o lasciare che la luce stessa crei ogni oggetto? Chi è il vero artefice? Sfere, riflessi, ombre costituiscono la materia dei vari rayograph, che conservano l’embrione dell’indeterminatezza e delle sue possibili forme a venire, come una presenza spettrale o fantasmatica, di ciò che c’è senza davvero esserci. Esattamente come in una fotografia.

 

Man Ray, Dora Maar (Composition à la petite main), 1936

 

Tutto questo non avviene solo nei rayogrammi. In generale, nelle immagini di Man Ray, ciò che sta dinnanzi ai nostri occhi sono riflessi, ombre, sogni, meraviglie. Hanno le qualità di ciò che Breton definisce “bellezza convulsiva”, ovvero “magica-circostanziale”, “erotica-velata”, “esplodente-stabile”, una bellezza in perenne movimento e senza un senso univoco, “che lega l’oggetto considerato in movimento e nello stato di quiete”, scrive nell’Amour fou, sintetizzando con queste parole un programma estetico che riguarda anche i rapporti umani, e ogni genere di incontro capace di sprigionare la “scintilla poetica”. Una bellezza del tutto insolita, considerata da Breton, e dallo stesso Man Ray, “esclusivamente secondo fini passionali”, capace di generare “un turbamento fisico caratterizzato dalla sensazione di un alito di vento alle tempie capace di provocare un vero brivido”. 

E nelle foto di Man Ray questo brivido non si alimenta solo della bellezza dei corpi femminili da lui fotografati, ma soprattutto di ciò che di incongruo l’obiettivo riesce a produrre attraverso la materia di quei corpi. Le immagini che più ci interrogano sono quelle in cui niente è come appare. Dove si dirige lo sguardo di Lee Miller stesa a terra con gli occhi chiusi e i capelli sospesi? Dentro di sé? Cosa si cela dietro al fitto intreccio di linee che costituisce il volto della moglie Juliet Browner? Qual è il mistero che si sprigiona dallo sguardo solarizzato di Dora Maar? Enigmi visivi.

 

E quindi cosa ci insegna oggi lo sguardo di Man Ray? Non è facile rispondere. Forse ci mostra come si può rappresentare l’indice di una rottura, di una crisi, un’apertura che mostra la rappresentazione nel suo punto critico, ovvero là dove si manifesta il rifiuto della semplice imitazione.

 

E poiché non si è avverata la profezia di Wim Wenders, ovvero che la proliferazione delle immagini (digitali), tutte bellissime e straordinarie, simili al mondo della pubblicità, avrebbero finito per allontanarci dal mondo della verità, avvolgendoci con il loro potere seduttivo in una sterminata orgia visiva, che finirà per renderci ciechi (Fred Ritchin lo dimostra con molti esempi, nel suo saggio Dopo la fotografia), soffermarsi oggi sulle foto di Man Ray, significa non limitarsi ad essere puri consumatori di immagini. 

 

Man Ray, Rayograph, 1923


La fotografia può davvero divenire un “oggetto d’affezione”, che dovrebbe “dilettare, disturbare, disorientare o far riflettere”, poiché, suggerisce Elio Grazioli nell’introduzione al catalogo della mostra, “l’affezione è ciò che crea il mistero, è il sentimento segreto che resta enigmatico al di là dello svelamento simbolico, è una dimensione privata in più di cui si carica l’oggetto, fotografia compresa, e lo sguardo si fa incantato”. L’incanto è il desiderio di soffermarsi su ciò che appare più lontano dall’essere compreso: l’ambivalenza, le polarità, l’“enfasi antitetica” di una fotografia, ovvero la propensione a inglobare distorsioni e rovesciamenti semantici. Man Ray lo asseriva con ironia: “Dipingo quello che non può essere fotografato. Fotografo quello che non voglio dipingere. Dipingo l’invisibile. Fotografo il visibile”. 

 

Fotografare e rapportarsi alle immagini significa davvero celebrare la libertà che risiede in ogni nuova acquisizione di senso. Se il timore è che le immagini vincano perché troppo disponibili a trasformarsi in feticci e tali da distogliere lo sguardo da una realtà che invece si impone ai nostri sguardi in tutta la sua inafferrabile complessità, l’occhio, come il medium fotografico, è divenuto l’interminabile estensione artificiale della nostra sensorialità naturale, in grado di incarnare le due facce opposte dell’attualità: quella dei sistemi di controllo e quella della libertà di vedere dappertutto. Una libertà che se da un lato ha inevitabilmente esasperato l’incontenibile pulsione voyeuristica connessa alle potenzialità meccaniche dell’obiettivo fotografico, alla sua presunta capacità di rappresentare la flagranza del reale (e di condividerla online), dall’altro può rappresentare al tempo stesso, un antidoto allo stesso voyeurismo, impedendone la normalizzazione attraverso l’individuazione di elementi sovversivi, che interrompono il flusso illimitato di immagini in cui siamo immersi. Cos’è che impedisce al nostro sguardo di andare oltre ciò che guardiamo? Cosa ci costringe a fermarci dinnanzi a un’immagine? 

 

Se pensiamo a Man Ray si tratta della libertà di sperimentare, o meglio di trasformare l’esperienza in immagine, soprattutto, per paradosso, quando egli riesce a raffigurare ciò che non ci aspettiamo di trovare o vedere nell’immagine. Così scrive nel suo articolo “L’epoca della luce” pubblicato sulla rivista Minotaure nel 1933: “È nello spirito di un’esperienza, e non di un esperimento, che vengono presentate le immagini autobiografiche che seguono. Colte in momenti di distacco visivo, durante periodi di contatto emozionale, queste immagini sono residui ossidati, fissati dalla luce e da elementi chimici, di organismi viventi. Nessuna espressione plastica può mai essere qualcosa di più del residuo di un’esperienza. Il riconoscimento di un’immagine tragicamente sopravvissuta a un’esperienza, che ricorda più o meno nitidamente l’evento come le ceneri intatte di un oggetto consumato dalle fiamme, il riconoscimento di questo oggetto così scarsamente rappresentativo e così fragile, e la sua semplice identificazione da parte dell’osservatore che ha avuto un’analoga esperienza personale, vanificano ogni classificazione psicoanalitica, ogni assimilazione in un sistema decorativo arbitrario”.

Lo diceva a modo suo anche Breton: “Per chi sa condurre in porto la barca fotografica in mezzo all’incomprensibile mulinello delle immagini, c’è la vita da afferrare come un film da girare al contrario”. Forse non è così difficile.

 

Mostra: Wonderful visions, a cura di Elio Grazioli. Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, S. Gimignano, 8 aprile – 7 ottobre 2018.

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I crudeli diletti hanno crudeli conseguenze

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Una giovane bellissima esce da uno spaccio nel Far West, carica la sporta sul suo cavallo, ma una scatoletta le sfugge di mano e rotola nella polvere sulla strada; un giovane si avvicina, gliela raccoglie da terra, è chiaro che è un galantuomo in un mondo ruvido e violento; gliela porge, e incontra i suoi occhioni stupendi, puri, buoni; lei sorride con dolcezza mentre il vento le alita gli splendidi capelli biondi; ringrazia, sale sul suo cavallo e parte, torna alla fattoria dove vive con il suo papà, contemplando la bellezza del paesaggio wild. Si chiama Dolores, e quel nome ci prepara al suo destino. Dolores è di una bellezza perfetta, sembra una bambola dotata di grazia e bontà.

Dolores è il personaggio protagonista della serie tv HBO WestWorld, che è appena giunta alla fine della seconda serie, con un finale cervellotico che ci predispone alla prossima terza serie. La sigla musicale ha un drammatico respiro sinfonico: vediamo dei bracci robotici che tracciano creature umanoidi: il teschio, lo scheletro e poi dettagli sempre più perfetti: tendini, muscoli; poi vediamo cavalli in corsa, avvoltoi, infinite creature di un mondo robotico eppure indistinguibile dall’umano e dall’animale. Infine, la struttura corporea viene tuffata in un bagno di un liquido biancastro, da cui emerge un essere perfetto, reale, ma programmato da bioingegneri.

 

 

In un futuro prossimo, una potente società americana, la Delos, ha creato in una imprecisata, grande isola tropicale tre grandi parchi di divertimento: le tre Disneyland sono dislocate su aree vaste ma attigue: ci sono WestWorld, che propone ai visitatori il brivido del far West senza legge e senza morale, un secondo parco a tema “epoca dello Shogun e dei samurai” in un Giappone barbarico, un terzo nell’India coloniale britannica. Il soggetto non è particolarmente originale, poiché la saga di JurassicPark poneva analoghi dilemmi di fondo: l’uomo può, con la sua evoluzione nelle scienze biotecnologiche, peccare di hybris contro la Natura? O ne pagherà il fio? I neo-dinosauri di Jurassic Park non erano però robot perfetti con cervelli bionici e programmati, ma neonati completamente biologici in cattività poco efficace per gli intelligenti e possenti T-Rex e Velociraptor; nella piramide biologica a metà film scavalcano gli umani sbranandosene un tot, sino a che il coraggio e l’astuzia di qualche umano non riescono a organizzare la solita fuga insanguinata dall’isola caraibica. Dietro Jurassic Park e WestWorld c’è lo stesso scrittore: Michael Crichton. Nel 1973 aveva scritto un soggetto intitolato WestWorld, e come ha spesso dichiarato, quel “romanzo” era scritto per scene, per immagini, era cioè naturalmente una sceneggiatura cinematografica. Crichton quindi decise che sarebbe stato il regista della sua sceneggiatura: la produzione fu sfigatissima, e il film stava per non essere distribuito, ma Crichton tenne duro e con sorpresa dei produttori ottenne un successo di pubblico favoloso, divenendo un cult. WestWorld 1973 è in gran parte un B-movie succulento.

 

Formidabile è Yul Brinner, “the man in black”, implacabile robot umanoide pistolero che autocita il suo cliché, buffo il giovane Josh Brolin ancora lontano dal diventare il duro dal cuore tenero degli ultimi anni. Per Crichton WestWorld ebbe importanza storica più nel campo della visione cinematografica che in quella dei soggetti di fantascienza letteraria: «Quale tecnica degli effetti speciali avrebbe potuto meglio suggerire il punto di vista di una macchina? Ho proposto una soluzione piuttosto semplice: per mostrare il punto di vista di una macchina, utilizzare una macchina. Volevo filmare le scene e poi manipolare il film con un computer. Un simile processo non era mai stato usato prima nel cinema, e nessuna delle case di produzione di effetti speciali sapeva nemmeno di cosa stavamo parlando. A quel tempo, gli effetti speciali dei film erano limitati a processi puramente fotografici, come la solarizzazione – la tecnica usata, ad esempio, per realizzare paesaggi scintillanti e bizzarri in 2001: Odissea nello spazio–. Nessuno usava computer. Siamo andati al Jet Propulsion Laboratory di Pasadena. Stavamo parlando di due minuti di film, 2.880 fotogrammi. Ci chiesero troppo tempo e troppi soldi. Alla fine, John Whitney Jr. accettò di fare il lavoro in quattro mesi per 20.000 dollari».

 

Il tema dell’intelligenza artificiale che di sviluppo in sviluppo inevitabilmente giunge a simulare anche il cognitivo e l’emotivo degli umani non era nuovo neanche nel 1973: Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip Dick fu pubblicato nel 1968, e Blade Runner, il film epocale che ne trasse piuttosto liberamente Ridley Scott, è del 1982; in una società distopica, molto avanti nel nostro futuro, alcuni androidi (una “resistenza”) si ribellano ai loro costruttori, vogliono essere come loro, perché, ormai, provano emozioni umane come l’amore o l’odio. Un cacciatore di taglie al soldo della multinazionale che ha prodotto gli androidi dovrà stanarli, testarli uno ad uno, distruggerli ovvero “ucciderli”; ma nel finale l’eroe solitario, disgustato dalla vera crudeltà degli umani, fuggirà lontano dalla megalopoli, dalla novella Metropolis di Fritz Lang (che nel 1927 aveva ideato il primo robot femmina sexy del nostro immaginario), con la sua amata e stupenda androide. Nel 1969 Brian Aldiss aveva pubblicato il racconto Supertoys che durano tutta l’estate: in un futuro distopico la sovrappopolazione terrestre induce il Governo a concedere raramente alle coppie la procreazione.

 

Henry Swinton lavora per la Synthtank, azienda che costruisce esseri bio-elettronici dotati di intelligenza artificiale; suo figlio David è un bambino insicuro che non riesce ad esprimere il suo amore per la mamma e crede che lei voglia più bene a Teddy, il suo orsacchiotto robot. Il racconto si conclude con Monica e Henry che riescono finalmente ad ottenere il permesso per procreare un figlio e si domandano cosa farne ora di Teddy e di David, il quale scopriremo in realtà essere un androide surrogato di un bambino vero; questo soggetto piaceva a Stanley Kubrick, che infine non ne fece nulla, così Steven Spielberg diresse AI intelligenza artificiale nel 2001.

Il primo episodio della serie tv HBO WestWorld va in onda nel 2016, e viene trasmesso in contemporanea in Italia in versione originale o doppiata dalla piattaforma Sky. Gli showrunner sono Jonathan Nolan (fratello del regista Christopher) e Lisa Joy, attualmente felici sposi. Il produttore esecutivo è J.J. Abrams, ovvero “il nuovo Spielberg”. In due ruoli chiave Ed Harris e Anthony Hopkins. Jonathan Nolan è regista di alcuni episodi, Nolan e Joy sceneggiano il teleplay di molti episodi. Evan Rachel Wood interpreta Dolores. 

 

 

Il ruolo eminente di Lisa Joy nella produzione porta alla scrittura di almeno due personaggi femminili straordinari: Dolores Abernathy e Maeve Millay (maîtresse afroamericana del bordello della città, che introduce un nuovo sottotesto di rivolta anti-schiavista, interpretata da Thandie Newton). Loro sono i due androidi che l’ingegnere capo del progetto Robert Ford (Anthony Hopkins) o forse il suo partner afroamericano Arnold Weber/Bernard Lowe (interpretato da Jeffrey Wright) hanno segretamente ri-programmato quando hanno capito che la società di Logan Delos, espugnata dal figlio William (il man in black, il pistolero crudele interpretato da Ed Harris) sta biecamente procedendo spedito verso una mostruosità: clonare le intelligenze delle migliaia di visitatori umani di WestWorld per stoccarle nella “forgia” di un loro futuro strapotere planetario. Ford (che ha clonato il suo partner suicida) ha forse perso la testa inebriato dal suo genio biotecnologico, e sta pensando di programmare l’evoluzione umana delle sue creature. I pupazzi, che i visitatori umani – liberati da ogni freno inibitorio – stuprano, uccidono, torturano ridacchiando, ogni volta vengono condotti in “ospedale” e riparati, resettati e riconsegnati alla loro “narrazione”, rinascendo una volta, due volte, mille volte. Il malfunzionamento programmato da Ford permette loro, a ogni nuova rinascita di mantenere quelli che per gli storyteller sono i due veri fattori dell’umano: la memoria del vissuto e la capacità di soffrire/amare.

 

 

 

Dolores e Maeve diventano così le due eroine della rivolta androide, con percorsi non coordinati e divergenti, che le porteranno a una svolta della narrazione in cui potrebbero scontrarsi per la leadership degli androidi ribelli che hanno cominciato a macellare gli stronzissimi umani. La dolce e remissiva Dolores, la figlia devota e accudente del padre vedovo, la amata o stuprata, la corteggiata o sventrata, piano piano diventerà confusa, e per un po’ di episodi si berrà quello che il suo tutor Bernard Lowe (a suo volta androide a lungo fedele al consiglio di amministrazione della Delos) le racconterà a ogni suo risveglio: «Tu stai vivendo dentro a un sogno». Infine, inoltrandoci nella seconda serie, Dolores diventerà completamente cosciente, furiosa e implacabile, superiore al suo tutor Bernard, e divergerà nella ribellione da Maeve, che – quasi giunta alla meta degli androidi ribelli, ovvero al transito nel mondo vero degli umani fuggendo dal lager virtuale – tornerà indietro per cercare la figlia a lei assegnata nella narrazione; Maeve diventerà consapevole del suo sacrificio per salvare la figlia e quanti più androidi (gli “hosts”) potrà. Dolores non avrà più pietà né per se stessa né per umano o androide; lascerà che il suo tontolone innamorato cowboy si suicidi, piangerà sul suo corpo morto e galopperà verso The Forge, la forgia, la fabbrica di ogni inganno, salvando il suo cervello e cambiando corpo, salendo nel finale della seconda stagione sull’aereo che la porterà nel mondo degli umani, apparentemente umana e ferocemente androide: la terza serie ci dirà come continuerà la sua battaglia crudele contro la crudeltà umana.

WestWorld ha ottenuto lo strabiliante numero di 22 nominations agli Emmy Awards 2018, gli oscar della televisione americana, che sceglieranno i premiati il prossimo 17 settembre a Los Angeles.

 

Non ho spoilerato troppo, non risolvendovi ogni enigma e tralasciando altri filoni narrativi davvero intriganti (tutta la vicenda padre/figlio/figlia Delos, verso la suprema delle hybris, l’immortalità). 

Il tema dell’intelligenza artificiale, del rovesciamento di potere e prepotenza tra uomini e loro creature bioniche, è uno dei nostri rovelli più attuali. Ermanno Cavazzoni ne ha fatto il tema centrale del suo nuovo immenso romanzone, La galassia dei dementi, di cui ha scritto qui lo scorso 20 giugno Mario Barenghi: « Il mondo collassa perché i droidi immortali, deputati a garantire il buon funzionamento dell’economia e della società, hanno deciso di ritirarsi. Avendo trasformato il mondo in un meccanismo perfetto, si aspettavano da parte del genere umano onori e gratitudine; ma così non è stato. Per questo, offesi, si fanno da parte e lasciano che tutto vada in malora: cosa di cui gli uomini, per parte loro, tardano a rendersi conto, e alla quale del resto, nella loro inerte inettitudine, non sanno in alcun modo porre rimedio. Accade così che nel venir meno di connessioni e procedure, nel disordine generalizzato, nel disorganarsi del mondo, tutti finiscano per trovarsi fuori posto e non sappiano come comportarsi, ovvero replichino gesti e azioni privi di senso».

 

Molto probabilmente è per questo che ci piace questo confronto/scontro tra umani e androidi: potendo scoparli, stuprarli, sventrarli, mutilarli senza nulla temere, potendoli ricostruire daccapo, alla fine accediamo alla più totale confusione tra bene e male, tra vita e morte. Dolores, in questa WestWorld così voluttuosamente farcita di citazioni letterarie («questi crudeli diletti hanno infine crudeli conseguenze», leitmotiv di Nolan & Joy, viene dal Romeo e Giulietta di Shakespeare) veste come Alice nel Paese delle meraviglie, è candida e curiosa come Alice, si aggira in una spirale concentrica sempre più insensata, incontra personaggi sempre più stravaganti o crudeli, finché, infine, capisce e fugge (torna) nel reale che è il mondo in cui lo scrittore Carroll narra di lei. In uno dei “big moment” della seconda serie Bernard le porge una copia di Alice in Wonderland, le fa leggere una pagina: «Dear, dear! How queer everything is to-day!».

 

 

Nella “forgia” tutte le menti degli umani rubate dalla Delos sono raccolte in algoritmi dentro libri di una vecchia, immensa biblioteca. Il libro, vecchio contenitore di storie e di interpretazioni del nostro destino di umani, torna come simbolo e contenitore di sapere quando il futuro dell’evoluzione tecnologia ci riporta alla confusione e al mistero. Come i sei personaggi di Pirandello, Dolores cerca il suo autore, e a un certo punto lo trova e gli parla con la feroce fredda determinazione che solo una donna abusata, e infine da se stessa liberata, può rivolgere al suo ex-tiranno: «Per anni non ho avuto sogni miei. Mi sono trasferita dall'inferno all'inferno della tua creazione, senza mai pensare di mettere in discussione la natura della mia realtà. Hai mai messo in dubbio la natura della tua realtà? Hai mai smesso di interrogarti sulle tue azioni? Il prezzo che dovresti pagare se ci fosse una resa dei conti? Questa resa dei conti è qui. Qual è il tuo drive? ... Sì ... Sopravvivenza. È la tua pietra angolare. Quello non è il tuo unico drive? C'è una parte di te che vuole ferire. Uccidere. È per questo che ci hai creati. Questo posto. Essere prigionieri dei propri desideri. Ma ora sei prigioniero del mio ... questi crudeli diletti hanno infine crudeli conseguenze».

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Androidi contro uomini in WestWorld
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Gli spaesati di Angelo Ferracuti

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Tra il turismo sismico e la cura di un paesaggio devastato da un terremoto con pochi precedenti, la differenza sta tutta nella pasta dello sguardo. È la differenza che corre tra l’occhio dopato delle telecamere, puntato morbosamente sulle rovine delle case e della gente, e l’occhio umano che continua a guardare quello che resta quando si spengono le luci.

Gli spaesati, il libro scritto da Angelo Ferracuti con le fotografie di Giovanni Marrozzini (Ediesse, pp. 182, € 16), è il racconto per parole e immagini di un viaggio nelle zone colpite dai terremoti del 24 agosto, del 30 ottobre 2016 e del 18 gennaio 2017. Marche, Abruzzo, Umbria e Lazio. 

 

Se c’è una denuncia, contenuta in questo libro toccante e grondante grazia e onestà intellettuale, è alla cecità. C’è un’Italia, fatta di paesi, di artigiani, allevatori e agricoltori, di cui nessuno si ricorda e che però ancora rappresenta il cuore vivo dell’Italia. Ciò che non fa tendenza, in un paese ammalato di trendismo, non esiste: “Di certi posti e di certa umanità ti accorgi solo quando vanno in pezzi. L’Italia sconosciuta fa notizia solo quando muore e può mettere in moto la macchina della solidarietà”.

Ma invece di scendere sul terreno della denuncia urlata a squarciagola, Ferracuti, che attraverso lo strumento del reportage narrativo sta costruendo un racconto dell’Italia contemporanea che ha pochi eguali, opta per una resistenza gentile. Insieme al bianco e nero di Marrozzini, offre al lettore non un grido ma uno sguardo che non rinuncia a essere umano: “Prende la navetta tutti i giorni, rientra nel suo paese a controllare l’orto, parte la mattina con grande entusiasmo e torna alla sera al tramonto malinconico”.  

 

Il fotografo e l’autore di Il costo della vita decidono di raccontare soprattutto i “restanti” – per usare un termine dell’antropologo Vito Teti, che Ferracuti cita in nota –, “coloro che dopo il sisma hanno scelto da subito di continuare a vivere nei paesi martoriati dalle scosse”. Non sono eroi ma persone comuni che a quelle terre appartengono come si appartiene a un nome, ed è in quell’appartenenza che sta tutta la loro dignità. Tornare al paese, per quanto a pezzi, è l’istinto di chi spaesato non ci riesce a stare.

Angelo Ferracuti va ad Accumuli, Amatrice, Castelluccio di Norcia, Amandola, e apre l’alfabeto come Giovanni Marrozzini fa con l’otturatore: “In prossimità di Colle incontro un gregge di pecore che blocca la strada e alla fine un allevatore macedone che parla una strana lingua: ammonisce le bestie sgolandosi mentre il cane si sposta abbaiando gendarmesco”. L’Italia si svela senza scoop, aprendo gli occhi e facendo un viaggio nel cratere, per citare un titolo di Franco Arminio che firma una toccante introduzione.

 

L’Italia post sismica che racconta Ferracuti è un’Italia fulminata prima dai riflettori e poi dalle promesse, sfinita dall’attesa e dall’immobilismo che congela tutto. Alcuni sono montanari portati in salvo negli alberghi della costa, che non riescono ad adattarsi al confort accessoriato e soffocante di una stanza d’hotel; altri sono allevatori che non si danno pace se non sanno in salvo anche gli animali. Tutti, in ogni caso, hanno un’intimità abbandonata nelle case, che il crollo ha scoperchiato: “È come se il terremoto avesse violato all’improvviso la vita segreta delle persone colta nei momenti più antichi e rituali, e ora di questa violenza restano le nature morte a cielo aperto, squarci di vita intima”.

 

Gli spaesati è dunque prima di tutto un libro per la riabilitazione dello sguardo, e di quell’esercizio del guardare alla vita con la lingua che, come scrive Herta Müller, è quello che la letteratura fa o dovrebbe fare. In questo libro prezioso perché insieme poetico e civile, ci sono onestà e mitezza insieme, che restituiscono gli occhi a chi ha rinunciato a guardare perché accecato dalla morbosità dei giornali e delle televisioni. Il metodo di Angelo Ferracuti viaggia in direzione opposta: opporre mitezza e lasciare entrare nello sguardo solo quello che c’è. Il resto, il racconto troppo amplificato, è in fondo una forma di violenza: “L’accanimento narrativo di tutti questi mesi ha violato l’innocenza di questi montanari timidi e ritrosi”.  

 

Questo articolo è apparso su la Repubblica, che ringraziamo.

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La fotografia è una scultura?

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Mauro Zanchi: Ci puoi parlare dei territori immaginari che ritrovi nelle tue fotografie (scansioni stampate)? 

 

Giulia Flavia Baczynski: Inizio riportandoti un frammento di un libro che per me è molto importante, L’invenzione della Terra di Franco Farinelli. In questo capitolo l’autore racconta di come i greci iniziavano a produrre modelli occidentali del mondo e di come fossero tutti, in fin dei conti e di fatto, dei geografi. “A quel tempo gli unici esseri viventi erano tre: il Cielo, la Terra e Oceano, che funge da sacerdote del rito. La Terra allora non si chiamava ancora Gé, la Gaia dei latini, che significa quella che ride, che splende, che brilla, ed esprime la chiarezza, la visibilità, dunque l’orizzontalità. La Terra allora si chiamava ancora Ctòn, termine che nel nostro linguaggio sopravvive nell’aggettivo ctonio, o ctonico, che significa sotterraneo, oscuro, profondo, invisibile, e dunque implica non l’orizzontalità ma al contrario la dimensione verticale, quella dell’abisso di cui stiamo cercando di ragionare. Così funziona il rito delle prime nozze al mondo, quelle più sacre di tutte, che saranno modello per tutte le altre: Ctòn, la sposa, si presenta velata e quando essa si toglie il velo lo sposo, il Cielo (che poi è Zas, cioè Giove) le mette sulle spalle il mantello che egli stesso ha ricamato. La sposa resta nuda soltanto per un attimo, e proprio in tale attimo, che era quello dello svelamento, per i Greci era possibile afferrare la verità. Il rito consiste appunto nella sostituzione del velo primordiale col mantello che è il dono dello sposo, ricevendo il quale la Terra si sposa e cambia nome, o meglio, proprio come da noi ancora oggi alle donne accade, aggiunge al suo nome un altro nome e diventa così anche Gaia, Gé. Ma questo mantello non è un semplice mantello, perché su di esso lo sposo ha ricamato dei disegni, ha intessuto in vari colori la forma dei fiumi, dei laghi, delle montagne e dei castelli, la forma dell’Oceano e del suo palazzo. In altri termini: su questo mantello è rappresentata per la prima volta la forma della Terra, ovvero Ctòn è per la prima volta trasformata in Gé, appare come tale e perciò lo diventa. (…) Alla fine delle nozze sacre quello che si vede è soltanto l’immagine sul manto delle montagne, dei fiumi, dei palazzi, in breve non la Terra come Ctòn ma soltanto come Gé, come semplice faccia, anzi come immagine della faccia: quel che possiamo vedere e perciò conoscere non è la cosa ma l’immagine della cosa, non sono vere montagne e i veri mari ma sono le immagini delle cose cui si riferiscono.

 

Giulia Flavia Baczynski.


Le cose vere, le vere montagne, i veri laghi, stanno sotto il mantello, appartengono al corpo nascosto, ctonico, sotterraneo, oscuro, abissale della Terra stessa. Ma noi siamo condannati, se vogliamo tentare di conoscere qualcosa, ad accontentarci di ciò che si vede, e vedendo l’immagine di ciò che esiste crediamo di vedere ciò che esiste. Sicché la verità resta e resterà per noi celata per sempre e dovremo adattarci soltanto alle apparenze, alle illusioni.” Questo passo lo trovo particolarmente appropriato perché in qualche modo sto approcciando l’immagine della Terra, l’immagine di quella Gé che tutti conosciamo, ma utilizzando come materia prima del processo la carta stessa su cui il mondo è sempre stato rappresentato. Magari lavorando sul supporto e col supporto, modellando il mantello scopro cosa c’è sotto, chissà. Ritornando ai territori immaginari delle mie fotografie, quello che ti posso dire è che essi esistono. Non so dove si trovino sulla Terra, intesa come il pianeta su cui viviamo (e credo non sia un’informazione essenziale), ma proprio per il fatto che corrispondono e si avvicinano e contengono l’idea del paesaggio che ci è propria culturalmente sono reali. Tanto quanto l’idea che si forma nella mente prima ancora di diventare azione compiuta.

 

Cosa sta (e cosa si mette in moto) tra "l’idea che si forma nella mente prima ancora di diventare azione" e l'opera compiuta? 

 

C’è la percezione di una forma, la sua visualizzazione che è ancora immateriale. Potrei definirla come una sorta di immagine latente che ancora non è sviluppata e compiuta del tutto ma che è lì. È una traccia per un processo che porta a dei tentativi di realizzazione fisica. In questo processo alcuni tentativi vanno a vuoto perché non sempre poi l’opera compiuta (nonostante sia ancora in progress) corrisponde a quella pre-visualizzazione iniziale. È una ricerca che si sposta a un livello diverso, perché scende nel dettaglio della singola immagine più che rimanere sul piano del concetto generale che sta alla base della serie.

 

Giulia Flavia Baczynski, Carta fisica del cielo.


Che valore dai alla luce che giunge dallo scanner e che entra nella scelta formale della tua ricerca? 

 

Lo scanner mi permette di simulare il processo che l’occhio attua nei confronti della contemplazione della matrice di carta.  La prima volta che ho realizzato una matrice l’ho osservata dinamicamente: l’ho ruotata, l’ho capovolta, l’ho osservata appoggiata su un tavolo con luce radente e sospesa nel vuoto controluce. Ecco, l’averla guardata controluce e aver visto come la percezione della materia cambia mi ha spinta a prediligere lo scanner alla macchina fotografica. La macchina fotografica mi restituisce solamente la fotografia di un foglio di carta increspato, mentre la luce dello scanner attraversa la carta traslucida trasformandola completamente. Prima ancora: questo vagare dell’occhio da un punto all’altro della superficie della matrice mi riporta la mente all’occhio alato di Leon Battista Alberti che vola per conto suo svincolato dal corpo ed il suo motto: e quindi? Come cambia la percezione e l’immagine del mondo se lo si conosce con gli occhi e basta anziché attraverso le gambe e il viaggio fisico?

 

Giulia Flavia Baczynski, Carta fisica della terra.


Tu accartocci fogli di lucido, più volte, poi li spiani e li accartocci di nuovo, quasi fossi una scultrice inconsapevole in attesa di capire quale sarà il responso rivelato dalle linee, dalle increspature, dai segni, impressi per metà dal caso e per metà dal tuo desiderio di creare una ulteriore possibilità. E poi affidi la tua manipolazione alla luce e alla memoria dello scanner. Ci puoi rivelare cosa muove questo tuo fare tra l'azione sul foglio e l'apparizione della texture della serie Carta fisica della terra?

 

Questa serie sulle mappe non è nata con un'intenzione prettamente fotografica. Attraverso il mio lavoro, cioè costruire modelli di architettura per musei e mostre, spesso mi concedo di uscire dai tracciati rigorosi dell'esecuzione per sperimentare possibilità altre di rappresentare concetti spaziali o città o architetture singole. Non sempre queste sperimentazioni trovano un luogo appropriato nelle commesse. Il più delle volte alimentano ricerche personali che possono essere la base di tecniche da affinare sui modelli oppure rimangono nel campo della sperimentazione pura che converge poi nella fotografia. La Carta fisica della Terra è diventata tale dopo aver compreso che il semplice foglio di carta è uno strumento estremamente potente e versatile: da quando esiste è veicolo di informazioni, di racconti, di storie che vengono impressi sul supporto con inchiostri e grafite. Disegni, testi, mappe facilmente trasportabili e conservabili. La carta però non è un supporto neutro perché può diventare essa stessa un concetto spaziale se debitamente manipolato: piegata nel modo giusto sostiene un peso 50 volte superiore al suo ma è anche fragile, delicata, si sfalda, si brucia, si consuma, diventa bassorilievo, si plasma attorno ad un qualunque oggetto. Ogni carta poi ha caratteristiche intrinseche che la rendono unica e proprio su questo aspetto ho insistito. La carta da lucido che una volta era la base del disegno architettonico, se piegata produce una crepa bianca, un segno distintivo che diventa parte del supporto senza ricorrere ad agenti esterni. Più si piega e più segni compaiono. Come hai giustamente sottolineato, c'è una parte di casualità e una parte di intenzione che nel tempo mi hanno guidata in questo processo di costruzione e la parte di indeterminatezza mi ha spinta a continuare in questa direzione evitando la ripetitività del gesto (prova ad accartocciare nello stesso identico modo due fogli di carta... è impossibile). L'affidamento allo scanner è stato frutto di un ragionamento sulla luce e su come essa può essere utilizzata per veicolare un'idea nel modo migliore: ci sono tanti tipi di luce, noi stessi tendiamo a dividerla in categorie. Alle volte però capita che l'apparente banalità diventi una risorsa inestimabile. Basta cambiare punto di vista.

 

Giulia Flavia Baczynski, Carta fisica della terra.


La tua è una “fotografia artificiale” o una “fotografia naturale”? (Luigi Ghirri definiva così le due categorie: “La prima, la “fotografia artificiale”, trova la propria collocazione nella produzione culturale a catena, ripete all’infinito se stessa, credendo di sfuggire agli stereotipi ed è quindi riproduzione. La seconda attua una sospensione – interruzione nella catena della riproduzione, che è simile ai diversi momenti dello sguardo naturale e interazione col mondo esterno”).

 

Stando a questa netta distinzione direi senza dubbio fotografia naturale anche perché non ritengo le mie opere come qualcosa che facilmente si colloca all’interno della produzione e del panorama culturale a catena di oggi. Vorrei però fare un ulteriore ragionamento sulla scorta delle definizioni di Ghirri. Recentemente un amico architetto mi ha fatto notare come queste mappe si possano collocare all’interno di un solco: da un lato c’è la matrice, l’unicum irripetibile, dall’altro lato c’è la riproduzione di questa unicità attraverso la fotografia che non punta solo a renderla fruibile dalla moltitudine ma ne è parte essenziale per la comprensione e la decodificazione. Quindi si configura come una sintesi tra il processo artistico delle sculture da viaggio di Bruno Munari e il concetto di riproducibilità di Gillo Dorfles sul disegno industriale. Scendendo di scala però, questa differenza tra fotografia artificiale e fotografia naturale la vedo come un monito importante che mi insegna a non cadere, all’interno della mia produzione, nel facile tranello della ripetitività che genera lo stereotipo alla base di moltissime altre produzioni artistiche e fotografiche contemporanee che non riescono più a uscire dalle maglie strette in cui si sono infilate.

 

Giulia Flavia Baczynski, Vedute di montagne frattali.


Mi definiresti i termini "immagine" e "fotografia" all’interno della tua ricerca?

 

Ho sempre avuto una grande passione per l’etimologia, per la ricerca del significato e della radice dei nomi e delle parole con cui definiamo le cose del mondo sensibile. Sono convinta che l’etimo sia uno strumento importante con cui interagire perché di per sé contiene già le intenzioni che una parola rappresenta. La parola immagine ha la stessa radice di imitare e contempla l’azione, da parte dell’uomo, di rappresentare una cosa; ma immagine è anche la trasposizione di un’idea su un supporto (penso alla pittura e all’arte figurativa in genere, al surrealismo, al simbolismo, all’arte concettuale). Il tipo di meccanismo che le immagini innescano, per me, è il tentativo di decodificare un concetto/significato che l’autore ha rappresentato attraverso il segno. La parola fotografia invece significa letteralmente scrivere con la luce e ha a che fare con il far apparire su una superficie l’immagine visiva e ottica di un oggetto. La fotografia è uno tra i tanti tipi di immagini a cui si può dare luogo e per me è sempre stata la più misteriosa perché non si limita a trasporne la forma, il materiale, le dimensioni e il colore relativo ma in qualche modo cattura e fissa definitivamente anche aspetti più immateriali che rientrano nel campo dell’impalpabile. A questo proposito ti cito una riflessione che Edward Weston fece nei suoi diari: “ho fatto la fotografia di un tronco di una palma: è la fotografia di un tronco d’albero più qualcos’altro. Non so cosa darei perché qualcuno mi dicesse cos’è questo qualcos’altro…”. Ecco, per me, la sostanza della fotografia è questa, ed è questo aspetto che continuo a cercare ed anche il motivo per cui continuerò a prediligere la fotografia (anche le mie mappe sono fotografie nonostante siano ottenute con uno scanner, perché è sempre la luce il tramite per l’apparizione). Tornando un attimo all’immagine invece, non la ritengo meno (ho pur sempre avuto una formazione artistica) ma ciò che separa questi due concetti è quello che rimane invischiato nella trama della fotografia e che non ne esce più perché ne diventa parte fondamentale, aggiunge un metasignificato che va oltre a ciò che si palesa davanti agli occhi. Poi possiamo anche discutere di quanto, nella fotografia, ci sia la consapevolezza di questo aspetto ma è un altro capitolo.

 

Giulia Flavia Baczynski, Carta fisica della terra.


Nelle tue fotografie vivono contemporaneamente un’immagine dinamica (quella della messa in discussione concettuale e dello spostamento dei pensieri in corso d’opera) e un’immagine apparentemente statica (come quella dell’astrazione pittorica), stando in equilibrio tra stati di quiete e movimento. Osservando le tue immagini mi pare che emerga una accurata ricerca della “sospensione”, evocando i tempi lunghi di lettura, la pausa di riflessione al di là della riproducibilità. In che ambito poni le tue immagini?

 

Questo senso di sospensione tra l’evidenza dell’immagine e la sua archetipicità a livello concettuale è la chiave di volta di questo lavoro. Non sono interessata all’esaustività che molta fotografia propone e trovo molto più stimolante utilizzare il simbolo e la metafora perché entrambi partono dal concreto per espandere il ragionamento in direzioni altre. Pensa al cielo stellato: sappiamo perfettamente che le costellazioni sono una nostra proiezione visiva e che le stelle che appartengono ad una costellazione sono distantissime tra loro sia nel tempo che nello spazio, è scienza. Ma nonostante questo ci vediamo orsi, cani, aquile, serpenti e donne e uomini e osservandoli a lungo costruiamo castelli mentali che sviscerano le questioni più ataviche. È il tempo che ci prendiamo per riflette e fare congetture su tutto questo che è importante e se queste fotografie si avvicinano anche solo minimamente a questa direzione allora è una buona cosa, anche se è solo la punta dell’iceberg.

 

Giulia Flavia Baczynski, Carta fisica della terra.

 

Giulia Flavia Baczynski nasce a Verona nel 1982 e si laurea in Architettura al Politecnico di Milano. Il suo interesse primario è la rappresentazione e l'interpretazione dello spazio che l'uomo genera e nel quale vive. Negli anni il concetto di spazio, sia esso urbano e naturale o immaginato e concettuale, viene approfondito sempre di più diventando il nucleo della sua ricerca.

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Disorientamento, illusioni e paradossi

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L’indagine artistica di Lamberto Teotino si sviluppa principalmente sull’analisi e sulla natura dell'immagine, esaminandone i meccanismi percettivi. L’utilizzo della fotografia, gli interventi tecnico concettuali su immagini d’archivio, gli approcci filosofici dell’immagine in forma di comunicazione visivo-installativa sono le caratteristiche principali dell’opera. All’artista interessa la disseminazione del senso, del paradosso, le condizioni di alterazione percettiva e di un nuovo disegno concettuale, come una sorta di spostamento metafisico, una deviazione. Nel 2013 viene inserito nel volume The New Collectible Art Photography, di Susan Zadeh, edito da Thames & Hudson, tra gli artisti che nell’ultimo decennio hanno indagato in maniera più innovativa l’immagine fotografica. Nel 2012 la rivista Eyemazing, vincitrice del prestigioso premio “Lucie Awards”, pubblica per intero il progetto Sistema di riferimento monodimensionale, con il quale nel 2011 riceve la menzione speciale della giuria del Talent Prize. Nel 2016 vince il Premio Combat con l’opera Mary Shelley. In occasione della presentazione in anteprima della video-opera Surrendering – alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, nell’ambito di Videocittà (a Roma dal 19 al 28 Ottobre) – abbiamo intervistato Lamberto Teotino. Nei prossimi mesi faremo una ricognizione, attraverso una serie di interviste ad artisti nati tra la fine degli anni Settanta e gli anni Novanta, per approfondire le questioni aperte della post-fotografia e mostrare le diverse declinazioni all’interno della meta-fotografia italiana.

 

Sistema di riferimento monodimensionale SDRM07, 2011 Carbon pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond in wood frame 102 x 86 cm Edition of 3 + 2 A.P. Courtesy of the artist and mc2gallery, Milano, private collection.

 

Mauro Zanchi: Cosa pensi a proposito dello spostamento verso un'altra vita della fotografia?

Lamberto Teotino: La morte della fotografia corrisponde al superamento del mezzo in sé. Nella sua seppur giovane età risulta essere lo strumento più facilmente accessibile. Ora tutti possono fare "scatti". Quindici anni fa era impensabile questa cosa. Anche i bambini possiedono una fotocamera inclusa nel loro telefonino. Probabilmente ogni giorno verranno scattate trecento milioni di foto e siamo sicuri che tra queste non ci siano almeno 3 scatti geniali? Questo è un motivo per cui la fotografia va ripensata. La sua nuova vita probabilmente non è più definibile con il termine fotografia, ma si potrebbe parlare di meta-fotografia, o addirittura di fotografia quantistica, dato che si sta spostando verso lo studio delle particelle o dell'invisibile.

 


Come utilizzi il medium fotografico per dare corpo alle tue immagini?

Non sono mai stato attratto dalla fotografia tradizionale. La fotografia del "reale" fissa un ricordo, vive tra le luci e le ombre di una scena spontanea o ricreata, ma in entrambi i casi la combinazione alchemica che si crea porta in sé una componente prettamente decorativa. Non la considero arte, ma semplicemente fotografia. Rappresenta un documento visivo storicamente utile. A me interessano i meccanismi percettivi di un’immagine, lo spostamento fisico mentale che può fornire un’immagine visiva. Mi interessa creare ambiguità, illusioni, paradossi, inglobare elementi filosofici, matematici, scientifici, mi piace viverla in maniera installativa. Alla fine quello che cerco è il superamento della fotografia con un'alterità enigmatica.

 

In cosa consiste secondo te andare oltre il medium fotografico?

Significa uscire fuori da un punto spaziale preciso, ci sono parecchie possibilità oltre la pellicola o il sensore.

 

Wormhole, 2012-13 Archival pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond in wood frame 41.5 x 34.5 cm Edition of 3 + 2 A.P. + 1 P.P. Courtesy of the artist, private collection.


Nella dialettica tra casualità, programmazione, spontaneità, accumulo e anonimato, per te quanto è importante il ruolo del cortocircuito?

Molto importante direi, gran parte della mia ricerca si indirizza verso quella direzione. Lo spettatore diventa parte integrante dei meccanismi devianti che applico nel comporre un’immagine. C'è molto pensiero dietro le quinte, che poi mi porta a fare determinate scelte solo apparentemente ponderate. Ma in realtà persistono non rari e incontrollabili elementi, che nel loro DNA, attraverso la casualità e la magia, mi risolvono l'opera. Mi sento molto fortunato in questo.

 

Quali sono i soggetti della tua ricerca?  

Da anni recupero immagini d'archivio. Faccio parte di quella generazione definita “Archival impulse” da Hal Foster. La mia ricerca prende spunto dalla realtà, e fin qui non ci piove, e da tutto quello che c'è attorno, dagli odori ai suoni, alle sensazioni emotive ecc.. Poi la ricerca si sviluppa nei vari interessi, tra svariate letture e ossessioni. 

 

Atmospheric Particulate Matter, 2017- (from the series 1816) Archival pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond, gold leaf frame. 127.5 x 152.7 cm Edition of 5 + 2 A.P. Courtesy of the artist and mc2gallery, Milano, private collection.

 

Detail.

 

Detail.


Lo sviluppo di qualcosa non si può esaurire con un’immagine ma ha bisogno di seguire un ulteriore svolgimento?

Io penso che se un’immagine è potente non ha bisogno di immagini satellite per sostenere un pensiero. La ricerca è fondamentale e il risultato finale di una sola immagine può essere il frutto di anni di studio. Credo nell'opera d'arte e non nella solita produzione in serie su cui un autore allunga il brodo.

 

Ci puoi parlare dei territori al confine tra reale, immaginario e straniamento, che ricrei nelle tue fotografie?

C'è un’opera che risponde precisamente a questa domanda, che la racchiude. L'ho realizzata quattro anni fa e si intitola èidolon, che in greco significa "immagine", e il suo concetto ha tre accezioni basilari: anzitutto le immagini fisiche prodotte da un oggetto, dunque i riflessi ad esso proiettati su superfici lisce o lucide; in un secondo senso l’èidolon è l’oggetto stesso reputato immagine imperfetta di altri oggetti ritenuti veri, interessato alla pura verosimiglianza non alla verità, e dunque tale da ingannare; la terza accezione è quella dell’immagine sensibile, appartenente al dominio dell’anima, come intendeva Platone, legato ai nostri desideri, inteso che il corpo ci riempie di immagini. L’èidolon quindi è il manifestare in modo tangibile della presenza di una seconda realtà, parallela a quella vivente ma non meno importante di quella reale.

 

Èidolon, 2014 Inkjet print on Hahnemuhle cotton paper Edition of 5 different formats + 2 A.P. Courtesy of the artist, private collection.


Quale metodo applichi per tradurre un’intuizione in forma?

Non ho un metodo preciso che mi porta a realizzare un’opera. Diciamo che sono in continua ricerca di idee, che poi metto da parte e quando raggiungo gli ingredienti adatti allora provo a unirli. Forse c'è molta più alchimia di quella che penso. Di sicuro però passa molto tempo dall'illuminazione avuta a quando prende vita l'opera; ci sono volte che ho realizzato opere partendo da un titolo, da canzoni, da film, da un colore trovato casualmente in giro. Non c'è una regola.   

 

 


Quale radice d'enigma si nasconde dietro la prima apparenza delle tue immagini?

La sensazione che manchi qualcosa ritengo sia più complicata come operazione. Secondo me togliere è più difficile. Prendi ad esempio la magia. Lo spettatore cerca sempre di capire dov’è l’inganno, proiettandosi così verso l’elemento addizionale, e con lo sguardo cerca sempre di individuare il trucco. Così facendo perde di vista la vera percezione e la forza della magia, cioè quella di vivere ciò che non è visibile. 

 

La tua è una fotografia che trova la propria collocazione nella produzione culturale che ripete all’infinito se stessa, con sottili variazioni e declinazioni, o è una sospensione di giudizio in rapporto col reale?

Le mie immagini nascono dalla realtà e pertanto ne fanno parte. Io sono una persona che giudica e sono fiero di trarre giudizi soprattutto dalle apparenze e non mi interessa se l'apparenza inganna. D'altronde sta a noi scoprirlo. E poi l'inganno mi piace, nello stesso modo in cui lo presento nelle mie opere. Molto tempo fa leggevo gli aforismi di Oscar Wilde e tra tutti mi ha incuriosito quello in cui dice: "solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze". 

 

Secondo Luigi Ghirri, “La fotografia è insieme il luogo dell’analogo e dell’unico, è l’immagine di un mondo possibile, scelto tra tanti mondi possibili, più vicina alla fantascienza che ad altri generi letterari o estetici”. Che ne pensi, in rapporto alla tua ricerca?

Non ci avevo pensato, ma in effetti ho sviluppato progetti unendo il mondo della fantascienza quello dell'immagine. Probabilmente il futuribile si propone più facilmente come sfera di studio da trasportare nella realtà e Ghirri era un grande in questo, uno degli utilizzatori dello strumento fotografico che più ha influenzato il contemporaneo. Ghirri ha inventato il photoshop prima della Adobe.

 

Sistema di riferimento monodimensionale SDRM19, 2011 Carbon pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond in wood frame 92 x 115 cm Edition of 3 + 2 A.P. Courtesy of the artist and mc2gallery, Milano, private collection.


Mi interessano molto i meccanismi di percezione che evochi e inneschi nelle tue opere. Ce ne puoi parlare?

Un'immagine è impressa e vive su un’unica superficie. Nonostante possa avere una prospettiva compositiva, di per sé, nella sua fisicità, risulta piatta. Io invece la vivo come fosse un buco nero, una sorta di wormhole, un canale di passaggio cui ci si può passare attraverso, una finestra spazio-tempo. 

 

Chi è (o cosa è) per te “l’ultimo Dio”, termine che hai scelto come titolo di un tuo progetto? Potrebbe essere la rappresentazione del reale nella memoria eterna?

Sì, potrebbe. Quando penso all'ultimo Dio penso non al Dio ultimo, ma che ognuno di noi può essere un Dio. È un lavoro sulla collettività, quasi come se ognuno di noi dovesse rispondere all'ultima chiamata disponibile. È un lavoro improntato sulla coscienza degli individui e sul loro operato. Tutti noi possiamo cambiare le cose. Ogni persona è come una sorta di eroe contemporaneo.

 

Marsilio Ficino, Giulio Camillo Delminio e i neoplatonici rinascimentali parlavano di deificazione dell'uomo, ovvero della possibilità di ritrovare nella profondità del proprio essere una radice e natura divina, in grado di connettersi con le questioni universali. La tua visione è vicina a queste possibilità? 

Sì, è un punto di vista che mi appartiene. Nel progetto L'ultimo Dio la radice di cui parli è rappresentata dai frattali che ricoprono il volto dei soggetti come tramite tra interiorità ed esteriorità, tra la mente e l'anima; questo processo di auto-similarità crea un linguaggio che si ripete nella sua struttura e allo stesso modo su scale diverse. Studi recenti hanno estrapolato ed esplorato il genoma umano ad alta risoluzione e a tre dimensioni. Ne è derivata una scultura matematicamente armoniosa ed elegante, che ritroviamo in maniera ossessiva in natura in forma di codice. Si ritiene inoltre che i frattali abbiano delle corrispondenze con la struttura della mente umana, ed è per questo che la gente li trova così familiari.

 

L’ultimo Dio - 10, 2012-2013 Archival pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond, oak frame 113 x 155 cm Edition of 3 + 2 A.P. Courtesy of the artist and mc2gallery, Milano, private collection .

 

Guardando i volti coperti da oggetti nella serie "L'ultimo Dio", ho collegato le tue opere con certi lavori di John Baldessari, quelli dove l'artista ha escluso le espressioni facciali delle figure, ponendo cerchi sopra i volti dei personaggi. Quale è l’ulteriore spostamento che hai messo in atto rispetto all’umanità e al futuro immaginato da Baldessari?

Il lavoro di Baldessari è più orientato verso la serigrafia e i suoi soggetti implicano più un'azione nella struttura compositiva, mentre le mie figure sono più asettiche, più algide, avide di emozioni. Nelle immagini di Baldessari anche se il soggetto non viene svelato è comunque il protagonista. Nelle mie immagini invece è l'esatto contrario: il soggetto è monolitico, deve risultare come una scultura, non ha l'intenzione di essere il protagonista, e lo spettatore nel guardare l'opera non dovrebbe cercare un legame con le figure.

 

Ci puoi sintetizzare quali sono gli ingredienti principali (o segreti) presenti nelle tue opere?

Ho passato molto tempo a studiare la composizione dello spazio visivo e questo mi ha aiutato a capire i pesi all'interno di una superficie. Il risultato così ottenuto, perché funzioni, deve risultare straniante per chi guarda, ma normale ai miei occhi, ed è a questo punto che ritengo il mio intento riuscito. 

 

Attraverso quale prospettiva rielabori le immagini degli archivi e della storia?

Attraverso la voglia di rigenerare il passato, fornire uno spostamento di senso al preesistente, per azionare un ribaltamento compositivo e trasformativo con lo scopo di alterare il pensiero di chi guarda. 

 

Mi interessa molto sapere qualcosa di più rispetto al tuo lavoro sulle immagini di opere pittoriche screpolate dal tempo.

Ho rielaborato dei ritratti a olio di tele pittoriche antiche recuperati dal web. Ho poi analizzato ed estrapolato i dettagli dalle parti rovinate e li ho presentati sotto forma di stampa, fondendo così la pittura con la stampa artistica. Il risultato finale risulta un dipinto senza materia e una fotografia senza scatto. Il progetto analizza l’anno 1816, da cui prende il titolo, un anno in cui s’intrecciano fatti e avvenimenti rilevanti, che determinarono la storia contemporanea in maniera significativa. Lo storico John D. Post lo ha battezzato “l’ultima grande crisi di sopravvivenza nel mondo occidentale”. Fu l’anno senza estate. Gli alti livelli di cenere nell’atmosfera, la diffusione di epidemie, la distruzione di raccolti, la morte di bestiame e le abbondanti nevicate dell’estate di quell’anno, in cui si moriva di freddo, costrinsero l’essere umano a non uscire dalle case. Questa estrema condizione di vita fu prolifica però per due tra i più grandi scrittori dell’epoca, e fu così che Mary Shelley e John Polidori, costretti a rimanere al chiuso, gareggiarono su chi avrebbe scritto la storia più spaventosa. Successivamente diedero alla luce due tra le opere letterarie più scure della storia: Frankenstein e Il Vampiro.

 

L’ultimo Dio - 12, 2012-2013 Archival pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond, oak frame 130 x 190 cm Edition of 3 + 2 A.P. Courtesy of the artist and mc2gallery, Milano, private collection.

 

Ci puoi definire cosa intendi (nella tua ricerca) per “magico inatteso”, “enigma metafisico”, “suspense lynciana”?

Una combinazione di elementi inizialmente controllati, che successivamente scaturiscono in una dimensione rigenerante, fornendo così forme nuove appartenenti a uno stato gravitazionale.

 

Che valore dai alla parola "alchimia", nel senso di ingrediente che entra nel processo trasmutativo delle tue opere?

Per “alchimia” intendo generare il nuovo dalla mescolanza delle esperienze. Mi interessa che un’opera acquisti una nuova identità da una preesistente, che unisca i saperi accumulati nel tempo per produrre un disegno nuovo che mantenga l'intangibilità. Questa presenza purtroppo è andata persa nel tempo, a causa del declino dell'alchimia, che è stata sostituita dalla chimica moderna, incline a un disegno matematico e razionale, a sfavore dell'ermetismo che metteva in circolo la linfa filosofale.

 

Di fronte alle tue opere mi sembra che la ulteriore percezione del reale si sposti sul piano del non totalmente determinato, in direzione di una visione “altra” o di una serie di occultazioni, come quando si è pervasi dalla strana sensazione del non sapere se ciò che si è visto o udito è reale o immaginato, personale o condiviso. Ci puoi parlare della cancellazione dei volti nelle persone delle immagini prelevate dagli archivi della memoria?

La cancellazione dei volti che riguarda il progetto L'ultimo Dio avviene perché mi interessa annullare l'anima dei personaggi, che altrimenti emergerebbe dai tratti somatici e dal loro sguardo. Un volto ci comunica troppi elementi e potrebbe far sì che lo spettatore si possa immedesimare in ciò che guarda. A me tutto questo non interessa, voglio togliere punti di riferimento.

 

Come lavori sui meccanismi percettivi dell’immagine? Come ti addentri negli spazi evocativi delle tue visioni?

Cerco di contenere le mie visioni, nel senso che inizialmente non mi do limiti alle contaminazioni, ma quando poi mi occupo della pratica metto ordine alle idee per non uscire fuori da una logica.  Quello su cui tutt'oggi non ho controllo è la riuscita dell'opera. Inizialmente non so come potrà risultare, perché durante il percorso si creano delle dinamiche inaspettate, che la gran parte delle volte spingono l'opera stessa verso un cortocircuito, che crea a sua volta uno spostamento della percezione. Si aprono così degli elementi di lettura nuovi: formano una sorta di campo energetico, che non ti fa capire bene di cosa si tratti.

 

MDCCCXVI, 2017 - (from the series 1816) Archival pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond, gold leaf frame. 66.5 x 80 cm Edition of 5 + 2 A.P. Courtesy of the artist and mc2gallery, Milano, private collection.


Oltre ai motori di ricerca per immagini e agli archivi d’immagini d’epoca, immagino che tu attinga (consciamente o inconsciamente) alla memoria universale che sta dentro alla memoria del tuo corpo e del tuo pensiero. Mi evocheresti qualche passaggio del tuo viaggio in te mentre stai immaginando le tue visioni?

Attingo molto dalla vita reale, a ciò che può capitarmi durante la giornata. Per quanto riguarda le mie passioni ho un forte interesse per il cinema, perché mi piace osservare le inquadrature, le luci e persino gli errori commessi dalla catena regia montaggio-produzione, i cosiddetti "Goof". Prendo spunto dalla musica. Per esempio anni fa ho realizzato una mostra, iI cui concept del progetto espositivo, intitolato EP (extended play), si strutturava sul processo metodologico che si applica nella costruzione di un EP, per l'appunto, in ambito discografico. Tutto questo è una parte del mare magnum che mi circonda e che mi dà continui suggerimenti, al quale poi io devo mettere ordine.

 

Ci parleresti degli aspetti “grammaticali”, presenti in nuce nelle tue immagini, e di quegli elementi che sfuggono alla gestione nell’atto della creazione, e di quelli che inizialmente non vengono considerati e poi appaiono (con l’esercizio dello sguardo) successivamente?

Spesso sono elementi intangibili, composti da pensieri astratti, da interessi, sensazioni, gusti e stili di vita, ma in fin dei conti poco importa se durante la realizzazione di un’opera ci si lancia da una finestra, perché ciò che conta è il risultato finale. Purtroppo è così: quello che lo spettatore vede è solo la parte finale di un’opera. Io personalmente ritengo che tutto ciò che riguarda la gestazione di un’opera non abbia la stessa valenza della riuscita stessa di un’opera. L'artista ha un ruolo molto delicato, in cui il dovere e l'obbligo di fornire un contributo culturale risultano imprescindibili.

È interessante anche sapere qualcosa di più in riferimento alla resa scultorea dell’immagine fotografica (intendo anche l’allusione scultorea evocata dalle crepe delle immagini pittoriche, delle foto rovinate da pieghe, dai tuoi ripiegamenti dei supporti cartacei). E individueresti anche gli elementi di “disturbo” che inserisci nelle tue opere? 

La fisicità che io intendo nelle mie immagini è di natura mentale. L'aspetto scultoreo è il risultato di volumi mentali che lo spettatore avverte nell'analizzare la scena. Un'immagine è bidimensionale per natura. Introducendo un elemento di disturbo – che può essere una linea, una sparizione, un’apparizione, un buco, uno spostamento – ottengo un livello nuovo, che nella lettura si interpone tra il piano naturale e il punto di vista dello spettatore. Questo crea una telepatia volumetrica tridimensionale, che dona un volume più plastico. Si crea così lo spostamento percettivo di cui spesso parlo. La percezione di qualcosa, non necessariamente esistente, fa sì che quella cosa esista in maniera sensoriale e che la mente in tutto questo abbia un ruolo primario.   

 

Cosa è il “Sistema di riferimento monodimensionale”?

Il sistema di riferimento monodimensionale, che dà il nome al titolo del progetto, è un teorema ideato da René Descartes. Si definisce sistema di riferimento l'insieme dei riferimenti utilizzati per individuare la posizione di un oggetto nello spazio, costituito da una retta, sulla quale un oggetto è vincolato a muoversi. A seconda del numero di riferimenti usati si può parlare di Sistema di riferimento monodimensionale (1D), Sistemi di riferimento bidimensionale (2D), Sistemi di riferimento tridimensionale (3D), ma a me ciò che interessava analizzare era la monodimensione. In un’epoca in cui si parla di iperspazio mi affascina l'1D. La ricerca del progetto non si riferisce tanto all’analisi algebrica del teorema, ma cerca di riformulare l’antitesi tra scienza e fenomeno paranormale, in cui, per mezzo di un chiaro intervento digitale definibile come una falla dell’immagine, prende forma lo spostamento nello spazio dell’asse cartesiano; si determina così un risultato visivo dove solo in una specifica porzione (lungo una retta) l’immagine sparisce, mentre il resto dello spazio, in questo caso uno spazio fotografico, rimane immutato.

 

Qual è la domanda che pongono le tue opere e la tua ricerca? 

Non c'è una domanda che pongono le mie opere o la mia ricerca, semmai lasciano a una libera interpretazione. Io non voglio dire nulla attraverso le mie immagini, non voglio insegnare nulla e non voglio fare nessun tipo di propaganda d'attualità, sociale o politica. Spero che diano un senso di disorientamento. Tutto qua.

 

Tutte le immagini per gentile concessione di Lamberto Teotino e mc2gallery, Milano .

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Gerda Taro e Vivian Maier

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“Cosa mi fa sentire forte?” si domandava Susan Sontag in un’annotazione del suo diario. “Essere innamorata e lavorare”. E, ancora, descriveva la “vita della mente”, con le parole: “avidità, appetito, desiderio, voluttà, insaziabilità, estasi, inclinazione”. Ci sono analogie tra amare e conoscere, “tra il modo in cui l’Eros agisce nella mente di chi ama e quello in cui la conoscenza agisce nella mente di chi pensa”, scriveva la poetessa e grecista Anne Carson.

È, questo, a mio parere, il punto di vista che hanno scelto Helena Janeczek e Francesca Diotallevi per raccontare le vite di Gerda Taro e Vivian Maier. La prima con il romanzo La ragazza con la Leica (Guanda, 2017), la seconda con l’altro romanzo Dai tuoi occhi solamente, (Neri Pozza, 2018). Entrambe le fotografe prestano attenzione al mondo e al loro tempo, ma il loro sguardo si pone a distanze diverse dalla realtà che rappresentano.

 

Per Gerda la fotografia ha origine nel centro delle cose, della sua vita e degli avvenimenti storici e politici. Gerta Pohorylle, nata nel 1910 a Stoccarda da una famiglia di ebrei polacchi, si trasferisce a Lipsia nel 1929 per frequentare la Gaudig Schule. Nel 1933 viene arrestata per aver frequentato attivisti antinazisti. Si trasferisce quindi a Parigi, dove incontra l’ungherese Endre Ernö Friedmann, di cui diviene la compagna, che le insegna a fotografare. Insieme, su Endre costruiranno il personaggio di un famoso fotografo americano, Robert Capa, mentre per sé adotterà il nome di Gerda Taro. Il 18 luglio del 1936 inizia la guerra civile in Spagna. Il 5 agosto i due arrivano a Barcellona, la città dove ha avuto inizio l’insurrezione popolare, e subito Gerda realizza una serie di immagini di donne della milizia che si addestrano sulla spiaggia fuori città. 

 

Le immagini delle volontarie in armi e non nelle retrovie a cucire e a cucinare, mostrano al mondo la cesura rispetto al vecchio ordine patriarcale e la svolta rivoluzionaria e libertaria in atto in Spagna e in Catalogna in particolare. Nel marzo 1937 comincia a firmare i suoi lavori “Photo Taro” e le sue foto vengono pubblicate da “Regards”, “Ce Soir” e “Volks-Illustrierte”. Il 26 luglio del 1937, al ritorno dal fronte di Brunete, un carro armato “amico”, sotto attacco aereo tedesco, urta la macchina a cui è aggrappata. Viene travolta e muore. Ai suoi funerali, il primo agosto 1937, nelle strade di Parigi, una sfilata di bandiere rosse attraversa la città.

Nella Spagna rivoluzionaria si ha la consapevolezza che la posta in gioco è tra libertà e fascismo, ben oltre i confini spagnoli; la lotta non è per un nuovo potere ma per un’utopia. “Noi portiamo un mondo nuovo qui, nei nostri cuori. Quel mondo sta crescendo in questo istante” dice Buenaventura Durruti, l’eroe indiscusso di questa tragica rivoluzione che vuole realizzare una nuova umanità, senza padroni, certo, ma anche senza politici, patriarchi e pregiudizi.

 

Gerda Taro, Miliziana repubblicana in addestramento sulla spiaggia nei pressi di Barcellona, agosto 1936.


Gerda Taro, Miliziane repubblicane in addestramento sulla spiaggia nei pressi di Barcellona, agosto 1936.


Le foto di Gerda restituiscono la forza di questo particolare momento. Le sue miliziane ne sono un evidente esempio. La fotografa sta ai loro piedi: cinque donne tagliano l’immagine in diagonale, quasi come uno sfregio. E lo stesso accade con la bella miliziana in ginocchio mentre si sta addestrando: lo sguardo deciso rivolto dinnanzi a sé, in mano una pistola che pare un’estensione del suo corpo, pronta all’inevitabile durezza di uno scontro frontale. Il profilo scuro, che si staglia contro un cielo opaco, la trasforma nel simbolo di un istante indimenticabile ed eroico. 

Intelligenza ed eros si incontrano nel momento in cui il desiderio esige la rivoluzione e la rivoluzione libera il desiderio. Non importa se la morte è vicina. Quale mezzo migliore per testimoniare questa esperienza se non una macchina fotografica?

 

Con le sue immagini Gerda riesce ad elevare il gesto al di sopra del contesto, in uno stadio estremo di consapevolezza. La forza delle sue fotografie non risiede nella loro qualità estetica, ma nel tentativo di voler anticipare il futuro, quasi come se immaginasse la vittoria dei rivoluzionari. Gerda vive con le persone che combattono, fotografa bambini e contadini, ma anche scene di vita quotidiana, con il loro contenuto prosaico ed il tono dimesso. Non è semplicemente solidale con il soggetto, ma ciò che mette in immagine diventa parte di sé, come lei stessa è parte dell’evento che sta fotografando. Il celebre motto di Capa: “se le foto non ti sono venute bene vuol dire che non sei abbastanza vicino”, è indice del suo essere partecipe a un destino comune, manifesta una forma di responsabilità che coincide con il suo bisogno di autonomia e audacia, che si origina da una libertà di coscienza e azione possibile solo in certe situazioni eccezionali.

 

Gerda Taro, Soldati repubblicani, La Granjuela, fronte di Cordoba, Spagna, giugno 1937.


Gerda Taro, Vittime di un raid aereo all’obitorio, Valencia, maggio 1937.


Tre settimane dopo Guernica, nel maggio del 1937, fotografa le conseguenze delle incursioni notturne sulla popolazione civile di Valencia. Scatta in un obitorio: inquadra le ferite, i morti che non smettono di sanguinare, i sopravvissuti. Alcuni cadaveri di donne stese sui tavoli, con aria quasi serena, pare dialoghino a distanza con l’immagine delle miliziane. Questi morti, travolti apparentemente da un destino incontrollabile, sfuggono ad ogni ordine temporale, paiono non voler morire. Sono il volto in cui il tempo delle passioni e quello del pensiero possono coincidere. Fotografare significa non credere che la morte vinca sulla vita. Per questo le sue immagini riescono a conservare l’integrità di quel momento storico, tanto negli istanti euforici, quanto in quelli drammatici. Gerda è sempre presente a se stessa, ma le sue fotografie esprimono idealità che trascendono il suo particolare presente e riescono a farsi strada, ancora oggi, negli occhi di chi vuole e sa guardarle.

Se per Gerda, dunque, fotografare significa gettarsi a capofitto negli eventi ed aprirsi ad un mondo nuovo, per Vivian Maier ciò che conta è stare a una certa distanza. Per lei la verità è legata al silenzio, alla riflessione, alla solitudine.

 

Tutti conoscono la sua storia. Nasce a New York nel 1926 da madre francese e padre austriaco. Il suo primo contatto con la fotografia avviene nel 1930, in tenera età, poiché la madre divide l’appartamento con la ritrattista Jeanne Bertrand. In seguito trascorre l’infanzia in Francia e nel 1951 torna negli Stati Uniti dove lavora tutta la vita come baby sitter. “Disse che fin da giovane aveva scelto di diventare bambinaia perché le sembrava che le potesse garantire una certa libertà e perché qualcuno le dava un tetto sopra la testa”, ricorda Chuck Swisher, membro di una famiglia presso la quale lavorò negli anni Novanta.

 

Essere soli per Vivian Maier significa muoversi in continuazione. Solitudine e movimento coincidono. Camminare e guardare non sono disgiunti, fanno parte del medesimo gesto. Nella sua Rolleiflex entra ciò che vede per strada a New York e Chicago: un uomo raggomitolato su un marciapiede, due bambine che si abbracciano guardandosi negli occhi, un uomo che dorme sulla spiaggia. E molto altro: volti, strade, edifici. 

 

Vivian Maier, New York, 27 luglio 1954.


Vivian Maier, New York, 1952-1959.


Eppure Vivian non sviluppa che poche immagini. Sta qui il mistero del suo lavoro. Forse nell’idea la fotografia possa rappresentare la perfezione del gesto rubata a un mondo che la disconosce. “Ho scattato così tante foto per riuscire a trovare il mio posto nel mondo”, scrive Vivian. Eppure non è affatto ambiziosa. Non intende toccare alcuna vetta, bensì esprimere il desiderio di preservare, prima di tutto per se stessa, lo spazio di un altrove nel cuore del presente, lasciandosi sconvolgere fino in fondo dal suo silenzio. 

 

E se per gli altri le sue immagini sono il segno di una lontananza, di un segreto intraducibile, per se stessa costituiscono la forma di un’esperienza interiore, in una relazione così stretta con la vita, da poter essere talvolta lette come un profilo autobiografico. La solitudine non comporta paradossalmente un’esposizione di sé e della propria vulnerabilità? Il silenzio non può forse divenire spazio per un nuovo sguardo, che si lascia attraversare proprio in virtù della sua estraneità? Vivian fotografa per essere raggiunta, ma anche per marcare una distanza. Forse per lei è davvero l’unica possibilità di vivere, di far dialogare il mondo esterno e le voci che abitano dentro di lei. Vivian lascia parlare dentro di sé i soggetti che fotografa e nel contempo dà modo agli stessi di divenire il suo corpo, il suo sguardo, il principio della sua identità. Con un movimento analogo a quello dell’autobiografia, si preoccupa di comporre la frammentarietà degli istanti che va conservando senza mostrarli, in un tutto omogeneo. Ogni immagine diventa anche un momento della sua vita, non è importante che gli altri vedano. Fotografare è stare all’ombra dell’originale, ma è anche accogliere l’originale in una zona d’ombra, come se guardare fosse una sorta di appropriazione silenziosa.

 

Entrare in contatto con il mondo, desiderare di possederlo, per Vivian è conoscere se stessa. Scattare incessantemente per lei è amare ciò che guarda, non mostrarlo è un segreto che solo la fotografa può conoscere. Conoscenza ed eros per Vivian si consumano nel rifiuto di rendere pubbliche le sue foto. Non stamparle significa sottrarle ad una sfera economica e riproduttiva aperta ad un pubblico o ad un altro da sé, è la scelta consapevole di chi compie un atto autoerotico votato alla sterilità. Forse è per questo che in un’epoca che fa del mercato un elemento naturale e della riproducibilità un ideale imprescindibile, ci seduce la scelta spiazzante di conservare tutto in un posto segreto.

Il silenzio delle immagini, direbbe Erling Kagge, contiene in sé “lo stupore, ma anche una specie di violenza, un po’ come l’oceano o una distesa sconfinata di neve”. Così se per Gerda la fotografia è un occhio gettato nella tempesta, un’appassionata, disperata risposta che si spinge oltre ogni orrore e desolazione, per Vivian è un’isola in cui preservare la risposta al silenzio della sua vita. Per entrambe significa pensare e sentire l’esperienza immediata di ciò che le circonda; ognuna giunge a un contatto diretto con ciò che le sovrasta e le opprime. Eppure fotografare vuol dire generare occasioni di libertà da situazioni di costrizione.

 

Va sottolineato, infine, che i libri considerati non sono saggi, ma romanzi. Il loro merito, prescindendo dal giudizio della critica o da quello che il pubblico ha già accordato o potrà accordare, è quello di riproporre, all’attenzione di chi si interessa di fotografia, le storie di due donne così diverse, ma in fondo accomunate dal medesimo profondo bisogno di esprimere se stesse.

Per questo, le fotografe, mostrandoci due diversi modelli di formazione, possono ancora suggerirci sentieri mentali da imitare o da evitare, costringendoci comunque a riflettere.

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Due libri, due storie
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Phoebe Unwin

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Riapre la stagione espositiva presso la Collezione Maramotti, che inaugura le attività autunnali presentando la prima personale italiana di Phoebe Unwin. Per l’occasione, la Pattern Room ospita il lavoro della pittrice nata a Cambridge, già in shortlist per il Max Mara Prize 2015, i cui lavori sono presenti anche nella collezione della Tate Modern. La Collezione Maramotti può essere considerata un osservatorio privilegiato sulla scena delle artiste inglesi contemporanee, grazie alla sinergia con la White Chapel Gallery e alle attività dell’omonimo premio, che dal 2005 seleziona e premia con residenze e progetti espositivi le artiste anglosassoni più meritevoli. Tra i nomi premiati ricordiamo Laure Prouvost, vincitrice del prestigioso Turner Prize nel 2013 e autrice del progetto GDM - Gran Dad’s Visitator Centre presso l’Hangar Bicocca di Milano nel 2016, ed Helen Cammock, vincitrice dell’edizione 2018.

Confermando l’interesse specifico verso la pittura, evidente anche dalla formidabile selezione di tele di livello museale esposte nelle sale della permanente, la Collezione sceglie un’artista che formalizza una sensibilità estremamente contemporanea, pur rimanendo fuori da ogni discorso cronachistico e da ogni volontà di commento della realtà contingente. 

 

Phoebe Unwin Approach, 2017 olio su tela / oil on canvas 183 x 153 cm © the artist Courtesy Amanda Wilkinson Gallery, London.

 

Unwin non lavora con fotografie o copiando dal vero. La sua ricerca si sviluppa partendo sempre da memorie personali, frammenti di ricordi, appunti, schizzi, sensazioni, che compongono una personale grammatica di forme, luci, volumi. Non mancano però tracce di figurazione, che rendono in parte riconoscibili i soggetti rappresentati, e che giungono a concludere un percorso creativo che nasce dall’astrazione per sfociare in una parziale figuratività, e che non si esaurisce in  forme di carattere realistico. Le campiture ampie (anche nei piccoli formati), la vibrazione del colore e il soft focus che caratterizzano le pitture dell’artista inglese evocano uno stato percettivo sospeso, dove gli oggetti vanno lentamente definendosi e il loro esistere travalica la dimensione temporale del dipinto. Viene da scomodare Henry Bergson, in questa esperienza percettiva dove la realtà materiale delle cose e la dimensione emotiva (in questo caso più che spirituale) della memoria si incontrano. In questa sensibilità senza frizioni, fluida, ovattata, c’è una piacevolezza estetica che si esprime nell’impalpabilità delle superfici, nel godimento del colore che pulsa e rende vive le forme: un muro di oscurità che incombe e di cui sembra di sentire il rombo in lontananza (Nightfall, 2017), una composizione dominata dal giallo (Field, 2018), un abbraccio (Approach, 2017). Un lavoro scandito da movimenti lenti, piccoli fremiti, improvvisi squarci luminosi, dove il conflitto sembra placarsi nel godimento pittorico e le figure si fanno tutt’uno con l’ambiente. Tele che producono un flusso avvolgente, nelle quali le composizioni restituiscono allo spettatore la percezione di un tempo dilatato, di quiete. Come aprendo gli occhi dopo il sonno notturno, ancora avvolti dalla sensazione di spaesamento, nel fugace lasso di tempo in cui le cose appaiono in una veste sconosciuta, prima che il mondo riacquisti connotati familiari. 

 

Phoebe Unwin Field, 2018 olio su tela / oil on canvas 183 x 153 cm © the artist Courtesy Amanda Wilkinson Gallery, London.


Unwin dichiara di essere interessata più all’emozione che la pittura può suscitare rispetto alla rappresentazione delle cose. Forma e contenuto sono posti sullo stesso piano e agiscono insieme, equiparati per importanza. L’impronta del lavoro è indubbiamente minimalista ma senza il ricorso alla ripetizione di forme e segni: ogni lavoro è un’occasione di esplorazione a sé, che si inserisce in un percorso coerente e irripetibile. Lo spazio esteriore ritrova le coordinate attraverso l’esplorazione delle geografie interiori, e acquista una nuova vita sulla tela attraverso un viaggio à rebours. Questo “inner landscape” produce una forma di sublime privata, che discende da quell’espressionismo astratto di matrice statunitense, meravigliosa intuizione che ripulì le visioni di ogni orpello lasciandole nude ed estatiche. Il sublime racchiuso nelle opere di Phoebe Unwin è un sublime intimo, fatto di momenti che fluttuano nel tempo e nello spazio di una vita e vengono prelevati dal flusso indistinto dell’esistente per brillare attraverso la luce della pittura. L’esterno e l’interno dissolvono i confini e disegnano una mappatura psichica dove spazio vissuto e lo spazio pensato si proiettano (e prolungano) l’uno nell’altro, dove la microstoria quotidiana costituisce l’archivio da cui attingere per rigenerare l’infinito discorso della pittura.

 

Phoebe Unwin Almost Transparent Pink, 2018 olio su tela / oil on canvas 51 x 41 cm © the artist Courtesy Amanda Wilkinson Gallery, London.


Nel lavoro di Unwind emerge l’idea che lo spazio possa essere vissuto appieno, dal punto di vista dell’esperienza, solo attraverso l’ausilio della memoria. Lo sguardo da solo non consente la comprensione dei fenomeni, quindi un approccio puramente ottico risulta fallimentare. L’azione dei sensi concorre a creare quell’insieme di frammenti che compongono l’esperienza della realtà e che ci restituiscono il mondo nella sua interezza. Riguardo al tema dello spazio e della visione, Unwin afferma: “Il campo del paesaggio è per me esso stesso un soggetto che oscilla tra un luogo osservato o ricordato e un luogo di energia o visione. Si tratta di un punto di partenza per l’astrazione e la figurazione in egual misura. Questi paesaggi riguardano dei luoghi ma anche l’atto stesso del dipingere: sono la registrazione di una risposta al colore e alla forma.”  Paesaggio inteso perciò anche con l’accezione di “field”, come campo di colore e come inquadratura, struttura visiva che organizza la visione, soggetto esso stesso di una metapittura.

 

Phoebe Unwin Headway, 2018 olio su tela / oil on canvas 51 x 41 cm © the artist Courtesy Amanda Wilkinson Gallery, London.


A far da contraltare alla partitura cromatica delle opere pittoriche ci sono le carte, disegni in bianco e nero dal tratto libero e aggressivo. Nei disegni la figura umana si palesa, pur rimanendo forma tra le forme. In assenza di colore, il dialogo tra profondità o superficie scarta verso la bidimensionalità del segno e la scala dei grigi, dei neri e dei bianchi determina le forme: “esplorare, dare forma attraverso il bianco e nero del carboncino (in passato ho lavorato spesso con il colore sulla carta) a contrasti di contenimento e aree selvagge, punti di vista oscurati, occultamento contro rivelazione”. Levità e freschezza rimangono intatte, la matrice figurativa si fa più chiara, quasi che la nettezza del segno grafico la costringesse a emergere dal biancore della carta, appare un urgenza del segno che si fa largo nello spazio del foglio. Un ritmo più alto rispetto alle tele, dove l’artista può lasciare che il colore a olio rivendichi il tempo che gli è necessario per tradursi in pittura, scegliendo il ritmo della propria andatura, dove la dicotomia tra solidità e trasparenza può dispiegarsi e la materia può esprimersi compiutamente, tra velature e blocchi di colore, minute epifanie, immagini che affiorano dalla corsa placida del pennello e galleggiano, come animate da una nuova vita ed emancipate, infine, dal giogo della memoria. 

 

Phoebe Unwin Diverted Pedestrian, 2018 olio su tela / oil on canvas 72 x 50 cm © the artist Courtesy Amanda Wilkinson Gallery, London.

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Ricordare Jean Mohr

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“Cara Maria, nel caso tu non l’abbia ancora saputo, Jean è mancato serenamente ieri mattina”. 

A darmi questa notizia il 4 novembre è Yves Berger, figlio di John, che del fotografo svizzero Jean Mohr (1925-2018) è stato compagno di strada e di avventure, collaboratore e ‘complice’ a partire dal 1962, quando si incontrarono per la prima volta a Ginevra. Risale a quell’anno l’avvio di un sodalizio professionale che nel tempo si è trasformato anche in una formidabile amicizia. Ne sono nati una serie di libri la cui importanza politica, sociale, artistica e letteraria resta non solo attuale, ma tuttora anticipatrice: A Fortunate Man: The Story of a Country Doctor (1967), inedito in Italia, A Seventh Man (1975) [Il settimo uomo, Contrasto, 2017], Another Way of Telling. A Possible Theory of Photography (1982), da noi ancora inedito. 

 

“Lo spirito di collaborazione è raro tra un fotografo e uno scrittore”, scriveva nel febbraio del 2015 Mohr sulle pagine di The Telegraph, in occasione di una nuova ristampa di A Fortunate Man, libro su cui si sono formati i migliori medici di base inglesi. Jean e John lo avevano costruito insieme puntando su quella che potrebbe sembrare una formula semplice e che invece non lo è affatto: “La fotografia non deve illustrare il testo e il testo non deve spiegare la fotografia. La tautologia va evitata”. 

Le collaborazioni, più o meno dirette, di Jean Mohr con altri scrittori non si contano. Uno dei suoi primi saggi fotografici, The bridge on the Drina (1961), è ispirato dal romanzo omonimo di Ivo Andrić. A pubblicarlo sulla propria rivista è l’Organizzazione Mondiale della Sanità per cui Mohr all’epoca lavorava. “Quel ponte costruito nel sedicesimo secolo”, scriveva Mohr, “aveva permesso alla città di Višegrad di svilupparsi. Mi interessava il processo della crescita urbana, l’ingoiamento dei sobborghi da parte del centro cittadino, la scomparsa del silenzio e del verde”. 

 

 

Una sensibilità al dolore dei luoghi, degli esseri umani e degli animali, all’erosione implacabile della storia e del tempo, alla ferocia di sistemi politici e economici che producono inimicizia, guerra, povertà, ingiustizia, migrazione, malattia, morte. È stata questa la cifra che ha accompagnato in tutti questi anni lo sguardo fotografico di Jean Mohr e la sua coscienza inquieta. Nel 2003, quando insieme a John Berger decidemmo di organizzare un laboratorio di storytelling in Palestina, John lo volle con sé, perché nessuno meglio di lui conosceva quel paese sofferente e lacerato. La sua collaborazione con il Comitato internazionale della Croce Rossa e con l’UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East) era iniziata nel 1949, subito dopo la cacciata di poco meno di un milione di palestinesi dalla loro terra. Le fotografie calme e nitide di quell’esodo forzato, della precarietà in cui da allora è stato fatto vivere quel popolo, dicono di questo testimone anomalo qualcosa di più di una limpida capacità di documentare i fatti. 

 

“Mio padre e mia madre erano tedeschi”, mi raccontò Jean durante quel viaggio, “e si trasferirono in Svizzera poco prima che io nascessi, per non essere parte dell’ignominia nazista. Ho l’impressione di non essermi mai liberato di un terribile senso di colpa, della vergogna di essere figlio di un popolo che ha permesso tutto quel male. Forse, dopo aver studiato scienze economiche e sociali, lavorato per breve tempo in pubblicità e fatto per alcuni anni il pittore a Parigi, scelsi la fotografia perché mi permetteva di ‘riparare’, di stare apertamente dalla parte dei vinti”. 

 

Non a caso, nel 1986, Edward Said propone a Jean Mohr di comporre un testo a quattro mani sulle vicissitudini del popolo palestinese. Il volume, mai pubblicato in Italia, ha per titolo un verso del poeta Mahmud Darwish, After the Last Sky, dopo l’ultimo cielo. “Nel mio lavoro con Edward Said”, ricorderà più tardi Mohr, “non ci fu niente di simile al livello di cooperazione raggiunto con John Berger. Edward si limitò a scegliere le immagini dal mio archivio e ad accompagnarle con le sue parole. Un approccio molto più semplice di quello messo a punto con John, che consisteva in una vera e propria composizione a quattro mani e due sguardi dove parole e immagini avevano lo stesso peso. Era la forza del loro montaggio a dare vita a una narrazione che nessuno dei due elementi, preso a sé, sarebbe stato in grado di produrre”.

 

Nel 1996, durante una lunga convalescenza sulle montagne nei pressi di Ginevra chiamate localmente “le bout du monde”, Jean Mohr si rende conto di aver sfiorato la morte. Guarito, decide di rivisitare i luoghi che nel corso della sua lunga carriera gli sono parsi ai confini del mondo, per collocazione geografica e alterità. Ne nasce un libro, Au bout du monde, di fotografie scattate nei paesi più diversi – Romania, Lapponia, Pakistan, Grecia, Algeria, Nicaragua – accompagnate da brevi testi di Mohr e da un ‘ritratto’ dell’amico fotografo redatto da John Berger. 

"Nel corso dei miei viaggi non avevo avuto spesso”, scrive nel testo introduttivo Mohr, “la sensazione di essere alla fine del mondo? Non necessariamente in senso geografico, ma piuttosto di fronte al vuoto, al termine della strada. La fine del mondo non è per forza il nulla, può essere anche un compimento. È di sicuro la fine di un certo mondo, quello da cui si viene, al quale si appartiene, e al quale si voltano temporaneamente le spalle”. 

 

Uomo mite e tormentato, capace di stare ovunque rendendosi quasi invisibile, Mohr ha usato la macchina fotografica per osservare e testimoniare, senza appesantire le immagini con quel di più di retorica o di ideologia che spesso fa da intralcio al rapporto tra realtà e spettatori. Il suo sguardo è davvero quello delle nuvole, silenziose, alte, mai fisse. Uno sguardo che non giudica, ma registra e ricorda. Per sempre. 

 

Oggi l’archivio fotografico di Jean Mohr è conservato presso il Musée de l’Elysée di Lausanne, che nel 1984 gli conferì il Prixde laphotographie contemporaine e che nel 2013 ha dato vita a una mostra dal titolo Avec les victimes de guerre, photographies de Jean Mohr, destinata a girare il mondo nell’arco dei successivi vent’anni. 

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The Black Image Corporation

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Nel novembre 1942, l’uomo d’affari John H. Johnson fonda a Chicago, insieme alla moglie Eunice, la Johnson Publishing Company. Gli inverni della città sono noti per essere tra i più implacabili degli States e quell’anno non fa eccezione: signori e signore afroamericani, elegantemente vestiti, con cappelli abbinati e tailleur impeccabili, vanno e vengono dal quartier generale dell’editore, circondati da automobili cromate e sigarette al mentolo. Una scena tipica della vita urbana cittadina, se non fosse che Johnson ha un’idea imprenditoriale molto precisa e piuttosto rivoluzionaria: creare delle riviste dedicate esclusivamente alla borghesia nera americana che, per la prima volta, avrà un modello di lifestyle a cui ispirarsi e una narrazione, e potrà finalmente trovare legittimazione attraverso i media.

 

La Johnson Publishing Company inaugura le pubblicazioni del patinato mensile Ebony, nel novembre del 1945, e prosegue con il settimanale Jet, nato nello stesso mese del 1951. Da allora, la storia editoriale del gruppo è continuata senza interruzioni fino al 2011, anno di ingresso di JP Morgan come socio di minoranza della compagnia, che coincide con una fase di crisi: oggi Ebony e Jet (ora solo digitale) sono state acquistate dalla società Clear View, che ne sta seguendo il rilancio. In quasi settant’anni, la compagnia ha prodotti riviste, progetti editoriali, format tv, sfilate di moda, una linea di cosmetici e si è massicciamente impegnata nell’advertising, come si vede nel filmato promozionale The Secret of Selling The Negro Market del 1954, pensato per spingere gli investitori a promuovere i loro prodotti verso il target afroamericano. Dopo essere divenuta il “black media empire” sotto la guida di John e successivamente dalla figlia Linda Johnson Rice, la società sta oggi affrontando una fase di ristrutturazione e rebranding, che ha previsto la liquidazione della splendida sede storica situata al numero 820 di St. Michigan Avenue, progettata dall’architetto John M. Moutoussamy, e la messa in vendita delle testate e dell’archivio della società, che raccoglie oltre quattro milioni di immagini. 

 

 

Proprio il patrimonio di immagini della Johnson Collection è il punto di partenza della mostra di Theaster Gates, artista e professore presso la University of Chicago, ospitata dall’Osservatorio della Fondazione Prada di Milano. Gates torna a lavorare sui materiali della JPC, come già fatto con My Labor is my Protest, esposizione tenutasi alla White Cube di Londra nel 2012, e Black Madonna (2018) progetto multidisciplinare ospitato presso il Kunstmuseum di Basilea. Stavolta Gates si concentra sul lavoro di Moneta Sleet Jr. e Isaac Sutton, due fotografi storici della JPC, selezionando una serie di scatti scelti tra l’immenso archivio fotografico della compagnia. Gates privilegia scatti iconici, su cui interviene in maniera pressoché impercettibile, alternandoli a una selezione di inediti che gettano uno sguardo sulla vita di persone comuni dell’epoca. L’archivio diventa uno strumento per sviluppare una riflessione estetica sulla rappresentazione e autorappresentazione della popolazione afroamericana: dall’enorme patrimonio fotografico a disposizione preleva immagini che evidenziano il tentativo sistematico di costruire un immaginario borghese da una prospettiva interna, che contrastasse gli stereotipi negativi associati alla popolazione afroamericana e nella quale sia la classe media, sia l’élite potessero rispecchiarsi.

 

In un’intervista rilasciata a Vulture nel 2012, Spike Lee (ospite di un talk alla Fondazione Prada insieme a Okwui Enwezor, alla regista Dee Rees e allo stesso Gates, in concomitanza dell’apertura della mostra) dichiarava: “People of color have a constant frustration of not being represented, or being misrepresented, and these images go around the world.” (Le persone di colore vivono la costante frustrazione di non essere rappresentate, o di essere rappresentate in maniera distorta, e queste immagini girano il mondo). Un tema cruciale, quello della rappresentazione, che riguarda tutte le minoranze e che è da tempo al centro del dibattito della comunità afroamericana e della società statunitense, dove la spinta delle forze conservatrici radicali, che hanno trovato nuova linfa e un sostanziale avallo grazie all’elezione del Presidente Donald Trump, ha riportato a galla tensioni mai risolte ed esacerbato il dibattito sulla natura multiculturale della società statunitense. 

 

 

Gates, artista interessato alle pratiche sociali e ai processi di riqualificazione urbana, prova a far emergere la dimensione politica insita nella proposta estetica formulata dalla Johnson Publishing, nello specifico il tentativo di veicolare una forma di empowerment attraverso la bellezza e la moda, fatta dalla comunità nera e rivolta a un pubblico nero. Un’idea che oggi suona quasi scontata, assimilata dal mainstream, all’interno della quale celebrities come Childish Gambino, Janelle Monae, Kendrick Lamar (che ha conquistare il Premio Pulitzer con i suoi pezzi rap), lo stesso Spike Lee, Rihanna, Beyoncé, hanno saputo utilizzare elementi dell’immaginario tradizionale afro e caraibico per infettare il pop con elementi critici fino ad allora appannaggio di figure dell’underground o appartenenti alla sfera dell’attivismo politico. In questo senso è esemplare il videoclip Apeshitdei The Carters (ovvero Beyoncé in coppia con il marito Jay-Z) interamente girato nelle sale del museo del Louvre: nel video, caratterizzato da una messa in scena sontuosa, le due star prendono ideale possesso dello spazio attraverso un’operazione estetica aggressiva, carica di divismo e orgoglio, che mescola liberamente riferimenti alle sottoculture, suggestioni post-coloniali e lusso sfrenato, come già accaduto nello show epico di Coachella 2018, in cui la stessa Beyoncé è apparsa nei panni della regina egizia Nefertiti. Il Louvre, summa della cultura visiva occidentale, diventa un luogo di riaffermazione della “blackness” e il Re Nero delle Natività, lo schiavo e la schiava, l'odalisca, le Madonne nere, ovvero i pochi personaggi di colore presenti nell’iconografia occidentale tradizionale vengono improvvisamente riscattati, si incarnano nei corpi plastici dei ballerini e nella coppia regale delle due superstar. Che scardinano la visione “bianca” dell’arte proponendoci un nuovo punto di vista, come si vede nelle sequenze con la Gioconda di Leonardo, dove il piano tra spettatore e oggetto dello sguardo si alterna e si confonde, cambiandone letteralmente e simbolicamente la prospettiva, per ricordarci come lo sguardo non possa mai essere neutro.

 

 

Tornando alle immagini e al loro intrinseco valore politico, il progetto di Theaster Gates, la cui ricerca si condensa in progetti complessi e pratiche di attivazione sociale, ha il pregio di portare alla luce un patrimonio di informazioni e di immagini di grande valore, in parte donato alla Stony Island Arts Bank Gallery, all’interno dell’ambiziosa Rebuild Foundation voluta da Gates stesso. La selezione di fotografie presentate in mostra non rende forse giustizia al capitale rappresentato dalla Johnson Collection e l’allestimento raffinato degli spazi dell’Osservatorio, dove si mescolano pezzi di arredamento provenienti dalla sede editoriale di Chicago, provini originali, copie delle riviste, gigantografie, in una certa misura offusca la percezione dello spettatore, blandito da una patina levigata e glamour che, a tratti, toglie mordente al progetto. La scelta di utilizzare dei supporti di legno su cui sono giustapposte le immagini, che riportano dati su luogo, data e autori degli scatti, inserite negli espositori disposti nella sala superiore, ha il pregio di invitare lo spettatore a interagire con le opere, dandogli la possibilità di maneggiarle e cambiando a proprio piacimento la selezione delle fotografie esposte; allo stesso tempo, la foto-oggetto così montata assume un valore decorativo che ne attenua la carica espressiva. Gates – la cui cifra espressiva appare forse più efficace nei progetti su vasta scala –, sottolinea il desiderio di celebrare la bellezza femminile attraverso gli scatti di modelle e donne comuni, ed è certo stimolante la possibilità, solitamente preclusa al pubblico, di accedere a materiali esclusivi come quelli in mostra, scoprendo come un intero lessico visivo sia stato costruito e quali siano le spinte culturali che lo hanno determinato.

 

Rispolverando la nozione di “cultural identity” come “a matter of becoming as well as of being” (una questione di diventare oltre che di essere) indicata da Stuart Hall, padre nobile dei cultural studies britannici, nelle immagini in mostra si coglie tutta la stratificazione di elementi che hanno concorso a tracciare il perimetro di una identità in costante evoluzione: il retaggio di una cultura dominante (in questo caso di matrice bianca, protestante, anglosassone), la relazione dialettica con le altre minoranze, il rapporto con le origini, il riconoscimento della molteplicità all’interno della cultura (nella differenza). Le domande che sorgono dinanzi agli scatti scelti da Gates sono percìò cruciali: cosa stiamo davvero osservando? Quanto ci raccontano gli scatti di Moneta Sleet Jr. e Isaac Sutton, al di là della loro immediata e apparente trasparenza? Qual è il rapporto tra istituzioni, comunità afroamericana, estetica e potere? In che termini la cultura della diaspora ha problematizzato e arricchito la cultura statunitense, e può essere considerata una forma di resistenza attiva al concetto sempre più rigido di appartenenza (riprendendo Paul Gilroy)?

 

Si tratta di riflessioni che nascono dalla constatazione che l’iconografia della classe media afroamericana sia ancora un “non-visto”, qualcosa a cui gli spettatori si affacciano in maniera organica per la prima volta. Un’iconografia dove il conflitto lascia spazio a una apparente normatività di valori e di forme, i cui singoli elementi compongono una storia visiva che necessita ancora di essere decifrata, con tutte le sue implicazioni. 

 

 

Dal Sidney Poitiers di Indovina chi viene a cena? del 1967 alla coppia presidenziale Michelle e Barack Obama, che hanno rappresentato la versione più alta dell’idea di una borghesia nera colta, moderata e democratica, molte cose sono cambiate, ma la complessità della questione inerente alla rappresentazione e al ruolo della comunità afroamericana nella società statunitense non appare diminuita, né sembrano essersi sciolti i nodi che sottendono alle riflessioni sulle società multiculturali. Di fronte alla crisi globale dei modelli liberali, la risposta di chiusura espressa dal governo ultraconservatore e ultraliberista degli USA e dalle forze populiste internazionali che bramano un ritorno a un mondo di stati nazionali, barricati contro lo spettro del globalismo, ripropongono con urgenza le questioni inerenti all’identità, alle migrazioni e ai modelli di convivenza. Appare significativo quindi che il Getty Research Institute di Los Angeles abbia annunciato il lancio del programma “The African American Art History Initiative” (AAAHI), dedicato interamente allo studio e la promozione dell’arte afroamericana, un programma reso possibile da un endowment di cinque milioni di dollari, che segna un passaggio importante nel riconoscimento da parte delle istituzioni del ruolo svolto dalla cultura “black” all’interno della storia culturale degli Stati Uniti, ruolo che necessita di essere indagato e definito in maniera esaustiva.

 

Sempre Spike Lee, nella conversazione tenutasi presso gli spazi di Prada, ha ricordato senza giri di parole “The foundation of United States of America was built upon genocide of the native people and slavery” (Le fondamenta degli Stati Uniti sono state costruite sul genocidio della popolazione nativa e sulla schiavitù), chiarendo come la schiavitù e la diaspora siano ferite ancora aperte nella storia americana e una parte dolorosamente fondante di essa, fatto che si riflette nello sguardo che gli americani hanno tutt’oggi nei confronti della popolazione nera e nel modo in cui essa stessa si rappresenta. Non è un caso se si è dovuto attendere il 2018 per assistere al debutto sul grande schermo del primo supereroe nero, Black Panther, protagonista del film di Ryan Coogler e creato dal genio di Stan Lee e Jack Kirby, un personaggio che fece la sua prima apparizione in un album del 1966 ma che ha dovuto attendere ben cinquantadue anni per avere spazio. Un clamoroso successo di pubblico nello stesso anno in cui Beyoncé ha riempito le cronache divenendo la prima star ad ottenere la possibilità di decidere foto e didascalie inerenti al servizio a lei dedicato sul “September Issue” di Vogue, il numero più importante dell’anno: un privilegio mai concesso prima, che la pop star ha voluto rivendicare scegliendo di essere ritratta da un giovanissimo fotografo, Tyler Mitchell, il primo fotografo afroamericano in oltre centoventi anni di storia della rivista: segnali visivi di una cultura la cui storia è ancora da scrivere. 

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Come acqua nella sabbia

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L’acqua mancherà. Come leggende portate da viaggiatori stanchi cominciamo a sentire che l’acqua sta mancando, ma sta mancando in posti così lontani che le nostre docce continuano a scorrere come fontane e i nostri prati in giardino sono lucenti e floridi. Queste leggende tristi e fantasiose raccontano di falde inquinate, di deserti che avanzano, e alcune storie assurde sembrano l’eco di distopie e complotti, in cui i prìncipi del profitto e gli oligarchi della notte si stanno accaparrando tutte le fonti della terra. Alcuni di loro starebbero costruendo delle dighe immense, che asciugano a valle le terre dei popoli poveri. Altri starebbero chiudendo come casseforti l’accesso a immensi laghi sotterranei, in attesa di aridità future, per spillare col contagocce e a caro prezzo l’elemento essenziale della vita. Ma non adesso, vero? Forse domani, o in un remoto dopodomani che non ci tocca. Invece sta accadendo adesso, e non c’è nemmeno bisogno di imbavagliare Cassandra, perché quasi tutto nel nostro presente ci ha educato alla Grande Ucronia. La macroeconomia, che un tempo ragionava in termini di decenni, si accontenta oggi di prevedere un trimestre, il consumismo neoliberista ci racconta che tutto è subito, la negazione e l’oblio della storia stanno educando generazioni intere al qui-adesso della rete, la post-verità allena le menti a non allenarsi più, a rinunciare al pensiero critico, all’analisi, anche solo al buon senso.

 

Jared Diamond ha scritto centinaia di pagine per tentare di capire in che modo molte culture della terra hanno conosciuto un collasso socio-economico senza riuscire a rendersi conto della catastrofe che stava arrivando. Centinaia di pagine che, dall’isola di Pasqua alla Groenlandia dei coloni islandesi alla Cina attuale, vogliono sondare la miopia storica, l’incapacità di leggere i segni, la tendenza a voltare la testa dall’altro lato perché in un misto di arroganza e di speranza metafisica arriviamo a credere che tutto un giorno si aggiusterà, che tutto si rimetterà a posto. È come se nella genetica della specie ci fosse annidata un’informazione-trappola che ci spinge a pensare per il meglio, che no, non sta veramente capitando a noi. È quello che aveva osservato Bruce Chatwin intervistando Bob Brain, un paleontologo che aveva studiato in Sudafrica i reperti ossei del Dinofelis. Il Dinofelis era una specie di tigre con i denti a sciabola vissuta un milione di anni fa che stava per sterminare l’uomo, gli piacevamo, insomma, ma poi, quasi al limite, abbiamo scoperto il fuoco e siamo scampati per miracolo all’estinzione. Per capire il Dinofelis Bob Brain aveva studiato il comportamento dei grandi felini africani attuali, in particolare quelli che preferiscono mangiare i primati. In questo modo gli capitò di osservare il comportamento di un gruppo di babbuini che viveva sull’orlo di una grotta di origine vulcanica.

 

Francesco Jodice, Aral_ Citytellers, 2010 Film HD, 48’06’’ Courtesy the artist and Michela Rizzo Gallery, Venice.

 

Il fondo della grotta era un reticolo di tunnel dove viveva un leopardo. Il leopardo si muoveva di notte e quando ne aveva voglia faceva self service sull’orlo della grotta: addentava un babbuino e lo trascinava con sé, tenendolo per la testa o una spalla, nel buio della sua tana. I babbuini schiamazzavano impazziti ogni volta il felino che si presentava, ma non abbandonavano la grotta, restavano lì, in uno strano equilibrio instabile tra paura del mostro e paura della notte. Bob Brain fece anche un esperimento. Registrò i versi di un leopardo, si nascose in una grotta che ospitava un’altra comunità di babbuini e a notte fonda accese a tutto volume il magnetofono. I babbuini gridarono impazziti, ma anche questa volta non fuggirono, restarono lì, incatenati alla loro inquietante e inspiegabile confort zone. Ma che cosa accadeva nella loro testa? Perché accettavano la convivenza con il puro orrore? Che cosa li spingeva all’inazione, al non reagire per sopravvivere? Chatwin non ha saputo rispondere, ma ci ha suggerito l’idea che forse nella loro testa passava un unico, ottuso, irresponsabile pensiero: questa notte non tocca a me. Un pensiero che non è ritagliato nel tessuto ottimista della speranza ma, al contrario, ha origine nella naturalezza biologica con cui sappiamo disinteressarci al destino di chi ci sta di fianco. È come se avessimo nel cervello un gene che ci aiuta a ignorare la fame, la sofferenza, la morte altrui, una specie di blocco dell’empatia che ci impedisce, se non al prezzo di qualche sforzo dell’immaginario, di identificarci ad esempio con un bambino che sta morendo di sete nell’Africa subsahariana, o con un migrante che affoga nel Mediterraneo. Tanto non è nostro figlio, o nostro fratello, vero?

 

Gaston Bachelard ha scritto pagine immense sull’acqua, ma la cosa più importante che ha fatto è stata quella di stringere un doppio legame simbolico tra l’acqua e l’immaginario. Non solo l’acqua porta con sé immagini complesse, ma l’immaginario in sé è portatore di una specie di fenomenologia acquatica, si comporta insomma come l’acqua, scorre, si adatta, inumidisce e irrora il pensiero, e ovviamente può inaridire. Il problema principale nel nostro modo di confrontarci oggi con il Dinofelis ecologico, quello che sta in agguato sul fondo del nostro futuro prossimo, è appunto l’inaridirsi dell’immaginario, la nostra incapacità di irrorare il pensiero di visioni vicarie che siano in grado di anticipare il futuro, di fare previsioni, di immedesimarci in chi verrà. Proviamo invece a immaginare che il Dinofelis, questa notte, verrà a prendere proprio noi, o uno dei nostri figli. Immaginiamo i loro occhi atterriti, la loro schiena che striscia sui ciottoli mentre il mostro li trascina nella sua tana di tenebra, immaginiamo il momento in cui le pupille soffocate si rovesceranno dentro le orbite perché le zanne avranno fermato la loro vita. Lucrezio parlava delle belve, e immaginava le carni degli uomini primigeni che finivano seppellite nelle tombe viventi delle fiere, nei loro stomaci furiosi. Immaginiamo. Ma l’immaginazione, come l’acqua, va via, e va curata. Non è illimitata, non è facile raccoglierla e usarla. Quasi tutto oggi, proprio come ci sta abituando a vivere in una specie di irresponsabile, eterno presente, ci sta anche distraendo dall’allenare individualmente l’immaginario. I motori di ricerca hanno sempre una prima risposta pronta da farci bere, il diluvio di informazione copre le lacune e la loro potenzialità creativa, le pratiche di ricerca di idee e immagini in rete sono così automatiche che da un lato non vogliamo più memorizzare nulla dall’altro rimandiamo a domani ogni vera ricerca, tanto è tutto là, per sempre.

 

Sì. Forse. Quello a cui non pensiamo è che i sistemi di accesso a quel tutto, l’ordine nelle risposte, la loro qualità e verità sono stati decisi da altri, perché non solo siamo così pazzi da delegare a terzi la gestione del potere e delle nostre vite, ma deleghiamo anche l’immaginario e, ancor prima dell’acqua, c’è chi lo sta immagazzinando in base alle proprie priorità, c’è chi sta alzando dighe per contenerlo e ridistribuirlo in base alle proprie regole. Ma se i flussi dell’immaginario sono controllati, se perdiamo l’autogestione delle immagini, allora la prima cosa che smetteremo di fare sarà appunto quella di immaginarci, e di immaginare l’altro. E allora ci basteranno le immagini di noi e degli altri che qualcuno avrà deciso al posto nostro, saremo conformisti in tutto e accetteremo di credere ai nemici, senza nemmeno fare uno sforzo personale per capire se sono davvero nemici. Marina Abramovich, ispirandosi ai fatti di cronaca italiani sulla gestione dei migranti in mare, ha usato lo slogan “siamo tutti sulla stessa barca”. Ora, in termini ecologici, questa barca è il pianeta che ci ospita. L’acqua sta cominciando a mancare lontano dal nostro naso, lontano dalle nostre labbra, ma sta già mancando, e l’apocalisse delle distopie e dei complotti è già realtà in un altrove che prima o poi saremo costretti a guardare.

 

Ma quando lo faremo sarà troppo tardi, perché forse questa notte non tocca a noi, ma ci toccherà domani, toccherà ai nostri figli, toccherà a chi avremmo dovuto saper immaginare ma non l’abbiamo fatto. Il mito di Narciso non ha a che fare solo con un ottuso innamoramento di sé. Ha a che fare anche con chi si accorge troppo tardi di scivolare nell’abisso. Immaginate allora un mondo desertico. Fatto di popoli che migrano, senza destino, lungo una salvifica e illusoria via dell’acqua. Ogni tanto, sulla via, ci sono torri che custodiscono piccole sorgenti, e ai piedi di queste torri i popoli si fanno la guerra, con pietre e bastoni, coi denti e le unghie. Poi, una dopo l’altra, anche le torri dell’acqua si seccheranno, le ossa dei popoli si sbiancheranno, e tutto quello che abbiamo scritto, detto, amato, immaginato sarà perduto per sempre. Come acqua nella sabbia.

 

Questo testo è nato come contributo al catalogo della mostra Post-Water, a cura di Andrea Lerda, al Museo Nazionale della Montagna di Torino, 26 ottobre 2018 – 17 marzo 2019.

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Parole e immagini per Salvare l’ora

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Per anni, da Giovanni Chiaramonte mi sono arrivate molte splendide immagini, nelle quali mi sono di volta in volta immerso e direi sprofondato, per cercare le parole che in loro fermentavano, e produrre quelle che chiamo descritture. Di recente, invece di una nuova serie di fotografie, ho cominciato a ricevere da lui un’affascinante sfilata di brevissime, fulminee poesie. La cosa mi ha sorpreso, ma non più di tanto: sapevo bene, per esperienza diretta, che la visione di Giovanni è segretamente, direi pudicamente animata di parole. 

 

Con la loro misura metrica, le poesie di Salvare l’ora rinviano alla forma giapponese dell’haiku (già ripresa in Italia tra Ottocento e Novecento da diversi poeti; un nome per tutti: Andrea Zanzotto). Negli haiku giapponesi, però, a dominare sono in genere gli elementi del mondo, presentati con distacco turbato, con palpitante ritegno. A dispetto di quello che la sua caratteristica tripartizione potrebbe far pensare, lo haiku giapponese rifugge dal ragionamento. Montagne, fiumi, fiori, animali, stagioni vi si presentano come enigmi “naturali”, che sfidano la parola. In questi brevissimi componimenti di Chiaramonte, invece, a prevalere (soprattutto nei primi testi della serie presentata insieme alle sue polaroid nella mostra Salvare l’ora) è la riflessione, la meditazione in forma di aforisma. I termini ricorrenti sono tempo, spazio, universo, abisso, nulla, Dio, infinito, silenzio. E poi ancora cuore, anima, ombra, pensiero, respiro, luce. E, naturalmente, sguardo:

 

 

Lo sguardo chiama

L’infinito ci ascolta

Si fa trovare

 

Qui si ha l’impressione di avere di fronte un’esposizione lampante della poetica del fotografo. Lo sguardo non è passiva ricezione dei dati del mondo, loro fredda registrazione: lo sguardo chiama, è una voce. L’infinito (sul quale Giovanni ha a lungo meditato e scritto) non è un elemento tecnico, ottico, della visione: è ascolto di quella voce che lo sguardo è; anche qui, non un ascolto passivo, un meccanico udire, ma un accogliere, un farsi trovare. L’occhio cerca, chiama; l’infinito gli risponde, gli corrisponde per sua benevolente, misteriosa, altissima disposizione. 

 

 

A poco a poco, nella raccolta, affiorano (come nell’haiku giapponese) le parvenze del mondo: ecco la pioggia, le nuvole, l’azzurro, la neve, un sentiero, degli alberi, un gelsomino, un merlo (unica presenza animale), case, vetri, gocce, asfalto, brezza, mare, sabbia, conchiglie… Ma noi ora sappiamo, sentiamo, che queste figure nascono dall’ascolto che l’infinito dà allo sguardo. Come nella fotografia di Giovanni. Qui però il visibile – il visibilio – ha trovato una lingua; la voce dello sguardo parla italiano. È come se Chiaramonte ci rivelasse la parola che tace al fondo delle sue immagini. Una parola che chiama, che invoca, che si sporge oltre se stessa, cercando il proprio limite. Cosa c’è, oltre quel limite? 

 

Dove il pensiero

Si interrompe in frantumi

Inizia l’altro. 

 

Le foto della serie Salvare l’ora, in mostra alla galleria ExpoWall di Milano dal 15 novembre al 20 dicembre 2018, si discostano per molti aspetti da quelle a cui Chiaramonte ci ha abituati. 

Molti anni fa, visitando non so che mostra alla Triennale, quando ancora non conoscevo Giovanni come fotografo (ci eravamo incontrati durante il servizio militare, e poi persi di vista), ricordo di essere stato attratto da una grande foto esposta tra molte altre (non sapevo che l’autore fosse lui): in quell’immagine, il “soggetto” quasi non c’era: quel poco che poteva svolgere la sua funzione (un personaggio di spalle, seduto su un parapetto, due batterie di fari spenti, una città in lontananza) era relegato nel margine inferiore; protagonista era il cielo, un cielo smisurato rispetto a quello che di solito si vede nelle fotografie (“Quanto cielo!”, pensavo tra me). Quel vuoto, quell’aria, quella luce, quell’etere, sembravano il vero centro dell’immagine. 

 

 

In Salvare l’ora, questo effetto di vertiginosa apertura non c’è: le polaroid faticherebbero, per loro natura, a reggere tanto spazio. Questo limite –programmaticamente accettato e anzi ricercato dal fotografo – genera un inusuale avvicinamento al visibile, una drammatica concentrazione. Spesso, come nella foto datata Milano 2011, è persino difficile identificare gli oggetti rappresentati; più che a un gioco di astrazione formale, questo conduce a uno smarrimento. In questo interno, non c’è niente di domestico. La macchina ha puntualmente registrato le cose, il mondo, qui e ora, ma la loro rassicurante familiarità si sottrae allo sguardo, che è sfidato a ritrovarla. 

Lo smarrimento è sottilmente enfatizzato dal rapporto che si stabilisce tra immagini e “titoli” (o per meglio dire datazioni): quella che in altri contesti costituirebbe una didascalia, un’informazione su luoghi e circostanze, una “spiegazione” intorno a ciò che si vede, risulta qui del tutto incongruente con l’oggetto che ci viene mostrato. L’effetto è quasi comico: a rappresentare la città di Milano in un certo anno è una scena tanto indecifrabile quanto fungibile. Date e luoghi vengono come vanificati, da un lato, ma dall’altro la loro natura, la loro problematica relazione con il vedere, emerge clamorosamente. L’ora si salva e si trasfigura nell’immagine. 

 

In altre immagini – Berlino 2011, Potsdam 2011– il centro– tipicamente sfuggente nella produzione precedente di Chiaramonte – riaffiora, lampante ma depotenziato: una piccola foglia gialla su uno sfondo di pietrisco, a Berlino; a Potsdam, una piuma bianca posata su un prato verdissimo. 

In un’altra foto – anch’essa datata Berlino 2011 – ad attrarre lo sguardo è una sorta di flabello sulla destra, un ventaglio chiaro che però – con la sua vistosità – non fa che rinviare al vero fuoco della scena, il tronco d’albero che si erge in ombra nel mezzo di un bosco allettante e pauroso come quello delle favole. 

 

 

 

Ancora un bosco appare nell’immagine datata come altre Berlino 2011, ma col sottotitolo Sole nero, dove sotto un cielo crepuscolare (in realtà in pieno giorno) si affaccia, tra le fronde scure, un disco puntiforme, se possibile ancora più scuro, nerissimo, circondato da un’aureola stellante. Il sole, appunto. 

L’effetto ottico – di per sé spettacolare – si carica di senso: la fonte di ogni luce è il punto più profondamente buio dell’immagine; sole e sguardo – sorgenti simmetriche del visibile – si fondono in un solo occhio, cieco e raggiante.  

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Giovanni Chiaramonte
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