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Francesco Vezzoli. Love Stories

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L'immagine che ha inaugurato il nuovo progetto digitale di Francesco Vezzoli, curato da Eva Fabbris, è la Giuditta e Oloferne di Caravaggio. Sovrapposti al dipinto, due testi: il nome dell'autore e “American Horror Story”, titolo di una celebre serie tv. Per tutti i giorni a seguire, sul canale Instagram della Fondazione Prada, con cadenza quotidiana, sono state pubblicate immagini di coppie più o meno celebri: Fidel Castro e Gina Lollobrigida, Charlotte Rampling in una scena di Il portiere di notte, Picasso e Dora Maar, due donne dipinte da Toulouse Lautrec, Liz Taylor e Richard Burton in Cleopatra. Ogni foto presenta un sondaggio, un breve testo ironico che invita l'utente a una scelta binaria, come nel caso del dipinto caravaggesco. Ogni immagine è accompagnata da arie di Verdi, Mozart, Rossini, Bellini, una colonna sonora dal carattere melò, in puro stile Vezzoli.

 

A un primo sguardo, il nuovo progetto dell'artista bresciano intitolato Love Storiesè spiazzante. Si tratta di un progetto interamente e nativamente digitale, una riflessione in forma artistica sul tema della coppia. Per l'occasione, Fondazione Prada ha messo a disposizione il proprio canale Instagram, che diventa a tutti gli effetti la piattaforma distributiva e la sede espositiva virtuale dell'opera. Vezzoli, che da alcuni anni affianca alla produzione artistica la curatela e la progettazione di sue mostre, in questo caso opta per un'opera collettiva, in divenire, utilizzando gli strumenti messi a disposizione da un social media per effettuare un'incursione estetica che prosegue idealmente il discorso iniziato nel 2004 con Comizi di non amore, opera che segna anche l'inizio della collaborazione con Fondazione Prada. Love Stories si completa grazie all'appuntamento settimanale delle dirette, nelle quali l'artista intrattiene una conversazione con un ospite chiamato a commentare i risultati dei sondaggi della settimana, come nel caso di Klaus Biesenbach, direttore del MOCA di Los Angeles, o dello storico dell'arte Salvatore Settis.

 

Love Stories, A sentimental survey, Francesco Vezzoli.


Frammenti di un discorso amoroso si apre con una nota di Roland Barthes:

 

“La necessità di questo libro sta nella seguente considerazione: il discorso amoroso oggi è d'una estrema solitudine. Questo discorso è forse parlato da migliaia di individui (chi può dirlo?), ma non è sostenuto da nessuno; esso si trova ad essere completamente abbandonato dai discorsi vicini: oppure è da questi ignorato, svalutato, schernito, tagliato fuori non solo dal potere, ma anche dai suoi meccanismi (scienze, arti, sapere). Quando un discorso viene, dalla sua propria forza, trascinato in questo modo nella deriva dell'inattuale, espulso da ogni forma di gregarietà, non gli resta altro che essere il luogo, non importa quanto esiguo, di un'affermazione. Quest'affermazione è in definitiva l'argomento del libro che qui ha inizio.”

 

Anche il discorso di Vezzoli appare come un discorso inattuale, e in un'apparente contraddizione, fa emergere il carattere di un lavoro che rivela una profonda aderenza al presente se non una capacità predittiva: si pensi per esempio a Democrazy, opera presentata alla Biennale del 2007, in cui lo slogan di Patricia Hill, una dei due candidati alle presidenziali interpretata da Sharon Stone, era Make America Strong, claim che anticipava in maniera sorprendente il recente Make America Great Again trumpiano. Vezzoli però, a differenza di Barthes, non seziona il discorso amoroso, ma intraprende una sentimental survey, interrogandosi su cosa sia oggi la “figura” della coppia.

 

Love Stories, A sentimental survey, Francesco Vezzoli.


Sebbene lo strumento scelto per la sua riflessione sia totalmente contemporaneo – la piattaforma digitale –, la sua inattualità risiede nell'intrattabilità del tema (facendo riferimento di nuovo ai Frammenti): ecco allora che Vezzoli non dice, non afferma, ma costruisce la cornice entro la quale l'idea della coppia, anzi più precisamente un'immagine della coppia possa manifestarsi, affiorare in superficie attraverso il sentiment – non più il sentimento – della Rete. 

 

Facendo un passo a ritroso, torniamo nel 2004, anno di Comizi di non amore, opera nella quale l'artista reinterpreta i canoni del cinema-verità attraverso i meccanismi del reality show. Il video è parte della Trilogia della Morte, dedicata a Pier Paolo Pasolini, che nel 1963 intraprende un viaggio per l'Italia con l'obiettivo di realizzare uno documentario attraverso il quale raccontare il rapporto degli italiani con la sessualità e l'amore. Per quasi un anno, Pasolini intervista persone differenti per ceto sociale, età, provenienza geografica. Il risultato è un film dissacrante, percorso da una palese ironia, da cui emerge tutta l'ingenuità e il bigottismo di un Paese in pieno boom economico ma segnato da una doppia morale, dalla quale solo le voci di alcune giovani ragazze sembrano parzialmente discostarsi. Nell'opera del 2004, Vezzoli prende spunto dal lavoro di Pasolini e lo reinventa costruendo un reality show alla Uomini e donne, dove degli improbabili aspiranti latin lover corteggiano icone del cinema come Catherine Deneuve. Osservatore attento dei meccanismi della celebrità e del media televisivo, Vezzoli individua nel reality un nuovo paradigma che riflette e influenza l'immaginario popolare, come uno specchio deformante. Nel reality le parole del discorso amoroso vengono prese e tradotte in cliché, il trash trova piena espressione e si avvia quel processo di finzionalizzazione e spettacolarizzazione del privato che troverà un pieno compimento nell'avvento dei social media. Love Stories è quindi un passo ulteriore e coerente nella ricerca di Vezzoli, non tanto e non più nella messa in scena di un personale mondo di memorie intime e collettive il cui nucleo fa riferimento essenzialmente all'immaginario popolare della tv, anche quando chiama in causa il cinema d'autore, quanto invece nella riflessione attorno al tema della verità, una delle “magnifiche ossessioni” dell'artista.

 

Love Stories, A sentimental survey, Francesco Vezzoli.


Vezzoli esordisce ricamando ritratti di dive su cui appone, come una firma, delle lacrime colorate. Lavori dove il kitsch viene esibito e maneggiato in maniera consapevole, evidenziandone l'intrinseca tragicità, per poi tramutarsi in camp, categoria che aderisce pienamente al lavoro dell'artista bresciano. C'è una tensione evidente nell'innalzare l'oggetto dello sguardo che è al contempo un oggetto del desiderio, nel trasformarlo in un'opera d'arte, tensione però sempre stemperata dall'ironia: si pensi per esempio a Iva Zanicchi che canta nel salotto di Mario Praz in Ok, the Praz is right!, primo episodio di An embroidered trilogy (1997-99), diretto da John Maybury, in un cortocircuito tra storia reale e finzione filmica (Mario Praz ricamava e i cuscini del salotto che appaiono nel video sono di sua fattura, la Zanicchi è interprete del brano principale di Gruppo di famiglia in un interno, pellicola del 1974 diretta da Luchino Visconti, liberamente ispirata alla vita dello stesso Praz, ndr).

Si può dire che Vezzoli, anche dopo la prima fase della propria carriera, abbia sempre operato in termini di ricamo, ovvero creando una trama che lega passato e presente, alto e basso, sacro e profano, istituendo delle relazioni estetiche tra soggetti solo all'apparenza distanti e provando a fondare nuove, inaspettate dialettiche. Categorie cristallizzate vengono riconsiderate attraverso l'accostamento imprevedibile di matrice surrealista, opere stratificate, piene di citazioni e di rimandi in un gioco tipicamente postmoderno che tende a moltiplicarsi come una sala degli specchi, passando attraverso operazioni sempre più imponenti, coinvolgendo istituzioni sempre più prestigiose, sdoppiandosi nel ruolo di artista e curatore come per Museo Museion – Francesco Vezzoli a Bolzano nel 2016 o in Tv 70: Francesco Vezzoli guarda la Rai, mostra del 2017 alla Fondazione Prada di Milano. Anche in veste curatoriale, Vezzoli procede in una meticolosa tessitura che lo conduce ad abbandonare progressivamente l'auto-esposizione per lasciare spazio ad altri soggetti d'indagine, come avviene in Huysmans, de Degas à Grünewald sous le regard de Francesco Vezzoli al Musée D'Orsay di Parigi, dove concentra la propria attenzione sulla figura del critico francese, o nello stesso Love Stories. Sottraendosi fisicamente ma rimanendo in presenza, proprio come fa un brand di successo.

 

Love Stories, A sentimental survey, Francesco Vezzoli.


Tutta la ricerca di Vezzoli è “attorno a” qualcosa e in questo carattere meta-artistico si insinua quel tragico di cui si accennava: la distanza che si pone tra l'oggetto del desiderio e colui che desidera, tra l'amato e l'amante, tra l'opera d'arte e la riflessione sull'opera d'arte. The stuff that dreams are made of in fondo potrebbero non essere altro che immagini, immagini che alimentano il pozzo senza fondo del desiderio.

Love Stories oscilla in mezzo a due poli: da un lato il discorso amoroso, che mette in scena un'idea della coppia e che apre a riflessioni di natura culturale: i protagonisti delle immagini sono riconoscibili dagli utenti? Chi risponde e come ai quesiti dei sondaggi? Che parte del discorso rimane esclusa dall'indagine e che valore ha un sondaggio di Instagram? Cosa ci dicono del nostro presente le immagini che Vezzoli ci sottopone?), dall'altra tocca il tema della relazione abissale tra verità e immagine. Tra le pieghe del gioco a cui Vezzoli invita gli utenti s'insinua un'ombra, ed è un'ombra ingombrante. Barthes scrive “la sensazione di verità va curiosamente a situarsi nelle pieghe più recondite dell'illusione”. Dietro la leggerezza del gioco si apre e si ramifica un sottobosco di possibili significati, di domande e di istantanee apparizioni, che riverberano da un altrove lontano.

Barthes torna ancora a soccorrerci mentre parla del Werther di Goethe: “non è la verità a essere vera, è il rapporto con l'illusione che diventa vero.” Tutta la parabola di Vezzoli si incunea nel rapporto con l'illusione, ed è lo stesso artista che più volte dichiara di non avere l'intenzione programmatica di fare arte quanto di realizzare i propri sogni. Addirittura, di intrattenersi con i propri lavori, di “alleviarsi”.

 

Love Stories, A sentimental survey, Francesco Vezzoli.


Il doppio movimento che osserviamo quindi è un tentativo di uscire da una condizione umana e individuale avvertita come gravosa per accedere a uno stato di grazia, che è quella propria del sogno che si avvera, sfuggendo alla solitudine della dimensione onirica. Vezzoli però non aderisce al regime dello spettacolo ma si inscrive nel territorio dell'arte e i suoi lavori, se da un lato ambiscono a godere di quella la leggerezza propria dei prodotti di intrattenimento, dall'altra sono oggetti visivi carichi di problematicità. Cosa vediamo oltre le immagini che si susseguono giorno dopo giorno sul canale Instagram, dietro un campionario di coppie che scorre come una collezione di figurine sotto i nostri pollici educati ad accarezzare schermi ormai sensibili come superfici epidermiche? Il nostro volto di spettatori colti nella sospensione di incredulità, dimentichi della natura degli strumenti che utilizziamo, a tutti gli effetti percepiti come propaggini del corpo. Ecco che l'opera d'arte, attraverso la finzione stessa che decide di mettere in atto, disvela l'inganno, ci restituisce per un istante a noi stessi, risvegliati.

Love Stories si colloca su un piano dove la finzione e la (pretesa di) realtà collassano l'una sull'altra: il social media è per definizione uno strumento del reale amplificato, che agisce come un anabolizzante sulla quotidianità e insinua l'idea – falsa – che esista un potenziale pubblico in ascolto, privilegio che rimane in realtà appannaggio di celebrities seguite da milioni di follower. Per contro, vampirizza il tempo e l'attenzione dell'utente, immergendolo il flusso di contenuti pensati per intrattenerlo. Qui Vezzoli non ha più neanche bisogno di ricreare un finto reality-show, come nel caso di Comizi di non amore: il social media è poroso, accogliente, si presta per essere “colonizzato” dall'opera d'arte.

 

L'artista riesce temporaneamente a hackerarlo, sebbene poi l'opera corra il rischio concreto di essere assimilata nel flusso ininterrotto e omologante dei contenuti, triturati in un processo digestivo inesorabile. Le risposte degli utenti compongono il mosaico dell'opera e, al contempo, alimentano l'algoritmo, restituendo in parte una versione elaborata dalla macchina (nei dati crudi dei sondaggi), in parte dall'artista (nei momenti di riflessione domenicali). In questa forma ibrida si rileva l'efficacia del progetto voluto da Vezzoli, che è attento a costruire un lavoro compiutamente digitale, una forma nella quale si concretizza però anche il pericolo di neutralizzazione dell'opera stessa da parte delle piattaforme, che assimilano e annichiliscono ogni contenuto potenzialmente divergente dalle logiche dell'algoritmo.

Parafrasando il cartello finale di Comizi d'amore, di Love Stories si potrebbe dire “dove l’autore, deposta ogni idealistica ambizione, va raccogliendo materiale per un grande monumento alla vecchissima, innocentissima, caldissima Italia degli anni Duemilaventi.” Un monumento effimero in un paesaggio che di caldissimo ormai sembra conservare solo l'illusione del desiderio, anch'esso – come gli utenti, come la realtà tutta – minacciato dall'incombente presenza del proprio replicante digitale, un Golem modellato con i dati che ognuno di noi semina ogni istante in Rete.

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Il mio amico Luigi Ghirri

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Opera di Luigi Ghirri.

Gli esseri umani sono il mosaico del mondo che li circonda. Quel mondo che ci entra dentro, ci dà vita e che bisogna lasciar passare senza opporre resistenza. La fotografia di Luigi Ghirri è il mondo in cui siamo immersi, che ha origine dall’infanzia e che prosegue naturalmente nel corso della vita.

Vanni Codeluppi ripercorre in un piccolo libro la Vitadi Luigi Ghirri. Fotografia, arte, letteratura e musica (Carocci Editore, 2020), e lo fa attraverso l’intersezione di lievi racconti biografici, il pensiero del fotografo e l’interpretazione di dieci immagini emblematiche della sterminata produzione ghirriana, anteposte ai dieci capitoli di cui si compone il libro.

Luigi, come l’autore lo chiama lungo tutto il racconto perché possa distinguersi dagli altri personaggi citati, da piccolo vive in campagna sviluppando quel senso di appartenenza al territorio della sua nascita che lo accompagnerà per tutta la vita. Ha una mente acuta e curiosa, osserva e vuole sapere, aspetto che sarà una caratteristica costante del suo futuro guardare fotografico, un concetto che funge da filo conduttore in tutto il testo.

 

Seguire le “stazioni” che ci vengono proposte è indispensabile per capire da dove partono tutti i pensieri di Luigi. Come, ad esempio, quello di Infinito. Luigi lo incontra per la prima volta quando con la famiglia alla fine della guerra approda nella casa-villaggio di Braida. Il disegno del simbolo è incastonato nel pavimento di marmo quasi a predire quell’orizzonte ampio e aperto che spesso fotograferà. O ancora: collezionare oggetti, come le cartoline. Il padre gliele porta in dono tornando dai suoi viaggi di lavoro, Luigi le raccoglierà per tutta la vita. La vastità del mondo gli passa tra le mani già in tenera età.

Tutto il lavoro fotografico di Luigi ha origine nella sua infanzia e adolescenza. Attraversa le immagini di un film in bianco e nero che ha per protagonisti Stan Laurel e Oliver Hardy, l’enciclopedia che sempre il padre regalerà a lui e a sua sorella Roberta perché si facciano una cultura, i trompe l’oeil sulle pareti della cucina di zia Leopoldina. Come un archeologo Vanni Codeluppi scava nella terra di una vita intensa cercando reperti preziosi che collega, per trovare una forma compiuta.

 

La fotografia scattata a Scandiano nel 1971 che apre il volume, mostra un paesaggio anonimo, tuttavia Luigi, attraverso una composizione molto ben studiata, ne evidenzia un particolare sul quale si posa inevitabilmente l’occhio dell’osservatore: un’apertura quadrata all’interno di una rete metallica funge da schermo permettendo allo spettatore di “vedere oltre”. Ciò che compie l’autore non è però un semplice atto dimostrativo/didattico bensì l’evidenza di come si guardano le cose o meglio: di come le cose vogliono essere guardate. 

A ulteriore dimostrazione di ciò Codeluppi cita la storia di una fotografia importante nella formazione di Luigi, scattata dall’astronauta Bill Andersen nel 1968 mentre è in orbita attorno alla Luna (Luigi ha 25 anni). Si tratta di un’immagine che mostra la Terra “vista da fuori”. È un’immagine in cui appare evidente l’idea non tanto di documentare un evento quanto quella di “guardare” ciò che è impossibile vedere. Che cosa si vede e che cosa “non” si vede in quella fotografia? L’essere umano. 

Eppure l’uomo è dentro la fotografia ma è anche fuori. Fuori da se stesso poiché il mondo e quindi l’uomo è composto, lo ricordiamo, di tutti quei tasselli che lo circondano, è un Unico finito e infinito. Dunque l’uomo fotografa il non fotografabile, è parte integrante del processo di conoscenza e al tempo stesso è estraneo al “fotografato”. Tutto questo genererà “Atlante”, un lavoro in cui Luigi riprende una serie di mappe: fotografa cioè un concetto, di per sé non fotografabile.

 

Luigi è molto attratto anche dal mondo dell’arte che ha approcciato sui libri, a partire da quella famosa enciclopedia che suo padre gli regalò da piccolo. Le opere d’arte entrano nella composizione delle sue inquadrature che spesso dispongono di una prospettiva centrale, semplice, comprensibile, pulita. Ma l’arte è anche rottura, discussione, in particolare negli anni Settanta. Avviene così che Luigi, frequentando alcuni artisti concettuali modenesi tra i quali Guerzoni e Vaccari, venga traghettato ancor più verso un tipo di immagine concettuale che lo interesserà molto senza però fargli mai oltrepassare la linea di demarcazione tra fotografia e arte contemporanea. Luigi è più interessato all’atto del guardare che all’uso decontestualizzato delle cose e dei luoghi. È più interessato al reale. La forma in cui fotografa è composta da una sorta di sedimentazione dell’osservazione che riempie uno spazio dato, emergendo da esso.

 

Altre influenze che corroborano questo approccio di tipo non documentale sono le ricerche di Ugo Mulas con le sue Verifiche realizzate sempre negli anni Settanta, il pensiero del filosofo Merleau-Ponty e quello dell’antropologo Lévi-Strauss, come a sottolineare che lo stimolo a osservare e a vedere oltre si evidenzia grazie al confrontarsi di diverse visioni scaturenti da altri linguaggi e altre esperienze.

Molta parte delle immagini scattate da Luigi sono rappresentazioni delle zone in cui è nato e cresciuto e in cui ha sempre vissuto. Sono immagini che Luigi scatta durante il percorso quotidiano che fa per recarsi ogni giorno al lavoro di geometra che svolge per l’azienda Immobiliare Zeta di Paolo Zanasi. La trasformazione del paesaggio provinciale che Luigi ritrae scaturisce dal benessere degli anni Sessanta post-ricostruzione bellica, si evidenzia nelle numerose villette piccolo borghesi che spuntano come funghi, con accompagnamento di schiere di nanetti e Biancaneve nel piccolo giardino antistante. L’osservazione di Luigi si concentra sulla normalità che assume velocemente un aspetto sempre più omologato e innaturale, completamente avulso dalla realtà. Le villette che fotografa sono le stesse che progetta durante la settimana lavorativa. Questo crea un cortocircuito visivo poiché l’autore delle immagini sa bene di cosa tratta l’oggetto che sta riprendendo: attraverso lo scatto fotografico egli conduce un atto di auto-critica. Ma a Luigi non interessa “interpretare”, vuole principalmente osservare il processo che ha trasformato il mondo in quello che è.    

 

Berlinguer, foto di Luigi Ghirri.


L’incontro con la fotografia di Walker Evans, gli fa capire che sta percorrendo la strada giusta. Evans, pur operando in un contesto socio-economico e in un momento storico totalmente differente, osserva il mondo attorno a sé così com’è. E infatti quella di Evans non fu mai fotografia documentaria, nemmeno in quella occasione, bensì puntuale osservazione della realtà, senza alterazione né concessione all’interpretazione. Potremmo dire che Evans prima e Luigi dopo fotografarono il “realismo dell’epoca”. Come scriverà Franco Vaccari: “La sua fotografia [di Ghirri] è asciutta, guarda direttamente le cose; non ammicca, non cerca la complicità di chi guarda”.

A metà degli anni Settanta Luigi fonda uno studio che chiamerà Infinito, come a sottolineare un concetto preciso sul quale si basa ogni aspetto della sua ricerca fotografica al tempo stesso concreto e immateriale. Infinito è l’edificio nel quale abitò con la sua famiglia dopo la guerra, infinita è la campagna della pianura padana testimone del nulla, infinito è il cielo che seppure fotografato a pezzetti per 365 volte non potrà mai essere veramente frammentato. È su aspetti indecifrabili come questi che si catalizza l’attenzione di Luigi, protesa verso una comprensione a volte irraggiungibile. Per condurre la propria ricerca Luigi si avvale della trasformazione che la realtà subisce attraverso la rappresentazione fotografica che da verità diviene artificio poiché la realtà, oltre ad essere soggettiva, non può in alcun modo essere fermata in una inquadratura, anche solo per il fatto di escludere da essa – per scelta autoriale – altre porzioni della realtà medesima. Come a sottolineare il desiderio di capire che accompagna il suo fotografare Luigi afferma: “Il mio impegno è vedere con chiarezza. […] la fotografia non è una pura forma d’arte”. 

La sua estetica, riconoscibile per quei colori saturi assimilabili alla fotografia di massa che usa le diapositive per ritrarre scene di vita quotidiana, lo avvicina al pubblico. Ma pur mostrandosi con uno stilema popolare, Luigi evidenzia oggetti e luoghi che tendono a innescare un atto di riflessione sul mondo che si trasforma. Non cerca un proprio stile, eppure questa sua peculiarità lo porterà ad avere una cifra stilistica inconfondibile.

 

Ciò fa sì che la fotografia di Luigi sfugga ad ogni classificazione dimostrando, a chi ancora non lo volesse accettare, che il linguaggio fotografico non può essere ridotto all’appartenenza a un “genere”. Meno ancora quella di Luigi si può definire fotografia di paesaggio poiché, pur ritraendo la realtà, essa non la rappresenta. Si può dire piuttosto che viaggi sul filo dei ricordi e della memoria. La fotografia di Luigi riprende il quotidiano vivere contemporaneo affondando le mani nel passato, secondo quel banale principio che vuole il presente possibile solo perché c’è stato un vissuto.

Dunque Luigi elabora continuamente il proprio vissuto, ciò che ha osservato con la curiosità di bambino e di adolescente prima e di adulto poi, intersecando i pensieri, le riflessioni, la vita intima e quella pubblica. Per questo la sua fotografia è inclassificabile, sfugge a qualsiasi etichetta di genere divenendo innovativa. Infatti, quando si recherà ad Arles per promuovere il suo lavoro (nel 1978 per la prima volta), otterrà scarsa considerazione, le sue immagini verranno definite “eccentriche” rispetto allo standard fotografico imperante. 

 

Luigi poi possiede una caratteristica divenuta ormai molto rara nell’ambiente della fotografia cosiddetta “autoriale”: è generoso. Negli anni coinvolge molti amici fotografi in altrettanti progetti di cui è spesso curatore. Una di queste occasioni, forse la più commovente, è quella che lo vede protagonista assieme a Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Vincenzo Castella e Mario Cresci di una commissione ricevuta dal PCI quando, nel 1983, gli viene chiesto di documentare la festa nazionale dell’Unità che si svolge a Reggio Emilia. In questa occasione Luigi scatterà la celebre fotografia che ritrae Enrico Berlinguer di spalle, durante il comizio di chiusura. Questa fotografia, come racconta l’autore del libro, farà decidere a Luigi di tornare a votare e a votare per Berlinguer. La fotografia in questione cattura il “corpo” della folla, non come accade oggi il volto del leader. In questa immagine c’è tutta la commozione e l’umanità di un uomo che osserva una realtà “fantastica” e anche la resistenza dell’uomo solo davanti al mondo, scevro di protagonismo: tutto assieme.

 

A metà degli anni Ottanta l’estetica delle immagini di Luigi si sposta da quel pastoso colore un po’ grezzo che lo ha caratterizzato fino a quel momento a un delicato tono che misura il passaggio a una fotografia per certi aspetti più onirica, ammantata di malinconia come quella che realizza nei territori lungo la via Emilia – Esplorazioni sulla via Emilia– ispirandosi anche qui a qualcosa che non ha apparentemente nulla a che vedere con la fotografia: il testo di un brano dell’amatissimo Bob Dylan Highway 61. Ancora una volta Luigi dimostra qui come non esista il “progetto originale” ma tutto sia contaminato e come ogni cosa può ispirare un’osservazione diversa.

A sottolineare maggiormente questo concetto, viene un progetto al quale nel 1988 Luigi lavora assieme al sociologo/filosofo Jean Baudrillard e al regista cinematografico Wim Wenders, entrambi anche fotografi. Luigi si confronta con autori “diversi”, cerca un altro sguardo perché stanco di quello dei fotografi, si misura con idee più articolate che poco hanno a che fare con la fotografia tradizionale: è come se per potersi esprimere al meglio egli dovesse uscire non soltanto da un confine territoriale, che pure è parte integrante del suo guardare, ma anche da quello della fotografia stessa, perché soltanto così la dimensione della sua ricerca può andare avanti.

 

Troppo spesso la fotografia di Luigi viene ricordata come quella della pianura padana, in una sorta di restrizione tipicamente provinciale atta a voler “definire” con dei confini precisi il suo guardare. In realtà Luigi ha fotografato anche molto altro eppure questo altro non emerge tanto quanto l’osservazione del suo territorio, quasi come a voler “confinare” l’opera di un autore che, viceversa, ha voluto distruggere i confini con la sua capacità di spaziare dal suo studio, un luogo molto intimo, alla vastità del territorio americano. Ma la pianura di Luigi non è diversa dalla pianura di un altro luogo qualsiasi: “È la luce la sostanza reale che dà forma alle mie immagini – dice – attraverso la luce finisce per rivelarsi sulla superficie del mondo anche qualcosa di apparentemente invisibile”.

 

Una citazione cara a Luigi e attribuita a Roberto Rossellini – Sto cercando un’immagine semplice, per mostrare senza dimostrare – calza a pennello al suo modo di produrre fotografie che, allo sguardo superficiale di qualcuno forse appaiono un po’ banali, ma questa è la realtà. 

Dopo la morte di Luigi saranno molti gli autori che sulla “scoperta” di questa banalità fonderanno la propria esistenza di fotografi, molto spesso però senza la stessa intensità. 

Alfine quello che Vanni Codeluppi traccia in questo libretto affettuoso è il poetico racconto di una vita vera narrata attraverso note biografiche e pensieri di Luigi Ghirri fino a mostrare come tutto sia unito in un grande mosaico, lo stesso che Luigi captò guardando la foto della Terra vista dallo spazio. Un grande contenitore vivo e pulsante che, se osservato con attenzione, mostra le storie e i pensieri di tutti gli uomini e tutte le donne.

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Una biografia di Vanni Codeluppi
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Glitch: la verità nell'errore. Conversazione con Emilio Vavarella

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Mauro Zanchi e Sara Benaglia: “Report a Problem” è il messaggio che compare in basso nella schermata di Google Street View, e permette di segnalare a Google gli eventuali problemi rilevati nella visualizzazione del luogo che si sta visitando virtualmente. Immaginiamo che si possa creare un sistema in grado di fotografare o rivelare immagini interiori, luoghi che vivono nell'immaginario. Tu hai viaggiato su Google Street View, fotografando sul monitor tutti i “paesaggi sbagliati” che hai incontrato, prima che altri utenti riportassero il problema; così hai indotto l’azienda ad aggiustare l’immagine sostituendo le foto errate. Come ti figuri i paesaggi interiori e una sorta di fantagoogle che sistema le immagini inconsce delle persone? Quale utilità potrebbe avere rendere visibili immagini inconsce?

 

Quando lo scorso gennaio mi avete chiesto di immaginare una fotografia capace di rivelare immagini interiori non avrei immaginato di rispondere partendo da un coronavirus. Ma mi piacerebbe partire proprio da qui, a dimostrazione di quanto sia rilevante comprendere il ruolo e la produzione delle immagini anche in un momento di profonda crisi come quella innescata dal COVID-19. Questo virus si è imposto, nostro malgrado, come un inaspettato inquilino dei nostri paesaggi interiori, tanto di quelli fisici quanto di quelli psicologici. E gran parte delle nostre energie si sono indirizzate verso la sua identificazione e comprensione. Dargli un nome, un codice, associarlo a delle statistiche che ne mappino il comportamento, significa costruire una precisa ontologia. Il virus diventa tale solo quando acquista una sua rappresentazione, tanto visiva quanto teorica. Ma come si riconosce un nemico invisibile? Fino a pochi anni fa per ritrattare un virus ci si sarebbe affidati a dei cartonisti, e questi, matita e libri alla mano, avrebbero dato forma a delle rappresentazioni più o meno suggestive del patogeno in questione. Oggi, invece, attraverso l’utilizzo di varie apparecchiature scientifiche, le rappresentazioni di un virus possono raggiungere un maggiore livello di oggettività. Queste rappresentazioni non sono semplicemente illustrative, ma sono indispensabili anche alla ricerca scientifica, dalla diagnostica alla terapeutica, e perfino rispetto allo sviluppo di un potenziale vaccino.

 

Alcune visualizzazioni del COVID-19 apparse nelle ultime settimane. Varie fonti.


Ma è anche importante capire che non esiste un’immagine ontologicamente fissa di qualcosa come il COVID-19. Del virus non si può dare una fotografia. Un microscopio ottico non può metterlo a fuoco, e non è tecnicamente possibile ricostruirne un’immagine univoca nemmeno usando un microscopio elettronico. Il microscopio elettronico raccoglie input, acquisisce dati, li modella matematicamente, e restituisce un’ipotesi. Questa può essere poi integrata con dati prodotti da altre tecnologie, come la micro-cristallografia a raggi-X, che utilizza altri modelli matematici per provare a risalire alla struttura atomica del virus. L’intero processo si basa sulla capacità computazionale di potenti calcolatori, ma anche sfruttando le tecniche più avanzate il risultato resta un rendering statistico. A queste immagini, frutto di laboriosi studi scientifici, si affiancano innumerevoli altre immagini, apparentemente molto simili, ma frutto di libere interpretazioni. Tutte queste rappresentazioni coabitano all’interno della nostra sfera mediatica, che a sua volta può essere immaginata come un’estensione della nostra psiche collettiva. Parallelamente all’avanzata del virus, le sue rappresentazioni viaggiano attraverso riviste scientifiche, sulla rete, sui nostri notiziari, invadendo anche lo spazio mediatico che non è fisicamente accessibile al virus stesso. La pervasività del virus, in questo senso, è totale. E la sfida al virus è una sfida all’invisibile e che stiamo combattendo anche attraverso l’estetica.  

 

Torniamo al sistema capace di fotografare paesaggi interiori che mi avete chiesto di immaginare. E se vi dicessi che non solo già esiste, ma è probabilmente già disponibile in tutte le maggiori città del pianeta? Innanzitutto, l’idea di utilizzare il medium fotografico per catturare immagini interiori ha accompagnato fin dall’inizio lo sviluppo della tecnologia fotografica. La storia dell’arte, tanto quanto la storia della scienza e della tecnologia, sono costellate di tecnologie e tecniche che, ad un certo punto, qualcuno ha rivolto verso di sé. Una delle prime tecniche che abbiamo imparato a padroneggiare, il linguaggio, ha ancora oggi una dimensione fortemente introspettiva, ad esempio nella poesia, nella narrativa, o nella psicologia. Idem per la pittura, che ha sempre offerto la possibilità di rappresentare il mondo esteriore e di dare forma a quello interiore. Ma la fotografia ha una particolarità che la rende ancora più adatta a questo tipo di lavoro: è sempre stata legata, (a torto o a ragione), all’idea di oggettività e obiettività. È notevole il fatto che tra le prime fotografie e tra i primi film sia ricorrente il tema della ricerca spiritica. Penso ad esempio agli studi sul paranormale raccolti nei primi anni ‘20 del Novecento dal barone Albert von Schrenck Notzing, nel suoMaterialisationsphaenomene, o al prototipo fantascientifico di Sam Graves, chiamato ‘electrical mind revealer,’ che proponeva di leggere e visualizzare il pensiero.

 

Emilio Vavarella, THE GOOGLE TRILOGY – 1.Report a Problem, 2012. 100 fotografie. Stampe a sublimazione su alluminio. Dimensioni variabili. Installazione. X:216cm; Y:1224cm (in tutto). Veduta dell’installazione presso MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna.


Ossessioni antichissime. Il desiderio di poter fissare oggettivamente, su carta fotografica, una dimensione effimera ed ectoplasmatica, può essere sintomo di una cultura, come quella Europea della prima metà del Novecento, affascinata dalla tecnologia moderna ma ancora fortemente superstiziosa. Sarebbe però sbagliato pensare che le cose siano cambiate drasticamente negli ultimi cento anni. L’idea di poter fotografare quel che è inconscio o invisibile è, infatti, alla base di tutte le tecnologie di visualizzazione medica, dalla gastroscopia ai più recenti esperimenti con i neural networks per ricostruire le immagini prodotte dalla corteccia visiva del cervello. Tra le più avanzate tecnologie di visualizzazione medica, la risonanza magnetica funzionale (fMRI) è sicuramente quella più diffusa e accettata. Ecco appunto che, come ti anticipavo, è già possibile, in tutti i più grandi ospedali, fotografare i nostri ‘paesaggi interiori.’ Una fMRI ci permette di valutare la nostra attività neuronale e di ‘fotografarla’ in tempo reale, riuscendo a dare forma e colore ad attività mentali impossibili da visualizzare ad occhio nudo. La sua utilità è comprovata, ma più delicata è la questione legata alla supposta oggettività delle immagini che produce. Queste vengono periodicamente descritte dalla stampa generalista e a livello colloquiale come ‘immagini oggettive,’ o ‘mappe mentali,’ o addirittura ‘istantanee del pensiero’. Invece, a prescindere dalla loro efficacia, esse non sono nulla di tutto questo. Come mostrano gli studi in etnografia della scienza di Anne Beaulieu, le immagini di una risonanza magnetica sono il risultato di complesse tecniche di imaging digitale e di elaborazione grafica secondo modelli statistici, dunque sono ben lontane dalla fotografia di una realtà data e oggettiva. In altre parole, a prescindere dalla complessità di una rappresentazione visiva, è bene ricordare che ogni forma di rappresentazione resta comunque una messa in forma più o meno arbitraria, una traduzione in termini visivi che nasconde sempre una mediazione, delle scelte umane, dei processi tecnici, e delle intenzionalità più o meno soggettive, ma mai neutrali.

 

Tu indaghi le questioni inerenti ai glitch, all’errore come elemento rilevatore, ai meccanismi estremamente complessi. Secondo la tua visione ed esperienza diretta, che cosa rende visibile o rivela l'errore? E in prospettiva metafotografica come si potrebbe applicare costruttivamente la conseguenza dell'errore per creare nuove forme estetiche?

 

Emilio Vavarella, THE GOOGLE TRILOGY – 1.Report a Problem (Foto n.86/100), 2012. Stampa a sublimazione su alluminio.


Mi affascina molto la possibilità di recuperare ciò che viene considerato un ‘errore,’ perché dietro questo termine si nasconde sempre qualcos’altro. Dal punto di vista tecno-scientifico l’errore è fondamentale, ma unicamente in una prospettiva di ottimizzazione di un qualche sistema. Secondo gli scritti del padre della cibernetica, Norbert Wiener, l’errore tecnologico deve essere isolato e ridotto a feedback. La ‘sterilizzazione dell’errore’ è una sorta di mito fondante del progresso tecno-scientifico ed è uno dei capisaldi del discorso cibernetico. Io credo che quando ci si trova di fronte ad un meccanismo estremamente complesso, uno dei modi per renderci conto del suo funzionamento è proprio quello di aspettare che un errore renda visibile qualcosa che era rimasto nascosto. L’ho sperimentato in DIGITAL PAREIDOLIA: A Personal Index of Facebook’s Erroneous Portraits (2012-2013) in relazione ad una delle prime tecnologie di riconoscimento facciale online, ed in THE GOOGLE TRILOGY (2012) ho esplorato questa idea in relazione al funzionamento delle mappe digitali di Google. Nel primo caso ho caricato sul mio profilo Facebook tutte le foto di cui ero in possesso ed ho scandagliato tutti i suggerimenti di riconoscimento facciale alla ricerca di quelli sbagliati. Ho costruito così un archivio di ritratti che funzionava anche come una sorta di indice degli errori del riconoscimento facciale usato da Facebook. In THE GOOGLE TRILOGY – 1. Report a Problem l’errore inaspettato è quello dei paesaggi ‘glitchati’ di Google Street View, i quali fungono da punto di rottura in un sistema che altrimenti scorrerebbe in maniera fluida, regolare, predefinita. Nell’ultima parte della trilogia, intitolata 3. The Driver and the Cameras, sono andato invece alla ricerca di ritratti degli autisti della Google Car sfuggiti alla censura degli algoritmi di Google. Qui l’errore smaschera una presenza umana nascosta dietro l’apparente autosufficienza del sistema informatico. In THE SICILIAN FAMILY (2012) il glitch nasce forzando le mie memorie personali all’interno del codice ASCII di vecchie foto di famiglia. Similmente, in MEMORYSCAPES (2012-2013) ho trovato il modo di integrare dati satellitari e memorie di Venezia raccolte a New York. Anche qui l’incastro forzato tra memorie inaccurate e dati apparentemente oggettivi risulta in una serie di imprevedibili incongruenze visive. Ogni qualvolta un sistema si arresta o viene alterato da qualcosa di erroneo ed inaspettato emerge immancabilmente una nuova forma estetica ed un nuovo orizzonte di senso.

 

Il tuo lavoro si colloca su vari confini, tra ricerca contemporanea e modalità che giungono dalla tradizione, tra costruzione di senso soggettiva e modalità d’azione più impersonali, come per esempio gli algoritmi. Cosa significa per te oltrepassare i confini e le soglie attraverso il medium fotografico?

 

Significa produrre un campo d’azione autonomo per la mia ricerca artistica. Considero ogni mia opera ciò che resta del processo artistico che si dispiega all’interno di questo spazio d’azione. Idealmente ogni opera è simultaneamente sia il risultato che il processo conoscitivo che la precede, che lascia tracce, segni, e che genera punti di partenza, punti di arrivo e punti di rottura, per altri inizi. Si tratta di un’organizzazione concettuale e materiale di tipo non gerarchico, all’interno della quale progetti più o meno completi tornano ad esser messi in discussione, in cui le idee stesse sono lasciate libere di vagare e di creare nuove connessioni e nuove opportunità di senso. L’importante è che in ogni mia opera gli strumenti usati siano quelli maggiormente in grado di dare forma, nel modo più preciso possibile, alla mia ricerca. La fotografia risponde spesso a questo bisogno, ed è per questo tra i medium che uso più spesso. 

 

Immaginiamo che l'essere umano sia molteplice, plurale, e che vi siano identità multiple. Seguendo l'intuizione di Deleuze (da individui stiamo diventando dividui), come leggi con la tua ricerca questi aspetti?   

Emilio Vavarella, The Digital Skin Series (Foto n.3/18), 2016. Stampa a sublimazione su alluminio.


Il passaggio ‘da individui a dividui’ descritto da Deleuze è molto suggestivo e certamente brillante. Non va però letto, secondo me, come il punto di demarcazione di una sorta di tecnologizzazione che ci ha radicalmente modificato in senso antropologico. Non è un passaggio, in altre parole, dall’essere umano tradizionale all’essere umano 2.0, come alcuni vorrebbero. E’ una questione di management e di flussi di informazione e degli apparati a questo connessi. Ma anche se cambiano gli apparati e le tecnologie, ‘essere umani’ significa sempre essere tecnologici. Non sono mai esistite né culture, né forme di vita umana, di tipo pre-tecnologico. Allo stesso tempo, ho l’impressione che il termine ‘umano’, specie quando espresso al singolare, si stia imponendo sempre più come ‘nome’ che non come ‘aggettivo.’ Nel senso che è come se demarcasse qualcosa di dato una volta per tutte. Ma ad ogni definizione di ‘essere umano’ si accompagna sempre immancabilmente una pletora di sotto-categorie, come è successo con ogni forma di schiavitù. Queste sotto-categorie di quasi-umani servono proprio ad ingoiare, ancora vivi, coloro che non si riconoscono o non vengono riconosciuti nella definizione proposta. La difficoltà della questione, specie nella sua accezione più propriamente ontologica, è evidente, e nella mia opera THE DIGITAL SKIN SERIES mi pongo proprio queste domande evitando di fornire una risposta univoca. Preferisco pensare, forse utopicamente, all’umano nel senso di un processo, un evento, un fenomeno, qualcosa che non può essere mai inquadrata una volta per tutte, come un’attività performativa in costante svolgimento. 

 

Emilio Vavarella, The Sicilian Family (Foto n.26/44), 2012-2013. Stampa per sublimazione su alluminio.


Sarà possibile fotografare qualcosa che non è ancora avvenuto, prima che accada? L'oltrefotografia sarà un'arte della preveggenza?

 

Se parliamo di fotografia nel senso analogico e più tradizionale del termine questo è ovviamente impossibile. Solo ciò che si trova fisicamente davanti all’obbiettivo, e solo se questo qualcosa manifesta un certo livello di opacità, può essere registrato fotograficamente. Se invece parliamo di fotografia in senso espanso, e andiamo ad includere tecnologie di imaging digitale, la risposta cambia. In questo caso posso dirti che un’arte della preveggenza esiste già, e che mobilita ogni anno, in tutto il pianeta, miliardi di dollari. Come nel già citato caso della risonanza magnetica funzionale, è possibile produrre immagini su base statistica, e a prescindere da qualsiasi contatto diretto con il mondo fisico circostante. Non si tratta di fotografie, ovviamente, ma di immagini foto-realistiche prodotte sulla base di calcoli di incidenza statistica legati ai data-set più svariati. Delle fotografie in cui data e metadata, ovvero rappresentazione e informazioni sulla rappresentazione, coincidono. Dal punto di vista tecnico ogni immagine è un flusso di dati e metadata: segni microscopici che corrispondono alla più basica forma di rappresentazione. Dal punto di vista estetico non siamo più automaticamente in grado di distinguere la differenza tra una fotografia, traslazione di una realtà fisica, ed un rendering foto-realistico, traslazione di un flusso di dati.

 

Emilio Vavarella, RE: Animation, 2017. Installazione composta da vari elementi. HD video, portfolio fotografico, libro, documenti, suono. Veduta dell’installazione presso Harvard Art Museums.


Ma quali sono le caratteristiche comuni delle immagini prodotte attraverso diversi processi di elaborazione dati?

 

Sono immagini instabili, variabili, virtuali, si muovono in molti modi, a volte in stormi, sono scomponibili, spesso anonime e a volte anche invisibili. Tra quelle visibili pensa ai tanti tipi di rendering che dal cinema ai cartelloni pubblicitari ai social media fino ai lavori scientifici, ci accompagnano. In ambito finanziario queste immagini fungono da cosiddette ‘self-fulfilling prophecies’ (profezie auto-avveranti). Celebre è l’esempio dei rendering di Songdo, la famosa smart-city in Corea del Sud in cui il confine tra marketing e architettura è stato completamente annientato. In molti hanno investito sul patrimonio immobiliare di quella che era una cartolina digitale. Ma senza andare così lontano pensiamo alla funzione, economica e politica, dei primi rendering che sono circolati insieme al progetto MO.S.E. (Modulo Sperimentale Elettromeccanico) di Venezia. Si mostrava come sarebbe apparso il territorio veneziano da lì a pochi anni, a causa dell’innalzamento delle acque. Ma il carattere di self-fulfilling prophecy è legato al fatto che queste immagini fossero a corredo del progetto per un sistema atto a prevenire quei cambiamenti. I rendering includevano già anche l’immagine foto-realistica di una tecnologia che non esisteva, ma che, anche in virtù della potenza di quelle immagini, da lì a poco sarebbe stata finanziata e in parte costruita. Una sorta di preveggenza fondata sulla capacità di accentrare risorse finanziare. La profezia, in quel caso, è proprio questa: mostrare quello che ancora non esiste in modo da finanziarne la costruzione.

 

Emilio Vavarella, THE GOOGLE TRILOGY – 3.The Driver and the Cameras, 2012. Stampa a sublimazione su alluminio. 11 elementi. Diametro di ciascuna foto: 20cm. Veduta dell’installazione presso The Photographers’ Gallery, Londra.


In quali altri modi la fotografia può essere in grado di ‘vedere il futuro’?

 

Ad esempio riuscendo a farci viaggiare nello spazio, come nel caso dello studio degli esoplaneti. Gli esoplaneti sono corpi celesti che si trovano a distanze tali che è otticamente impossibile catturare la loro immagine. Fotografarli con i mezzi di cui disponiamo sarebbe possibile solo se riuscissimo a spingerci oltre il Sistema Solare, cosa attualmente oltre la nostra portata. Eppure, come una veloce ricerca su Google dimostra, esiste un enorme archivio fotografico di esoplaneti. Per poter studiare questi corpi celesti gli esoplanetologi utilizzano un vasto campionario di tecniche di deduzione che permettono di ricostruire l’aspetto e le caratteristiche di questi pianeti senza averli fisicamente né visti né raggiunti. Un’arte della preveggenza che, come ha spiegato Lisa Messeri in un bello studio sul lavoro di gruppi di scienziati di un osservatorio Cileno, del MIT e della NASA, consiste nella produzione di modelli statistici che danno forma ai dati raccolti. Attraverso una lunga catena di tecniche di rappresentazione, il risultato è una descrizione scientifica del pianeta accompagnata da una serie di ipotesi e, spesso, da una immagine foto realistica in alta risoluzione. Queste immagini si basano su un concetto di visione statistica, e non ottica, in cui ad essere visti non sono delle ‘cose’ ma dei ‘campi di possibilità.’ La nostra capacità di vedere non è più solo una facoltà biologica, è ormai divenuta il passaggio finale di un calcolo probabilistico. Tornando alla tua domanda, attraverso questo processo di imaging siamo in grado di annullare i limiti dello spazio che ci separano da questi corpi celesti. In poche parole, prima ancora di riuscire a vederli ad occhio nudo, abbiamo già prodotto migliaia di immagini di pianeti che forse vedremo tra centinaia di anni, o forse mai. 

 

La fisica quantistica mette in discussione la progressione lineare e cronologica che dal passato va verso il futuro. In realtà la questione è più complessa. Come è applicabile la teoria del tempo inteso come un fazzoletto aggrovigliato, descritta dal filosofo francese Michel Serres, nel campo della ricerca metafotografica?

 

Emilio Vavarella, MEMORYSCAPES, 2013-2016. Installazione multimediale composta dai seguenti elementi: mappa olografica di Venezia, X:60 Y:120cm; installazione sonora immersiva a sette canali, ventiquattro studi su carta fotografica con modulo espositivo a muro, X:45 Y:60cm ciascuno, un libro d'artista. Misure variabili. Veduta dell’installazione presso Fondazione Fabbri.


Anche questa è una questione che mi ha fatto riflettere molto. Michel Serres si è soffermato più volte sui limiti di un’idea di svolgimento temporale in cui noi soggetti procediamo linearmente verso il futuro. Serres aveva notato, invece, quanto delle temporalità apparentemente distanti tra loro siano in realtà vicine, e quanto elementi distanti nel tempo possano influenzarsi a vicenda. La sua idea è molto simile al modello di co-determinazione spazio-concettuale espresso dalla fisica e filosofa Karen Barad. Serres usa un’immagine molto evocativa e fa l’esempio dell’astrofisica classica, in cui si scandaglia il cielo aspettando che dal futuro, ovvero da un presente ancora non vissuto, ci giungano informazioni su mondi già morti, che appartengono ad un passato altrui che per noi è ancora futuro. Se questo spazio aggrovigliato avesse un suo corrispettivo fotografico sarebbe una sorta di fotografia quantistica, capace di oltrepassare l’idea del catturare una realtà data (come nella fotografia analogica) o di produrre una realtà sintetica (come nella fotografia elettronica). Questo nuovo tipo di fotografia dovrebbe riuscire a catturare, o copiare, in qualche modo, un frammento dell’indeterminatezza spazio-temporale che precede la nostra percezione delle cose.

 

Quali sono le strutture che una macchina fotografica riproduce anche quando è gestita da un animale?  

 

Emilio Vavarella, Animal Cinema, 2017. Video in HD, 00:12:12, formato 16:9, colori, suono. Stillframe da film.


Strutture in movimento, di tensione, punti di incontro e di scontro, forme di vicinanza, di assenza, e di presenza dell’impensato. Nel mio film ‘Animal Cinema’ (2017), interamente girato da animali in completa autonomia, movimenti di corpi, chele, tentacoli, zanne, artigli e zampe si sostituiscono a qualsiasi premeditazione registica. Il risultato è un vortice di forme di consapevolezza e modi di essere in continuo dispiegarsi: una concatenazione di azioni e passioni che apre uno spiraglio sul complicato assemblaggio di uomini, animali e tecnologie di cui noi tutti siamo parte. 

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Ennio Morricone: moderno sempre

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“Copiare il vero può essere una buona cosa, ma è fotografia, non pittura. Inventare il vero è meglio, molto meglio.” Lo scrisse Giuseppe Verdi alla contessa Clara Maffei in una lettera del 20 ottobre 1876. Ne sapeva qualcosa, avendo inventato, pochi anni prima per l’Aida, una “musica egiziana” che non era mai esistita. Ennio Morricone si trovò all’incirca nella stessa situazione quando iniziò a comporre le musiche per i western di Sergio Leone, ma a carte rovesciate. Doveva inventare il falso, nel senso che l’universo West di Sergio Leone era assolutamente “fasullo” rispetto alla supposta “verità” del genere hollywoodiano. Quello che fece, forse costretto dalle circostanze, dal budget ridotto che non gli permetteva di usare un’intera orchestra, o per qualunque altra ragione che comunque scompare di fronte al risultato, fu di scomporre cubisticamente la strumentazione e di dividere i suoni, spazializzandoli, rendendo ogni segnale sonoro perfettamente percepibile (non solo ogni strumento, perché Morricone decise di equiparare suoni e strumenti, da quel compositore d’avanguardia che era) senza bisogno di nessun pieno orchestrale. Il West di Morricone divenne così una rassegna di indici musicali, una semiotica in musica.

 

Ennio Morricone e Sergio Leone


L’uso massiccio della tromba era personale (la tromba, lo strumento di suo padre, era lo stesso con il quale Morricone si era diplomato) ma era anche un omaggio dichiarato a El Degüello (letteralmente: “lo sgozzamento”), il tema per tromba usato da Dimitri Tiomkin nella colonna sonora di Rio Bravo (Howard Hawks, 1958) e poi anche in La battaglia di Alamo (John Wayne, 1960). Leone aveva chiesto espressamente a Morricone di scrivere musica “alla Tiomkin”, e Morricone lo fece, ma a modo suo. Oltre alla tromba, inserì chitarre elettriche nello stile dei gruppi di rock strumentale che allora erano in voga, come gli inglesi The Shadows che avevano raggiunto il successo nel 1960 con Apache. A questi segnali ampiamente riconoscibili Morricone aggiunse fischi, fruste, scacciapensieri e grida inarticolate (che cosa cantano le voci maschili in Per un pugno di dollari? “We can fight” o sillabe senza senso? Non che abbia molta importanza). Per il primo film della ‘trilogia del dollaro”, Morricone aveva agito d’impulso, senza chiedersi dove stava andando. Nessuno allora pensava che gli spaghetti western potessero avere un futuro oltre il mercato europeo di serie B al quale erano destinati. Ma l’istinto di Morricone era nutrito dai suoi studi e dalla sua consapevolezza della totalità della musica.

 

Dietro Morricone c’era Goffredo Petrassi, i cui sette concerti per orchestra sono uno dei vertici del Novecento musicale italiano. Per quanto Petrassi non tollerasse deviazioni dei suoi allievi verso il mercato “leggero” (se Morricone, ancora molto giovane, arrangiava canzonette per arrotondare, e non era ancora così famoso da poter usare il suo nome impunemente, si prendeva cura che il Maestro non lo venisse a sapere), anche Petrassi aveva scritto colonne sonore (ad esempio per Riso amaro di Giuseppe De Santis, 1949). Per motivi pratici, senza dubbio, ma lo aveva fatto. E dietro Goffredo Petrassi c’era Stravinskij, il maestro della scomposizione cubista della musica. Se si dovesse cercare un archetipo del processo di de-costruzione al quale Morricone sottopose la classica orchestra hollywoodiana dei Max Steiner, Dimitri Tiomkin, Elmer Bernstein e altri, andrebbe cercata nella riduzione stravinskiana del pieno orchestrale alla nudità modernista della Histoire du soldat e di Les Noces. Quando la trilogia di Sergio Leone raggiunse il mercato americano nel 1967, all’improvviso la maggior parte delle colonne sonore che ancora imperavano a Hollywood, incluse quelle di compositori più giovani come Alex North e Jeffrey Goldsmith (si ascolti il soundtrack di Il tormento e l’estasi, Carol Reed, 1965) parvero tronfie, chiassose, non di rado insopportabili. Solo Bernard Herrmann e Miklós Rósza sembravano ancora tenere alta la tradizione della piena orchestra, prima che arrivasse John Williams a raccogliere la loro bandiera. Ma Ennio Morricone, se voleva, li poteva battere sul loro terreno. Aveva la capacità, la stessa di Nino Rota, di saper giocare su tutti i tavoli. Chi, negli stessi anni, era capace di arrangiare Sapore di sale assegnando un assolo di sax a un allora sconosciuto Gato Barbieri, o di comporre Se telefonando per Mina, su testo di Maurizio Costanzo (una vera “aria” per soprano e orchestra, mascherata da canzone), e insieme era parte dell’avanguardia più radicale e membro attivo del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, non si faceva spaventare da nulla. Anzi, per la colonna sonora del primo film di Dario Argento, L’uccello dalle piume di cristallo (1970), mise in pratica proprio la lezione dell’improvvisazione assoluta (alcuni brani sono totalmente improvvisati in studio), e non era colpa sua se per il grande pubblico una serie di dissonanze non risolte fa subito venire in mente un film dell’orrore. Non c’era altro modo di far arrivare quella musica a chi non frequentava i festival dell’avanguardia, e Morricone ci riuscì.

 

Ennio Morricone e Maria Travia


Non aveva paura della melodia di stampo schiettamente italiano (e non solo quella di Puccini; per capire la profondità delle melodie di Morricone, quelle di Mission, C’era una volta in America, Nuovo cinema paradiso e molte altre bisogna avere nelle orecchie Benedetto Marcello, Scarlatti e Vivaldi), ma non lo si può separare dai nomi più significativi dell’avanguardia italiana, di cui per tutta la vita ha aspirato di far parte; non lo si può separare da Bruno Maderna, Luigi Nono, Luciano Berio, Giacinto Scelsi, Franco Donatoni, Franco Evagelisti e altri ancora. Nessuno di loro avrebbe mai osato scrivere il tema di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Elio Petri, 1970). Il sospetto, in questo caso, è che forse a parte Maderna nessuno ne sarebbe stato capace. Morricone si crucciava perché le sue cento composizioni di musica “assoluta”, come le chiamava, per il pubblico non erano mai esistite. Prima o poi troveranno anch’esse la loro strada, come è accaduto a molte pagine di Nino Rota non scritte per il cinema. Ma Rota, come compositore “assoluto” (non per il cinema, dove anche lui osava parecchio), era rimasto un tardo-romantico; Morricone invece era moderno sempre. Il tema principale di Giù la testa (Sergio Leone, 1971) è una melodia orecchiabile, una “canzone”, ma così avvolgente, insistita, sfacciata, e anche così avversa a ogni realismo sonoro (non fa parte in nessun modo dell’ambiente acustico della storia) da costringerci a guardare il film con altri occhi, ad avere sempre presente l’allegoria del tempo che ci viene rovesciata addosso. È puro straniamento sonoro, brechtismo in musica. Anche nelle avvolgenti tessiture orchestrali di Mission (Roland Joffé, 1986), certamente tra i suoi capolavori, Morricone evita con cura il troppo pieno al quale gli sarebbe facile abbandonarsi, vista la generosità del materiale che ha in mano.

 

Morricone aveva già vinto un Oscar alla carriera nel 2007, presentato da Clint Eastwood. Ma l’Oscar per la colonna sonora originale l’ha avuto solo nel 2015 per The Hateful Eight (Quentin Tarantino). Forse perché questa volta doveva confrontarsi con un western americano, anche se molto sui generis, ha scelto di realizzare una vera composizione sinfonica, ma non c’è nessun omaggio dichiarato ai grandi compositori hollywoodiani. Se mai, nella misura contenuta e non poco funebre di brani come L’ultima diligenza per Red Rock e Neve, sembra a tratti di veder passare gli spettri di Prokof’ev (la colonna sonora di Alexander Nevskij e Ivan il Terribile) e Šostakóvič (le ultime sinfonie, ma anche le due colonne sonore per un Amleto teatrale e per quello cinematografico di Grigorij Kozincev, 1964). Forse, se Sergio Leone fosse vissuto abbastanza a lungo da poter realizzare il film sull’assedio di Leningrado che era il sogno della sua vita, questa, o qualcosa di molto simile, sarebbe stata la musica che Morricone avrebbe composto per lui.

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L’ombra del nemico

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Questa storia inizia con una bambina che voleva divenire cacciatrice di serpenti e che si troverà, molti anni dopo, ad essere una giornalista di guerra. Inizia con il desiderio di riparare ai torti grazie al racconto delle vite travolte dalla violenza della Storia. Un mosaico di racconti e testimonianze che vanno a comporre lo scenario delle nostre società in tumulto, in un tentativo di comprensione e di decodifica, di compensazione e analisi. Marta Serafini, giornalista del “Corriere della Sera”, in L’ombra del nemico (Solferino libri), racconta cinque anni di lavoro e di reportage che l’hanno portata più volte in Medio Oriente durante il conflitto siriano, in Iraq – testimone della nascita, della consolidazione e del declino dello Stato Islamico – in Kurdistan tra le file dei peshmerga, al confine tra Turchia e Siria – tra le centinaia di migliaia di profughi che il conflitto siriano ha causato – nel Libano schiacciato dalla pressione degli sconvolgimenti nella Regione, in Afghanistan – a Kabul – nei vicoli degli oppiomani e tra le donne in burqa che chiedono l’elemosina, sulle navi delle Ong che salvano vite nel Mediterraneo centrale.

 

Ma anche nelle periferie delle capitali Europee, dove sono nati e cresciuti centinaia di giovani radicalizzati che hanno scelto di raggiungere la Siria per unirsi al jihad. È il viaggio di una giornalista, di una donna, che ha scelto di dedicare il suo sguardo alla vita e al dolore degli altri, per poterlo raccontare e per aggiungere – a ogni nuovo lavoro – un tassello che portasse a una lettura più approfondita del presente. Ed è con parola chiara, documentata, attenta, scevra da giudizi aprioristici – abituata all’esercizio del dubbio e della complessità e per questo in costante ascolto dei segnali di mutamento – che Marta Serafini porta la sua testimonianza. Perché “vedere coi propri occhi è l’unico modo per capire”.  

 

Ne abbiamo parlato insieme in questa intervista.

 

In L’ombra del nemico racconti un viaggio lungo cinque anni durante i quali hai parlato da testimone diretta degli sconvolgimenti delle società contemporanee in Medio Oriente e in Europa e dell’inscindibile connessione di questi mondi. Come è cambiato il tuo sguardo in questi anni? Credo che occuparsi di Medio Oriente sia un constante esercizio alla complessità di pensiero, è così?

 

Assolutamente sì, perché il Medio Oriente è forse una delle zone al mondo che più ti insegna che gli stereotipi e le idee preconcette sono qualcosa da cui devi sgomberare il campo quando fai questo mestiere. In Medio Oriente niente è quasi mai come sembra. Quando inizi a relazionarti con le diverse realtà scopri quanto tutto sia molto più complesso di quanto appaia e di quanto i buoni e i cattivi non esistano (cosa che vale probabilmente per ogni conflitto). È anche nella loro complessità che risiede il fascino e la bellezza di questi luoghi. Iniziare anche semplicemente a comprendere quanto sia sbagliato leggere tutta la realtà mediorientale solo come una divisione tra sunniti e sciiti, mentre invece la questione più che religiosa è sociale ed economica. Una cosa che mi ha molto colpito in questi anni sul campo è stato proprio constatare quanto la convivenza quotidiana sia qualcosa di reale, tra persone che appartengono a gruppi e a confessioni diverse, e quanto le divisioni siano appunto soprattutto strumentali, dettate da logiche economiche e politiche; pensiamo per esempio al Libano, Paese nel quale da sempre convivono quotidianamente 18 confessioni. L’essere a contatto con società così complesse è qualcosa che arricchisce moltissimo perché ti dà la possibilità di vedere il mondo da diversi punti di vista. Se pensiamo alla tematica femminile, al ruolo delle donne nelle società mediorientali e nel mondo musulmano e al modo occidentale di raccontarle e vederle sempre come oppresse o vittime, capiamo quanto questa visione sia in realtà terribilmente riduttiva. 

 

Come racconti nell’incipit, c’è una domanda costante che ha guidato il tuo lavoro. Cercare di capire come sia potuto succedere che un’intera generazione di giovani, in Europa come in Medio Oriente, abbia ancora una volta scelto la via della radicalizzazione e del conflitto, arrivando agli esiti tragici che conosciamo. Quali sono le risposte che credi possano spiegare questi scenari? Quale pensi sia il terreno nel quale queste scelte trovano linfa e si radicano?

 

Credo sia difficilissimo rispondere a questa domanda perché in realtà ogni storia è a sé. Però ci sono sicuramente dei minimi comuni denominatori che ricorrono spesso. Nel caso dei giovani nati e cresciuti in Europa, c’è molto spesso una prima istanza che è quella di andare a riscoprire la propria identità, le proprie origini. Questo percorso, come accade poi spesso nell’adolescenza, può portare a scegliere dei modelli e degli schemi estremi. L’Isis, come gruppo terroristico, è stato molto abile a sfruttare questa istanza. Sia per quanto riguarda i ragazzi che per quanto riguarda le ragazze. Il proporre proprio un modello che rispondesse alle esigenze di chi, seppur nato e vissuto in Europa e quindi cresciuto in una forma di integrazione dovuta alla scuola e all’accesso ai servizi di una società europea, si rende però conto di quanto il suo ruolo nella società sia determinato e condizionato dalle origini della propria famiglia. Un ragazzo pakistano che vive a Londra sa perfettamente che avrà grandi difficoltà ad accedere ad un certo tipo di lavoro e di carriera. Il modello del jihad, l’idea del ritorno alla terra di origine della propria famiglia, questi concetti strumentalizzati dalla propaganda jihadista, hanno attecchito. Lo stesso modello è riuscito ad imporsi e a penetrare anche tra le ragazze, nonostante le notizie di violenze sulle donne sul campo arrivassero e fossero chiare. Abbiamo visto tante ragazze partire, partire anche sole, senza marito e senza legami che le spingessero a farlo. Credo che questo sia un fattore da tenere ben presente, soprattutto quando si cerca di dare una risposta a questi fenomeni o si parla di sicurezza e di antiterrorismo.

 

 

C’è infatti tutto un filone di antiterrorismo che ha capito molto bene quanto sia importante comprendere e lavorare sul contesto di partenza se si vogliono ottenere risultati concreti. Dove la radicalizzazione attecchisce ci sono aspetti economici e sociali importati. L’acuirsi di forti diseguaglianze economiche infatti facilita il lavoro dei reclutatori. È interessante anche perché rispetto ad Al Qaida, dove c’erano forme di reclutamento molto più selettive in cui si sceglievano con grande attenzione i mujaheddin entro determinate cerchie, Isis ha fatto un salto di qualità. Ha reso molto più “democratico”, passami il termine, l’acceso e l’ingresso al gruppo terroristico. Per unirsi a loro bastava essere in grado di prendere un biglietto aereo e partire, e si veniva più o meno accettati o, in ogni caso, l’accesso non era così difficile come invece accadeva ai tempi di Al Qaida. 

 

Ricollegandoci proprio a quanto hai appena detto, volevo approfondire un tema molto delicato che affronti nel libro. Quello del destino dei figli e delle mogli dei foreign fighters dello Stato Islamico che vorrebbero rientrate nei rispettivi Paesi europei di provenienza. È una questione che sta mettendo sotto pressione i governi europei. Quale è la tua posizione in merito? Credi che proprio le donne potrebbero essere un fattore importante per combattere nuove ondate di estremismi?

 

Quello dei rientri è un punto davvero molto delicato perché quasi nessun governo europeo vuole fare rientrare minori e donne che hanno fatto parte dello Stato Islamico sostanzialmente per due ragioni. Per quanto riguarda i bambini questo avviene perché, se fatti rientrare, sarebbe poi indispensabile seguirli e sostenerli con un programma di sostegno psicologico ed educativo molto strutturato. Stiamo parlando di bambini che sono nati e hanno vissuto tutta la loro esistenza in un contesto di grande violenza e radicalizzazione, sono bambini ai quali è stato fatto il lavaggio del cervello per cui è necessario un percorso importante di sostegno psicologico, un po’ come se si trattasse di ostaggi, e questo comporterebbe un grande investimento economico per i governi europei. In Francia, per esempio, sono stati fatti rientrare alcuni minori ma solo dopo fortissime pressioni e perché lì i casi di questi tipo sono molto numerosi. Anche se, è giusto ricordarlo, il dovere di ogni governo sarebbe quello di facilitare il rimpatrio dei propri cittadini, questi bambini sono di fatto apolidi e questa cosa complica ulteriormente la questione. Per quanto riguarda invece le donne, la questione più complessa è che è particolarmente difficile accertarne le responsabilità penali. Perché molte donne non hanno di fatto combattuto però magari hanno fatto attività di proselitismo. Ma come riuscire a dimostrarlo? Come riuscire a capire se chi si ha di fronte è una donna radicalizzata che potrebbe rappresentare un pericolo una volta rientrata o se invece si è di fronte a una persona che si è pentita della scelta che ha fatto e per questo ha deciso di tornare? È una questione che richiede un’analisi di intelligence molto raffinata, che spesso i governi non hanno e non vogliono avere. Mentre è stata favorita la partenza dei foreign fighters, perché era un po’ un modo per liberarsi del problema “in casa” ed era anche utile alle intelligences seguire queste persone per vedere dove li avrebbero portati, il percorso inverso non conviene. È economicamente più svantaggioso, però è importante perché è da lì che si parte per lavorare sulla prevenzione e per evitare che questo accada di nuovo. Dobbiamo ricordarci che dove esiste un forte conflitto sociale dovuto a profonde disparità economiche, attecchiscono diverse forme di radicalizzazione. 

 

C’è una storia, tra quelle che racconti nel libro, che mi ha molto colpito. Quella di Mohamed El Bachiri. Ce ne puoi parlare?

 

Ho incontrato Mohamed a Molenbeek, a Bruxelles, dove mi trovavo per fare un reportage che mi aiutasse a capire la situazione in diversi paesi europei all’indomani delle elezioni. Quello che mi interessava capire, nello specifico del Belgio, era se si fosse riusciti a fare attività di prevenzione sulla radicalizzazione jihadista. Mohamed El Bachiri è un giovane marocchino, cresciuto in Belgio come moltissimi suoi coetanei, che ha perso la moglie nell’attentato di Bruxelles. (ndr. L’attentato di Bruxelles del 22 marzo 2016, rivendicato dall’Isis, ha avuto luogo in due attacchi distinti: uno all’aeroporto di Bruxelles-National a Zaventem e l’altro alla stazione della metropolitana di Maelbeek-Maalbeek. Trentadue persone hanno perso la vita). L’età della moglie di Mohamed, una delle vittime dell’attentato alla stazione della metropolitana di Maelbeek-Maalbeek, era più o meno la stessa di quella degli attentatori che peraltro, come Mohamed e sua moglie erano di origine marocchina. Un’altra coincidenza molto forte è che Mohamed El Bachiri lavora come conducente sulle linee della metropolitana urbana di Bruxelles. Mohamed reagisce a questa tragedia scrivendo un libro che si intitola Jihad for love in cui cerca di promuovere una risposta di contrasto all’odio, in merito a ciò che ha vissuto. Spiega e cerca di raccontare anche quali siano le dinamiche che spesso possono portare a determinati eventi. Racconta la sua adolescenza a contatto con diverse forme di ingiustizia sociale, dicendo che sarebbe forse potuto succedere anche a lui di essere reclutato da uno di questi gruppi se non avesse avuto la fortuna di avere genitori che gli hanno fatto capire che non poteva essere questa la risposta e sicuramente anche grazie all’amore della moglie. È stato un incontro molto toccante perché conoscendolo ho potuto sentire il senso delle ingiustizie che ha subito ma anche il suo grande desiderio di reagire facendo un discorso che si opponga alla violenza, mi hanno molto colpito la sua forza e la sua resilienza. 

 

Ci sono state storie, in questi anni di viaggi, che non ti hanno più abbandonato e che hanno continuato a interrogarti, come giornalista e come cittadina?

 

Sicuramente una delle storie che mi ha colpito di più è stato il caso di Maria Giulia Sergio, considerata la prima jihadista italiana. Una ragazza nata e cresciuta in Italia che si è unita all’Isis e ha deciso di partire, con la quale sono riuscita a parlare mentre era in Siria. È una storia che mi ha toccato nel profondo, che mi ha spinto a chiedermi “perché?” e a cercare di andare a trovare le risposte sul campo. Credo sia giusto studiare, informarsi, ma credo che poi le risposte vadano trovate nelle singole storie, nei luoghi. Un altro momento molto importante per me è quando sono stata nel Mediterraneo parte di una missione di salvataggio su Aquarius con Sos Méditerranée e Msf. È stato un momento particolarmente toccante perché, pur essendomi già occupata di fenomeni migratori, assistere a un salvataggio in mare con i propri occhi è qualcosa di completamente diverso dal sentirne il racconto. È un pezzo del viaggio, della fuga della guerra e dai conflitti, ed avviene vicinissimo a noi, letteralmente sotto i nostri occhi. I volti delle persone salvate e portate a bordo non li dimenticherò facilmente. Ricordo una donna incinta, che aveva partorito sul gommone all’alba prima di essere salvata, con suo figlio ancora attaccato al cordone ombelicale. È un’immagine talmente forte che non si può dimenticare. Ed è un’esperienza che ti fa toccare con mano quanto percepire i migranti come persone diverse da noi sia qualcosa di assolutamente irrealistico. Quando hai modo di parlare con questi giovani, di ascoltare le loro storie e i loro desideri, ti rendi conto che, pur avendo vissuti diversi, le loro necessità e istanze sono come le nostre. Vivere in un contesto dove poter crescere i propri figli in sicurezza e tranquillità, trovare una casa e un lavoro, insomma quelli che abbiamo tutti.

 

Come hai letto la feroce criminalizzazione politica e mediatica ai danni dell’operato delle Ong che si occupano di soccorso nel Mediterraneo centrale?

 

È stata un’operazione di propaganda molto forte, che non riguarda solo l’Italia ma tutta l’Europa, ed è quanto di più populista ci possa essere. Andare ad attaccare chi si occupa di salvataggio è l’operazione più facile da fare ed è molto dannosa perché poi sposta l’attenzione impedendo un dibattito serio e ragionato sul soccorso umanitario, del quale invece ci sarebbe stato molto bisogno. Era evidente che si era davanti a una questione molto importante: l’Europa faceva sempre più fatica ad accogliere e accoglieva in modo sempre più distorto. Quindi è evidente che una questione ci sia ma il dibattito non dovrebbe andare a danno di chi deve essere accolto o a danno di chi accoglie. Anche perché se poi gli sbarchi sono rallentati sicuramente non è stato perché alle Ong non era più permesso lavorare, ma perché sono stati presi accordi economici che hanno ridotto questi fenomeni pur non fermandoli. Gli sbarchi infatti hanno sempre continuato ad esserci. 

 

Come alleni il tuo sguardo per cercare di raccontare la complessità di determinate storie e di determinati scenari?

 

Premettendo che è davvero difficile arrivare sempre preparati per la realtà che dovrai raccontare, una cosa che mi ha insegnato il lavoro di redazione è quello di cercare di conoscere e studiare il più possibile la storia del luogo nel quale sto andando. Tutto questo però essendo anche pronti a dimenticarlo un secondo dopo che sei arrivato. Voglio dire che è altrettanto importante essere anche in grado di rivedere e rimettere in gioco tutti i tuoi preconcetti, le tue categorie mentali, le tue idee precostituite. Alla fine sono sempre i racconti delle persone, le loro storie, ad aprirti davvero gli occhi. In ogni storia c’è un tassello della questione che ti permette alla fine di unire i puntini e ad avere un quadro più completo del tutto. 

 

C’è un tema che i giornalisti, i fotografi, i documentaristi di guerra hanno sempre qualche difficoltà ad affrontare, che è quello del costo psicologico del loro lavoro, come per una forma di rispetto per il dolore altrui che per professione documentano e che ritengono molto più significativo del loro. Come si porta il peso e la responsabilità di essere testimoni diretti della Storia, con la violenza dei suoi lasciti?

 

È vero, l’aspetto psicologico di un certo tipo di professione è qualcosa di cui si parla pochissimo, mentre invece si parla spesso di Ptsd (Post traumatic stress disorder) che riguarda però più chi ha combattuto o è stato rapito o ha subito violenza diretta in determinati contesti. Ma la possibilità di un burnout (ndr. una forma di esaurimento psico-emotivo dovuto a determinate condizioni lavorative) è reale e presente anche per chi per lavoro raccoglie costantemente un certo tipo di testimonianze, come giornalisti o medici. Per quella che è la mia esperienza personale, è una cosa di cui non mi ero resa conto subito. Negli anni in cui lavoravo sulla propaganda dell’Isis e contemporaneamente cercavo il più possibile di andare sul campo, una volta che rientravo in Italia mi capitava, per esempio, di provare profonda rabbia davanti all’opulenza dei negozi di Milano, nel periodo delle feste. Provavo questo forte malessere e non riuscivo a spiegarmene la ragione. Oppure, dopo ore e ore di visione di video di propaganda jihadista di grande violenza e brutalità, mi sono accorta che alcuni episodi di disturbo del sonno che avevo da bambina stavano tornando. È qualcosa di diverso dalla Sindrome da stress post-traumatico ma credo debba essere tenuta in considerazione. Ha più a che fare con il rischio di una saturazione, di un burnout appunto. Però credo che basti conoscersi un po’ per capirlo e magari, in alcuni periodi, prendersi una pausa da determinati temi e staccare la spina. 

 

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Fotografia e Social media

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Il fotografo Oliviero Toscani è noto soprattutto per le efficaci immagini pubblicitarie che ha realizzato qualche anno fa per conto dell’azienda d’abbigliamento Benetton. Si trattava d’immagini esplicitamente concettuali, in quanto costruite sul tentativo di comunicare un’idea. All’epoca, tali immagini hanno fatto molto discutere, perché erano concepite per un’azienda privata che aveva delle finalità di tipo commerciale, ma possedevano le stesse caratteristiche di quelle campagne sociali che vengono di solito promosse dallo Stato o da parte di organizzazioni umanitarie. Erano cioè delle fotografie chiaramente tese a sostenere e valorizzare dei principi morali oppure orientate a denunciare dei problemi sociali particolarmente rilevanti. E ciò suonava dissacrante se collocato all’interno dell’ambito delle campagne pubblicitarie tradizionali, caratterizzate da obiettivi esplicitamente commerciali.

 

Ora Toscani ha realizzato una serie di 16 fotografie che mostrano altrettanti “mosaici” del social media Instagram. Vale a dire che si è limitato a riprodurre uno schermo di uno smartphone sul quale via via compaiono delle raccolte di 15 immagini accomunate da uno stesso tema (tramonti, cani, pizze, camini accesi, ecc.). Toscani ha scattato queste fotografie per l’amico Paolo Landi, un importante manager che è stato per numerosi anni responsabile della comunicazione della Benetton, ma che ha sempre avuto la passione per la scrittura e ha pubblicato perciò anche diversi libri, tra cui, ad esempio, Lo snobismo di massa o Manuale per l’allevamento del piccolo consumatore. Adesso invece, utilizzando anche i 16 scatti di Toscani, Landi ha realizzato il volume Instagram al tramonto, pubblicato dall’editore La nave di Teseo.

 

Si tratta di una raccolta di riflessioni su quello che nel giro di pochissimi anni è diventato uno dei social media più utilizzati e più importanti nella vita delle persone. E le fotografie di Toscani costituiscono un utile contrappunto alle riflessioni sviluppate da Landi. Apparentemente, infatti, tali fotografie sono molto diverse dalle immagini realizzate per Benetton qualche anno fa, in quanto non sono esplicitamente concettuali. Sembrano delle semplici riproduzioni di quelle che Instagram presenta continuamente in grande quantità, ma in realtà, nella loro semplicità, ci spingono a riflettere su come Instagram funziona. Marshall McLuhan direbbe che, a causa della sua bassa definizione, la fotografia qui si presenta come un medium “freddo”, perché stimola il cervello umano a compiere uno sforzo di completamento. A dire il vero, il mediologo canadese pensava che la fotografia fosse come il cinema e cioè un medium “caldo”, in quanto basata su una tecnologia che consente di disporre di un’immagine completa e ben definita, ma Toscani, con questa operazione, in qualche misura la “raffredda”. C’invita cioè ad assumere un ruolo mentale attivo. 

 

 

Si consiglia pertanto all’eventuale lettore del libro di Landi di osservare prima attentamente l’inserto centrale a colori con le 16 fotografie di Toscani e poi di leggere le pagine del libro. Un libro che cerca d’interrogarsi sulle ragioni del successo di un social media che oggi coinvolge ogni mese circa un miliardo di persone. Ragioni che per Landi sono molteplici: il divertimento ludico, l’apparente gratuità, la facilità d’accesso e utilizzo, il grande fascino esercitato su di noi dal linguaggio visivo, il voyeurismo, il bisogno di sentirsi vicini ad altre persone, le gratificazioni narcisistiche. Dunque Landi muove fondamentalmente da una visione critica di Instagram, in quanto è convinto che questo social media c’inganni in continuazione, perché ci fa credere di essere solamente uno strumento per condividere delle esperienze piacevoli con amici o sconosciuti, mentre in realtà si basa su un rapporto di consumo. È evidente, infatti, che le persone offrono numerose informazioni sulla loro vita in cambio del servizio apparentemente gratuito che ricevono e, così facendo, fanno funzionare sul piano economico Instagram, dal quale acquistano inoltre sempre più frequentemente anche delle merci e dei servizi di vario tipo. Ma ciò che è più grave, secondo Landi, è che tutti i social media e cioè «Instagram, Facebook e Twitter non hanno portato alcun cambiamento significativo nelle nostre vite, mentre – ma di questo è più difficile accorgersi – manipolano subliminalmente la nostra antropologia e la nostra cultura, spingendoci nel bene e nel male a semplificarle» (p. 49).

 

L’idea centrale di Landi però è un’altra e cioè che, in fondo, Instagram non crea nulla, perché attraverso le sue modalità di funzionamento non fa che replicare e sfruttare dei sentimenti e dei comportamenti umani che sono discutibili sul piano morale, ma che sono anche già molto diffusi all’interno della società: l’invidia, lo snobismo, l’egocentrismo, l’esibizionismo, ecc. I quali, in tal modo, vengono resi maggiormente evidenti, ma anche probabilmente rafforzati e giustificati.

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Ren Hang: fotografie haiku

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Il Centro per l’Arte contemporanea Luigi Pecci di Prato riapre, dopo l’emergenza Covid-19, con una retrospettiva intitolata semplicemente “Nudi” dedicata al fotografo e poeta cinese Ren Hang prematuramente scomparso nel 2017 a soli 29 anni.

“Il più eroico fotografo che la Cina abbia avuto in tempi recenti”. Così lo definisce Francesco Terzago, traduttore in italiano (e prima traduzione in assoluto, da cui citeremo) del corpus poetico di Ren Hang. 

Come ci immaginiamo venga vissuta la nudità in un paese come la Cina? “Il sesso e la nudità in generale deve essere associato alla bellezza e alla purezza. […] Penso che i cinesi amino la bellezza del sesso e della nudità ma cercano di sfuggirle”. A dirlo è proprio l’autore il quale afferma anche che le sue poesie e le sue fotografie viaggiano su due diversi binari che non si incrociano, due diversi piani espressivi. Eppure come le sue fotografie la poesia di Hang è nuda o meglio è naturalistica nel senso che si fonda sulla natura delle cose e della loro propria esistenza considerata come principio autosufficiente. Un principio sul quale si fonda tutta la breve esistenza di questo autore, tormentata proprio dal desiderio di libertà assoluta.

 

Ren Hang, Kissing Roof, 2012. Courtesy Stieglitz19 and Ren Hang Estate.


Il dono

La vita è proprio

un dono prezioso

benché spesso mi chieda

se non sia stato dato all’uomo sbagliato

(16 luglio 2014)

 

Ren Hang nasce nel 1987 a Changchun, una città di circa 7.500.000 di abitanti situata nel nord est del paese e soprannominata la “Detroit della Cina” per il suo ruolo chiave nell’industria automobilistica cinese. Nonostante il profondo affetto per la sua città natale, Hang si reca a Pechino a soli 17 anni per studiare comunicazione, studi che non porterà a termine. Si avvicina alla fotografia in maniera autodidatta acquistando una fotocamera point-and-shoot e iniziando a scattare foto di nudo dei suoi amici come un modo per “alleviare la noia” mentre studia pubblicità al college. Parallelamente alla fotografia Hang scrive poesie, si potrebbe dire che le due espressioni artistiche siano in lui il positivo e il negativo. La fotografia è la luce, la poesia l’ombra entrambe facce della sua personalità già fortemente minata dalla depressione.

Il corpo umano è il soggetto predominante del lavoro di questo autore. Egli lo manipola usandolo apparentemente a proprio piacimento quasi volesse affermare che il concetto di forma non può essere determinato a priori ma afferisce alla sfera del sentire personale e a come questa emerga attraversando strati di esperienza in modo del tutto naturale.

 

Ren Hang, Nude, 2016. Courtesy Stieglitz19 and Ren Hang Estate.


Ma nella Repubblica Popolare Cinese non ci si occupa di “corpi” se non per nutrirli e farli lavorare. La nudità in Cina è considerata pornografia in qualunque modo la si voglia mostrare. Uscire da questo schema è semplicemente proibito con il rischio, per chi trasgredisce, di vedersi infliggere pene a volte molto severe.

Ricordiamo che in questo Paese lo stupro è un crimine che può essere punito con la pena capitale e non certo per proteggere il genere femminile quanto per sottolineare che il corpo non è libero anche se è l’unica cosa che appartiene veramente all’individuo. Il corpo è una “macchina” che serve allo Stato per produrre. 

Analogamente esiste in Cina il reato di produzione o esposizione di materiale pornografico, reato che ha causato ad Hang non pochi fastidi con la giustizia proprio per il contenuto sessuale molto esplicito che spesso si può osservare nelle sue immagini. Naturalmente non è dato al censore cinese – che arriva a guardare centinaia di contenuti video pornografici a settimana per stabilire il livello di censura da applicare e la conseguente pena da infiggere a chi li commercializza – il beneficio del dubbio se sia o meno in presenza di un’opera d’arte. Niente violenza, niente pornografia, niente omosessualità nella Cina a regime comunista (quella stessa Cina che però pratica la pena di morte su migliaia di detenuti rei di aver commesso non delitti brutali ma infrazioni al codice penale che in altri Paesi sono puniti con anni di carcere). Del resto è storicamente risaputa l’avversione del comunismo nei confronti di sesso e omosessualità. Ne è un esempio lampante, in Italia, l’espulsione dal Partito Comunista di Pier Paolo Pasolini nel 1948 dovuta proprio allo “scandalo” causato dalla sua omosessualità.

 

Grazie a questo stato di cose è molto facile indicare la fotografia di Hang come protesta contro l’ideologia di regime e rifiuto dell’omologazione voluta dal potere politico. Hang però non si è mai considerato un artista politico “È la politica a interessarsi a me, io non sono interessato alla politica”, dice, sottolineando un aspetto molto comune nella pratica del potere che è quello di strumentalizzare tutto ciò che crea disturbo inducendo gli individui a pensare. “Siamo nati nudi – dice ancora Hang – io fotografo solo le cose nella loro condizione più naturale”. Qualcuno potrebbe però obiettare che le pose in cui ritrae i suoi soggetti tutto sembrano tranne che naturali. Qui è necessario fare uno sforzo per capire che anche il concetto di “forma naturale” è legato a stereotipi consolidati che si riferiscono a modelli imposti ben precisi, così come imposti sono gli stereotipi che pervadono la morale della società, cinese e non.

C’è invece un modo di vedere la normalità emendato dalle convenzioni. Esiste il linguaggio artistico proprio dell’autore che noi pubblico interpretiamo in relazione a tutti i nostri riferimenti culturali, ma tali riferimenti non sono liberi e dunque non siamo nel campo della consapevolezza che invece permea lo sguardo di questo autore.

 

“L’arte è qualcosa di personale, soggettivo – dice sempre Ren Hang – nasce dalla relazione che hai con te stesso, perché è solo col tuo modo di sentire le cose che puoi comunicare qualcosa agli altri”. È chiaro che siamo difronte alla rappresentazione di una condizione vissuta in prima persona e che solo successivamente assume un carattere sociale ma non per volontà esplicita dell’autore.

 

Ren Hang, Two Girls Dress, 2016. Courtesy Stieglitz19 and Ren Hang Estate.


Le fotografie di Hang oscillano tra il disturbante e il poetico (d'altronde la poesia è disturbante e anche l’immagine può esserlo), entrambe condizioni invise ad un regime perché espressioni di libertà. Le sue fotografie così come le poesie non sono rassicuranti, tantomeno facilmente classificabili, etichettabili, riconducibili a un genere. Possiamo invece dire che sono “lucide” sezioni di corpi esposte allo sguardo umano. L’atto che l’autore compie nel mettere in posa i suoi soggetti è spontaneo e naturale, appartiene a una visione che in molti hanno definito queer. Tuttavia queer è un termine spesso usato da coloro che sono politicamente attivi nel cercare di superare le classificazioni sessuali, da chi rifiuta con forza le tradizionali identità di genere e le categorie dell’orientamento sessuale mentre le immagini di Hang non hanno nulla di politico né tantomeno sono classificabili come strumenti di lotta contro il sistema. Lo ripetiamo: Ren Hang non fa politica, è un giovane uomo che racconta ciò che lo circonda senza alcuna intenzione di “combattere” il sistema, semplicemente mette in scena la sua realtà.

 

Il colore dei capezzoli

Il colore del tuo capezzolo

più lo lecco e più diventa intenso

come una ciliegia,

ora sembra un acino d’uva

 

Ieri sono passato dal fruttivendolo

Ciliegie: 8,25 al chilo

Uva: 1

(1aprile 2016)

 

Ren Hang, Girl with Ants, 2014. Courtesy Stieglitz19 and Ren Hang Estate.


La poesia Il colore dei capezzoliè un esempio di come un semplice atto erotico nella mente dell’autore si trasforma in conto della spesa. Il corpo qui, questa porzione del corpo, devia dall’ambito delicato di un gioco sessuale per confluire in quello più pratico del confronto tra il valore monetario di due generi alimentari, ma è anche il contrappunto che l’eccitazione gioiosa fa di una constatazione miserevole. Cosa ci si può permettere: le ciliegie o l’uva? L’immaginario è quindi sì spostato su un piano sociale ma parla anche di una valutazione dell’amore. Di certo non ci si può permettere di esprimere pubblicamente il proprio desiderio.

 

Allo stesso modo Hang, nelle sue immagini, mostrando giovani corpi nudi, di una bellezza riprodotta in serie, denuncia suo malgrado la fragilità e al tempo stesso il desiderio di essere parte del mondo, non di servirlo. Le pose innaturali rimandano a quel conto della spesa che prende il sopravvento sull’amore e sulla bellezza pura e asessuata cui l’autore anela. Nelle sue costruzioni visive Ren Hang deturpa il naturale equilibrio fisico pur tuttavia mantenendo una forma armoniosa del corpo stesso ed è qui che si cela la ribellione al sistema, una ribellione non cercata bensì naturalmente insita nell’essere umano.

Le immagini mostrano giovani individui che guardano dritto in faccia il pubblico, essi si rivolgono all’osservatore in quanto parte del sistema puntando gli occhi nell’obiettivo, unico strumento che posseggono per testimoniare al di fuori di sé di esistere. Al contempo però si mostrano per ciò che sono: fianchi, cosce, sessi, braccia, volti: il corpo è esposto non per scandalizzare (come vorrebbe il regime per meglio reprimere) ma per testimoniare l’esistenza. 

Le immagini che Hang ci propone non sono altro che il ritratto naturale di ciò che ci circonda e dunque inevitabilmente universali. I giovani nudi possono essere indifferentemente cinesi, europei o più ampiamente occidentali e orientali in quanto quella di Ren Hang è una constatazione della realtà dell’essere umano e non generica identificazione di una condizione giovanile. Le parole dell’autore stesso pongono fine ad ogni possibile altra interpretazione quando dice: “I nudi sono nudi. non sono sexy né eccentrici. Se hanno qualche significato, è perché io do loro un significato”.

 

Ren Hang, Untitled, 2015. Courtesy OstLicht Gallery and Ren Hang Estate.


Nel febbraio del 2017 il giovane prodigio della fotografia cinese si è suicidato a Pechino, saltando dalla finestra della sua abitazione. “Soffriva così tanto di depressione che non riusciva a controllarsi. Viveva a un ritmo frenetico, viaggiava molto”, ha affermato il suo gallerista, Lingyun Wang, della On-Gallery di Pechino. Sul suo sito web c’era una pagina intitolata La mia depressione che nel 2013 è diventato anche il titolo di un libro contenente fotografie e poesie.

“Fino alla fine ha voluto superare se stesso, andare oltre. Stava cercando la libertà assoluta”, ha detto ancora Wang. Oltre alla fotografia Hang, lo ricordiamo, ha scritto numerose poesie, alcune piuttosto divertenti, in una sorta di metrica haiku cruda, attraversata da morte e sesso. All’inizio del 2017 ha esposto al Foam di Amsterdam, a Pechino, a Stoccolma. Forse avrebbe potuto superare il malessere che gli procurava quel sole nero che lo bruciava dentro. Le immagini che non ha scattato, i versi che non ha scritto hanno fatto a pugni con le voci che risuonavano funeste nella sua mente, una lotta impari che lo ha fatto soccombere lasciando un grande vuoto in un panorama artistico a tratti un po’ asfittico. 

 

In un post pubblicato su Weibo, un social cinese, il 27 gennaio 2017 riferendosi al desiderio di morire scrisse: “Spero che questo obiettivo possa essere raggiunto quest’anno”.

E così è stato poco meno di un mese dopo, il 24 febbraio e poco prima di compiere trent’anni.

 

Amore

Quando mi giro

tu sei ancora lì

mi giro di nuovo

e tu sei ancora lì.

 

Un’altra volta ancora

e la porta si è chiusa

e così io non posso vederti

ma so

che sei ancora lì.

(1gennaio 2017)

 

La mostra Nudi di Ren Hnag, esposta presso il Centro per l’Arte contemporanea Luigi Pecci a Prato, è visitabile fino al 23 agosto 2020.

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Olivo Barbieri: Early Works

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Olivo Barbieri, ovvero narrare il sublime del mondo

 

Dovrebbe essere proprio di ogni linguaggio esprimere quel che è indicibile in altra forma se non con quel linguaggio. La ricerca di Olivo Barbieri mira da sempre all’essenziale specifico della fotografia. Quel che altrimenti non si può rendere risuonante con l’osservatore, se non mediante l’immagine fotografica; quel che non coincide del tutto con l’oggetto rappresentato ma evoca e invoca allo stesso tempo l’immaginazione dell’osservatore: per queste vie Barbieri mette chi si ferma a guardare i suoi lavori in posizione di ricerca. Una ricerca di significati mai esauribile e saturante, anche quando sono saturi i paesaggi che riprende. Una ricerca che rende l’osservatore parte dell’immagine, in un processo ecologico di percezione visiva. Nelle sue immagini ci si muove, riflettendo e immaginando, senza sosta. Si attiva in chi guarda una partecipazione sensomotoria che risuona sia con i luoghi e i paesaggi, che col gesto del fotografo e la sua percezione. Una percezione di solito inaudita, imprevista, destabilizzante, inattesa, eppure carica di senso di scoperta.

 

Con sodale stupore, ci si trova a dirsi, osservando: ma le cose stanno anche così! E mondo interno e mondo esterno accedono a esperienze estetiche che estendono percezione, comprensione e sentimento della realtà. Se ne esce aumentati. Barbieri mette in narrazione il sublime del mondo. Più scarno l’ente rappresentato, più Barbieri riesce a esaltarne l’essenza. O perché la coglie in un solo pixel, o perché stacca dallo sfondo, dove se ne stava appiattata, una scena che da semplice luogo o momento diventa iperluogo. In Early Works 1980 – 1984 (presso il Complesso Monumentale di Astino, Bergamo, dal 26 giugno al 31ottobre 2020), lo spazio diventa tempo, sperimentando una metamorfosi che genera più dimensioni. Il percorso di avvicinamento alle opere in mostra produce un effetto singolare: le immagini parlano allo stesso tempo di situazioni vicine e incredibilmente lontane. I veri e propri universi contenuti in ogni fotografia sono di una normalità schiacciante, ma anche in grado di spaesare, proprio per la loro archeologia recente, se è lecito ricorrere a un ossimoro. Rilevati e sollevati da dove giacevano, cose, case, strade e alberi, oggetti sparuti e datati fanno da sfondo ad altrettante estraniate presenze umane, dando vita a una galleria di paesaggi in cui ci si muove stupiti, come in una mostra di modernariato dove il museo ha rotto le mura ed è tracimato nel mondo. Possibile che sia passato così poco tempo, in fondo, e che tutto appaia così incredibilmente lontano? Solo uno sguardo superficiale può indurre a parlare di “Non luoghi” riferendosi alle opere esposte ad Astino.

 

Foto di Olivo Barbieri.


Prima di tutto in quanto pare giunto il tempo di fare i conti con la troppo fortunata espressione inventata da Marc Augè: “non luoghi”, appunto.

Nonostante la crisi dell’esperienza dei luoghi e l’accesso a significati allo stesso tempo saturi e rarefatti, per un animale simbolico come noi siamo non esiste un “non luogo”. Non può esistere in quanto noi conosciamo il mondo perché gli diamo un significato o, detto meglio, è in quanto diamo significato a qualsiasi cosa che quella cosa esiste. Non abbiamo, da quando siamo diventati dotati di comportamento simbolico, la possibilità di accedere al mondo in una relazione di corrispondenza immediata e pratica, per così dire in scala uno a uno. Mediante l’attribuzione di significato conosciamo la realtà. Allora un luogo, per quanto alienato e anonimo è oggetto di significato per noi: un significato magari perturbante, disturbante e persino saturo e deprimente, ma significato. I materiali che lo compongono possono essere fonte di disagio e sofferenza, di perdita e alienazione, ma li incorporiamo coi processi di affordance e sense-making che ci caratterizzano e distinguono come specie. 


Allo stesso tempo e per le stesse ragioni, ogni luogo è paesaggio per noi. I paesaggi della nostra vita sono un tema costante nella poetica di Olivo Barbieri. Sia che si tratti dell'ampia serie Site_Specific con cui Barbieri ha esplorato il mondo nelle sue manifestazioni più varie, dalla complessità delle metropoli alle espressioni naturalistiche delle montagne come le Dolomiti. Sia che si tratti delle manifestazioni micro-esperienziali come i lavori delle origini del suo percorso di ricerca, laddove i frammenti della modernità hanno assunto una connotazione estetica del tutto particolare grazie al suo sguardo e al suo lavoro fotografico. Il percorso di Early Works che si dipana dal 1980 al 1984 coglie un punto di soglia tra un mondo che finisce e un mondo che inizia. Sono, quelli, anni di profonda trasformazione che Barbieri fissa in immagini che riescono a divenire struggenti nella loro normalità. È come se l'iconografia fosse quella dell'ultimo giorno di un’epoca in cui viene a compimento l'illusione di una modernizzazione i cui simulacri sono rappresentati sia dagli oggetti di consumo ormai consunti sia dalle tracce di vita, dalle case alle strade, alle persone, che appaiono attonite nella loro straordinaria significazione.

 

Eppure, il tempo è un grande scultore, come ci ricorda Marguerite Yourcenar. Accade così che quello che era nell’ordinario quotidiano finisca per ricoprirsi di un’aura singolare nel momento in cui l’azione del tempo e il gesto del fotografo lo ricollocano in un inedito orizzonte di senso. Si compie per l'ennesima volta e all'infinito la conversazione tra osservatore e osservato con la mediazione del principio di immaginazione. Per molti aspetti questa è l'esperienza estetica, una proprietà emergente accessibile a noi umani, in grado di comporre e ricomporre in continuazione i significati del mondo e degli oggetti che lo popolano. Procede allo stesso modo la nostra esperienza e si veste e riveste di nuovi significati. Nel processo non hanno una funzione secondaria i contributi della ricerca fotografica che compongono oggi in maniera ampia e diffusa la nostra semiosi. 

 

Foto di Olivo Barbieri.


La rilevanza estetica dell’ordinario

 

Sono in primo piano, in molte fotografie della mostra, le assenze e le mancanze. Nel gioco reciproco tra l’arte di Barbieri e lo sguardo dell’osservatore si situa l’emergere di quello che non c’è eppure si presenta, evocato principalmente dal vuoto. Una casa chiusa, sospesa nelle ultime luci del giorno, decorata dall’ultimo sole, in provincia di Ferrara, nel 1981, manifesta la storia di un mondo che non c’è più, seppur recente; che è già passato; un mondo che è però in grado di rinviare a quello che sarebbe venuto dopo, quasi preannunciandolo. Quel simulacro di tempi recenti eppure ormai remoti trova molti epigoni nella mostra. In altri casi, infatti, sono i silenzi che evocano voci, o gli oggetti di consumo che denotano sogni di affermazione sociale a proporre letture antropologiche ed esistenziali di una transizione, fissata come se fosse sospesa, con una tonalità quasi metafisica. Nella poetica delle fotografie della mostra, ogni tanto è come se facesse capolino Giorgio De Chirico. A sottolineare il lavoro del tempo sulla nostra esperienza, in questi lavori di Barbieri, ci pensano in particolare le automobili. Assurgendo a segni peculiari del tempo i modelli automobilistici e le marche propongono, forse più di ogni altro oggetto rappresentato, il destino delle forme. Gli spigoli del cambiamento e la modernizzazione dei particolari e dei colori, sarebbero presto diventati un segno del passato, eppure con essi Barbieri rappresenta con particolare efficacia l’illusione del boom economico a quello che sarebbe stato uno dei suoi massimi apogei. Valga per tutte la fotografia della Seicento con un televisore sul portapacchi, Tuscany 1982, usata opportunamente per la copertina del catalogo, dove si consuma una delle sintesi semiotiche più eloquenti di un’intera epoca.

 

Foto di Olivo Barbieri.


 È a Rio Saliceto, in provincia di Reggio Emilia che, sempre nel 1982, Barbieri cattura un’immagine che trasuda di storia: una 126 è parcheggiata davanti a una casa degli anni sessanta che al piano terra ospita la sede del Partito Comunista Italiano. La saracinesca del garage adibito a sede del partito è alzata ma leggermente fuori squadra, come se fosse ormai inutilizzata o deprivata della cura di un luogo che ha avuto una funzione centrale in termini di rappresentatività e di appartenenza. Un’immagine che riesce a contenere la fine di un’epoca. In Italy 1982, una sala giochi con flipper e una donna seduta ci si trova immersi un universo a la Hopper, una fusione inattesa tra la provincia italiana e l’America in una narrazione della cultura occidentale di quegli anni che contiene allo stesso tempo i sogni e l’alienazione di intere generazioni.

 

Una vista destrutturata di ogni edulcorazione stereotipata del lungomare di via Caracciolo a Napoli, con Castel dell’Ovo sullo sfondo, restituisce il dramma umano e civile di quella città in quegli anni, con il senso sospeso di una svolta sempre di là da venire. Emilia Romagna 1982, presenta una scena che si perde nella notte e che parla di un’epoca che in quella notte si esaurisce per lasciare un vuoto causato da un’illusione che è durata in fondo troppo poco. Una misura della velocità e allo stesso tempo della staticità di quegli anni Barbieri la rende con le fotografie delle chiese di campagna o di piccoli paesi che sono in mostra: luoghi resi posticci dall’abbandono e tuttavia presenti, quasi incapaci di invocare il tempo e il ruolo che fu loro, come del resto vale per la sede del Partito Comunista Italiano. La vitrea trasparenza della notte di Lugo, Ravenna, 1982, una fotografia che parla della poetica di Olivo Barbieri in modo emblematico, contiene uno dei segni distintivi dell’intero progetto: la macchina fotografica nelle mani di Barbieri giunge a cogliere l’irrappresentabile e a farne l’oggetto di una sublime narrazione.

 

Foto di Olivo Barbieri.


Sistemi che osservano

 

Il mondo per Barbieri è un sistema che osserva. Non c'è sforzo nel suo atto fotografico. La realtà sembra presentarsi al suo sguardo disponibile e addirittura invocante quel suo atto fotografico. “Quelle immagini erano una sorta di performance”, dice Barbieri nell’intervista contenuta nel catalogo, “reagivo in funzione della reazione che veniva manifestata nei miei confronti”. Questo non vuol dire che nel suo lavoro non ci sia un costante impegno di ricerca e anche molta fatica, tra viaggi, permessi, impegno speculativo e realizzazione delle opere. Tutto questo però non si nota in quanto tende a prevalere la pacatezza e il rigore di un linguaggio a lungo meditato i cui esiti sono tangibili nel suo intero percorso di lavoro. A osservare l’atto fotografico di Barbieri nel ciclo Early Works 1980 – 1984 appaiono una serie di luoghi e situazioni italiani ed europei che presentano scene esistenziali tra rare presenze umane.

 

C’è una costante e silenziosa mancanza e un’intensa partecipazione, che insieme danno il senso della sospensione di un tempo di transizione in cui le ultime vestigia dell'illusione del boom economico mostrano di iniziare a presentare il conto dell'avvio di un’epoca che, prima con velocità ossessiva, e poi con una lunga serie di crisi ed emergenze avrebbe prodotto una profonda trasformazione. Tanto da farci apparire questa nostra contemporaneità come più lontana di quanto di fatto non sia rispetto alle immagini in esposizione che Barbieri ci presenta. C'è un’ineluttabile componente arcaica nelle cose, negli sguardi rari, nei paesaggi. Spesso si affaccia nelle immagini un’atmosfera stralunata, quell’atmosfera mediante la quale i mondi della pianura padana sono stati capaci di diventare una metafora del mondo, un ologramma della nostra vita attuale.

 

Valgano per tutte, come paragone, le atmosfere narrative di Gianni Celati e quelle cinematografiche di Federico Fellini. In scena Barbieri mette anche i simulacri mitici del tempo, quei simulacri che in quegli anni, appunto, erano stati definiti “miti d'oggi” da Roland Barthes. Miti e osservazione, sperimentazione e narrazione si combinano nel rapporto che Olivo Barbieri stabilisce con il mondo. E un sistematico effetto di verità, o meglio di senso della verità, si presenta all’osservatore delle sue opere. Quell’effetto di verità non è né dimostrativo né violento, ma presenta un realismo che a volte assume i toni magici e altre volte i toni drammatici della nostra contemporaneità. Il suo lavoro in tutti questi anni, a partire dagli inizi fino a oggi, si configura come un viatico del nostro tempo, che col trascorrere degli anni assume le connotazioni di una costante interrogazione sulla nostra presenza e sul nostro destino come specie umana sul pianeta Terra.

 

Olivo Barbieri Early Works 1980 – 1984, a cura di Corrado Benigni, presso il Complesso Monumentale di Astino, Bergamo, dal 26 giugno al 31ottobre 2020. Catalogo Silvana Editoriale, p.136, E. 30.

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Cesare Colombo. L’occhio di Milano

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Un enorme tavolo occupa la sala del Castello Sforzesco dove si tiene la mostra di Cesare Colombo. Tante piccole lampade sono disposte sulla sua superficie. Sembra un immenso piano di lavoro costituito da due pannelli sostenuti da alcuni cavalletti che fanno venire in mente quelli usati dagli imbianchini. Lo sguardo ne è immediatamente attratto. Chi si avvicina e lo scruta con curiosità non ne rimane deluso, anzi, ne subisce un moto di empatia.

 

Su un lato è stampata la biografia di Cesare Colombo e sull’altro si possono leggere molti dei suoi scritti, legati all’attività di critico e curatore. La luce delle lampade crea un’atmosfera di intimità e favorisce una prossimità con l’autore. Sono lampade disegnate da Philippe Starck, le Miss Sissi, “quasi un grottesco ricordo del policarbonato delle abat-jours di un tempo”, dice l’ideatore del tavolo, Italo Lupi che con Colombo ha una lunga storia di collaborazioni. Sotto quella luce anche lo sguardo si fa caldo, aperto e disponibile a conoscere la storia del fotografo e di Milano, la sua città.

Al tavolo non ci si avvicina con lo sguardo, è necessario spostarsi con il corpo ed è richiesta anche la postura del raccoglimento, quella del chinarsi. 

 

C’è uno scambio molto intenso tra ciò che accade al tavolo nel mezzo della sala e ciò che è già avvenuto nelle foto: in entrambe le dimensioni di tempo e di spazio sono le persone ad occupare il centro. Lo abitano. Il tavolo agisce come un ponte, è quasi una macchina del tempo che genera un movimento anche nel nostro sguardo, poiché attenua l’assuefazione che le innumerevoli immagini della metropoli hanno prodotto nella nostra memoria visiva. Grazie alla soluzione inventata da Lupi, la mostra di Colombo ha acquisito una sua autonoma vitalità, senza così correre il rischio si trasformarsi nella semplice celebrazione della città e di uno fra i più fedeli interpreti visivi dei suoi cambiamenti. 

 

Ciò che riesce a commuovere di Colombo è la prossimità ai suoi soggetti. Un modo di guardare simile a quello di un amico cui affidare i propri pensieri. La prima sezione della mostra si intitola Album metropolitano e ricorda, appunto, uno scrigno dove sono stati conservati alcuni degli istanti vissuti dal fotografo e dai suoi concittadini. Si vedono piazze e  strade, ma soprattutto le persone: le lavandaie alla Darsena, i ragazzi che fanno il tiro alla fune al Parco Ravizza, chi prende un caffè alla latteria in Via Vigevano, dove Colombo aveva lo studio. 

 

Raramente la città è vuota come nelle foto di Gabriele Basilico. Milano sembra molto vicina a quella rappresentata da Carla Cerati nel grande grande affresco visivo che è Milano Metamorfosi, in cui la fotografa celebra i mutamenti della città dai primi anni Sessanta alla morte di Aldo Moro. È soprattutto una città fatta di volti. Colombo sembra mostrarne il lato intimo, quello nascosto. Sin dagli anni Cinquanta, nella sua esperienza artistica, i volti sono la sostanza prima e irriducibile della città, in un dialogo di sguardi che è testimoniato in tantissimi scatti come quello della fioraia nei pressi del Cimitero Maggiore, della ragazza che posa per le prove di un ritratto in Via Melchiorre Gioia, dell’anziano signore che si distacca dalla folla in Piazza Duomo. Guardare negli occhi i milanesi significa cercare il volto nascosto di Milano, la sua verità. Per Colombo, come per altri grandi fotografi del calibro di Lisetta Carmi, Letizia Battaglia, Uliano Lucas, Tano d’Amico, cogliere la verità significa essere solidali con il soggetto, avere il coraggio e la determinazione per stare “dentro” le situazioni. 

 

Che vuol dire aver maturato una sensibilità al dialogo, come nel caso dello studente che si tiene il viso con una mano a una conferenza di Marcuse. Colombo lo fotografa seduto al tavolo mentre il filosofo parla agli studenti. La sua espressione è talmente potente che la presenza di Marcuse appare ininfluente. Il suo sguardo sembra perplesso e diffidente, ma la distanza tra lui e il fotografo è così esigua, che tra i due sembra stabilirsi un dialogo segreto. La sua fotocamera non sancisce l’apoteosi della distanza e dell’onnipotenza ma è un tramite con cui stabilire relazioni. 

 

Assemblea di studenti in piazza Santo Stefano, 1968Milano, Civico Archivio Fotografico, inv. Col 44 © Cesare Colombo.


Supermercato a Baggio, 1967Milano, Civico Archivio Fotografico, inv. COL 40 © Cesare Colombo.


Durante un’assemblea di studenti in piazza Santo Stefano, nel 1969, a colpire non è la folla, ma il volto di una ragazza seduta per terra che guarda in macchina. Tutti sono attenti e rivolti all’oratore. Solo lei, con il volto serio, sembra interrogare il fotografo e rivolgergli la parola attraverso l’obiettivo. E Colombo risponde con la fotografia. Due donne fanno la spesa in un supermercato a Baggio. Con i figli nel carrello e gli abiti dimessi guardano il fotografo quasi infastidite, ma si lasciano ritrarre. Un gesto di solidarietà silenziosa. 

Promana, da tutte queste immagini, una tensione emotiva del fotografo. L’individuo non si annulla nella folla, non viene inglobato dalle situazioni o travolto dagli eventi. Si tratta di una singolarità che insieme svela anche la sua fragilità. E, proprio perché viene mostrata, diventa una forza, un tesoro interiore che dà un volto diverso alla città. 

Nell’attenta e minuziosa introduzione al catalogo, Silvia Paoli fa un riferimento a Giuseppe Turroni il quale a proposito di Colombo parla di “sensibilismo”, del sentimento di tristezza, “un gusto bruciato” che dà corpo allo specifico fotografico, all’immediatezza visiva che capta un’atmosfera, allo sguardo attento, acuto e sensibile della sua “camera sincera”.

 

Gae Aulenti, 1979Milano, Archivio Cesare Colombo ©Cesare Colombo.


Giorgio Armani, prove per una sfilata, 1988Milano, CivicoArchivio Fotografico, inv. Col 78 ©Cesare Colombo.


Persino fra le foto dei designer e degli stilisti (Krizia, Giorgio Armani, Achille Castiglioni, Gae Aulenti, lo stesso Italo Lupi…), il nostro sguardo è mosso dalla vicinanza prima che dallo stupore. Un bell’esempio è la foto in cui in cui Enzo Mari, chino su un modellino che sta costruendo, sembra giocare con alcune figure umane in cartone non più grandi della sua unghia. Apparentemente incurante, eppure consapevole del fotografo, guarda compiaciuto la sua opera. Un istante in cui non vi è alcuna forma di narcisismo e compiacimento. 

 

Per Milano vale lo stesso, perché Colombo sa porsi alla giusta distanza. Dà l’impressione di trovarsi talmente vicino da abitare lo stesso spazio di chi sta dinnanzi all’obiettivo. Lo sguardo è in equilibrio tra Henri Cartier-Bresson e William Klein, “l’uno incline al rispetto e alla distanza dagli eventi, l’altro immerso nel fluire delle cose”, come ricorda lo stesso fotografo in un’intervista del 1986.  Si ha l’impressione che pochi, come Colombo, conoscano in maniera così scrupolosa quello che stanno fotografando. 

 

Largo Cairoli, ore 8”, 1956Milano, Civico Archivio Fotografico, inv. COL 7©Cesare Colombo.


Corso Buenos Aires, 1966Milano, Civico Archivio Fotografico, inv. COL 38 ©Cesare Colombo.


Il bisogno di conoscenza è, infatti, un’altra componente della sua intensa attività, forse quella meno attesa e che perciò stupisce maggiormente. Critico, curatore e studioso si occupa anche della valorizzazione degli archivi fotografici di aziende ed istituzioni come la Ferrania, 3M, il Touring Club Italiano. Ciò che conta è “la portata sociale di una comunicazione fotografica i cui significati devono essere compresi e validati dalla collettività”, afferma Colombo, poiché l’uomo è sempre al centro dello spazio “misura e rapporto per una casa, per una fabbrica, per il quartiere”.  E ancora: “una rassegna fotografica è una comunicazione che sollecita e attende risposta; come il livello democratico della società oggi richiede”, scrive nel 1977. La sua passione per la fotografia è un compito storico a cui affidare l’eticità del proprio lavoro, non solo quando scatta. La fotografia è documento e informazione, ma anche interpretazione e visione, oltre ad essere uno strumento che può divenire parte attiva nei cambiamenti della società. Per questo “curare” una mostra è un gesto che si carica di un valore immenso. Una fotografia può creare identità, relazione, storia. 

 

I titoli delle mostre da lui curate spiegano e raccontano: L’occhio di Milano.48 fotografi 1945/1977; Professione Fotoreporter. L’Italia dal 1934 al 1970 nelle immagini della Publifoto di Vincenzo Carrese; Italia: cento anni di fotografia (che vede come promotore il Museo Alinari); Scritto con la luce. Fotocine in Italia 1887-1987; Il Bel Paese. Cento anni d’amore per l’Italia (per il Touring Club Italiano); Cento anni di industria, a cura di Valerio Castronovo, con cui collabora, solo per citarne alcune. Camminare nella sala del Castello Sforzesco diviene così occasione per ripercorrere la storia della fotografia attraverso le istituzioni che l’hanno promossa come strumento per capire i mutamenti di un Paese. 

 

La biografia di Cesare Colombo non è meno coinvolgente del suo lavoro. Osservando il tavolo allestito dall’amico Italo Lupi si viene a sapere che, nato nel 1935 in una famiglia di artisti, oltre che fotografo, è grafico e collabora con numerose riviste come Ferrania, Fotografia, Camera. Si dedica alla fotografia industriale e di architettura, partecipa a numerosi convegni e insegna presso la Società Umanitaria. Nel 2014, due anni prima della scomparsa, ripercorre la sua storia professionale e umana. Lo fa in una lunga intervista a Simona Guerra. Il titolo è insieme evocativo e malinconico: La camera del tempo. Le parole conclusive sono una sorta di dubbioso congedo. Affettuose e distaccate, appaiono anche una delicata invocazione, un modo per interrogare la natura ambivalente della fotografia, il suo porsi come strumento di rivelazione e occultamento. Eccole: “Ritorno ancora una volta al trascorrere sempre più veloce degli anni della mia vita: l’ho dedicata tutta, senza rimpianti alle immagini fotografiche. Cosa non frequente, più spesso a quelle di altri autori – notissimi o completamente ignoti – che alle mie. […] Riusciamo, riesco davvero a riconoscervi il senso che avrei voluto? Ma soprattutto: sono sicuro di aver visto giusto? E cosa ho visto?”

 

 

Cesare Colombo. Fotografie 1952-2012, a cura di Silvia Paoli con Silvia e Sabina Colombo, dal 25 giugno al 30 settembre 2020. Castello Sforzesco, Milano.

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Le fotografie al Castello Sforzesco
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Joachim Schmid: cataloghi caotici

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Sara Benaglia, Mauro Zanchi: Nel 1989 Lei ha dichiarato «Nessuna nuova fotografia finché non siano state utilizzate quelle già esistenti!». Quest’ottica “ecologica” in un contesto in cui la proliferazione di immagini è iper-accelerata come ha cambiato il suo modo di pensare la fotografia, anche dei grandi autori? Perché qualche anno più tardi ha affermato «Per favore non smettete di fotografare»? E che cosa direbbe oggi?

 

Joachim Schmid, The artists model, 2016, courtesy of the artist, ph C. Favero.


Joachim Schmid: Il primo slogan è stato il titolo provocatorio di un saggio sull'enorme sovrapproduzione in fotografia, che indicava le masse di immagini esistenti che sono potenziali materie prime per tutti i tipi di opere. Questo in un momento in cui una nuova generazione di fotografi si batteva per far riconoscere la fotografia come una forma d'arte a tutti gli effetti legittima. Avevo forti dubbi su questo approccio incentrato sulla macchina fotografica. E a quanto pare il mio titolo era una frase così orecchiabile che da allora mi perseguita. 

La seconda è la ricostruzione di un'istantanea trovata. L'ho usato come una sorta di motto per il mio Bilderbuch, che si basa su una collezione di stampe che dura tutta la vita. Ho pensato che fosse adatto perché per questo lavoro dipendo dalla produzione dei fotografi. E ho pensato che sarebbe stato bello confondere un po' il mio pubblico, così ogni futuro intervistatore ha qualcosa da chiedere. 

Cosa direi oggi? Temo che non abbia importanza. Il che non significa che non mi verrà in mente qualcosa anche domani. 

 

Joachim Schmid , Archiv 1, 1986, courtesy of the artist.

 

SB, MZ: Nel suo lavoro di artista si è appropriato di fotografie anonime, amatoriali, analogiche, trovate sui mercatini, in archivi, per strada, si pensi a Bilder von der Straße (1982). Ha anche riutilizzato immagini “rubate” dalla rete, come in Other People’s Photographs (2008-2011), ri-presentandole in diverse forme organizzate. Si sente vicino alla posizione formulata da Roland Barthes di “morte dell’autore” o, ora che il suo lavoro è ampiamente riconosciuto a livello internazionale, vive il conflitto di aver creato una nuova paternità delle immagini? Ha mai trovato un falsario che cercasse di erodere il concetto di originale nella sua opera?

JS: Prima di tutto, lasciatemi dire che non ho mai rubato fotografie. Sono ancora nel posto dove le ho trovate. Le ho prese in prestito per il mio lavoro, sono state adottate. 

Per quanto riguarda Roland Barthes, conosco solo il titolo del suo libro, ma non l'ho letto. Non leggo nessuna teoria dell'arte. La teoria dell'arte e l'arte non hanno molto in comune. La teoria dell'arte non è scritta per gli artisti, ma per i teorici. È un regno a sé stante. Trovo divertente, però, che tutti conoscano il nome dell'autore che ha scritto quel libro sulla morte dell'autore. 

Per quanto riguarda il mio lavoro, non sono mai stato interessato a creare uno stile mio o di qualsiasi altro marchio di fabbrica. Ciononostante, ci sono stati alcuni tentativi di imitazione, alcuni volevano essere lusinghieri, altri cercavano di prenderlo in giro. Purtroppo nessuno di questi tentativi è stato convincente. Le emulazioni di Photogenetic Drafts sembrano essere un compito standard del primo anno in alcuni college del Regno Unito. I risultati che ho visto sono piuttosto orribili. 

 

Joachim Schmid, Photogenic draft 4, 1991-2001, courtesy of the artist.

 

Joachim Schmid, Photogenic draft 7, 1991-2001, courtesy of the artist, ph C. Favero.


SB, MZ: Lei ha cominciato la sua carriera scrivendo di fotografia per European Photography, arrivando a fondare la rivista Fotokritik (1982-1987) per poi pubblicare libri d’arte a partire dalle sue collezioni di “fotografie trovate”. È ancora interessato alla critica, ha mantenuto attiva la sua pratica di scrittura?

JS: Trovo sempre più difficile scrivere e quindi mi limito a poche occasioni in cui sento la necessità di tradurre qualcosa a parole. È una situazione terribile. La scrittura è un processo che aiuta a capire le cose, ma più imparo e più diventa difficile. 

 

SB, MZ: In un breve saggio scritto da Mark Durden sul suo lavoro, egli inserisce la sua opera in un contesto culturale che ha valorizzato l’aspetto dilettantistico della fotografia, facendo specifico riferimento all’estetica promossa da John Szarkowski, direttore del dipartimento di Fotografia del Museum of Modern Art di New York (1962-1991). Accompagna il saggio l’immagine Penny Picture Display, Savannah (2008) – da American Photographs (2008) –, in cui numerose fotografie di tagli di capelli sono appese sulla vetrina di un parrucchiere. Si tratta di fotografie realizzate in studio da un fotografo di cui non ci è dato conoscere il nome. Perché ha realizzato questo progetto negli Stati Uniti e non in Germania? Se questo è un tributo a Walker Evans farebbe un tributo alla Scuola di Düsseldoft?

 

 

Joachim Schmid, Archiv 122, 1988, courtesy of the artist.


JS: Naturalmente è un omaggio a Walker Evans. Ho scelto Evans e non uno degli Struffkys per una serie di motivi molto semplici. Sono interessato al suo lavoro, le sue foto in American Photographs hanno didascalie piuttosto elaborate che sono state necessarie nel processo, e internet, compresi i siti di hosting fotografico, è dominato dagli Stati Uniti in vari modi. Il progetto è stato fondamentalmente un'esplorazione sia della ricchezza di Flickr che dell'usabilità del motore di ricerca. Volevo scoprire se potevo creare un rifacimento del libro di Walker Evans attingendo esclusivamente al pool del sito di hosting fotografico, partendo dal presupposto che con miliardi di fotografie disponibili dovrebbe essere possibile trovare un equivalente moderno per qualsiasi punto di riferimento storico. Avrei potuto scegliere Robert Frank come riferimento, ma le sue didascalie sono così brevi e generiche che ognuna di esse avrebbe garantito innumerevoli risultati tra cui scegliere. Questo è inutile. Volevo qualcosa di più specifico, da qui Walker Evans. Con mia grande sorpresa ho trovato molte foto che si supponeva fossero state fatte "nello stile di", ma trovare equivalenti che in realtà erano state fatte nello stesso luogo o che avevano qualche altra somiglianza si è rivelato molto più difficile del previsto. Quindi il libro che ne è risultato è tanto un rifacimento del libro storico quanto un documento del mio fallimento. 

 

Joachim Schmid, Archiv 606, 1994, courtesy of the artist.


SB, MZ: La sua fotografia è come un testo composto da numerose citazioni senza autore, ma in questa sorta di “copia e incolla” Lei classifica, organizza. In un certo senso la sua fotografia è pensabile non secondo uno stile, ma dettata da una o più logiche. Si potrebbe affermare che la catalogazione è uno stile? O che Lei crei delle sotto-categorie o derivazioni da generi o categorie di soggetti “ben consolidati”? Come articola questa scrittura per immagini, soprattutto quando lavora con immagini della rete, in cui la casualità dell’incontro è meno imprevedibile rispetto alla fotografia analogica?

JS: Non si può parlare di "stile" in questo contesto, secondo me. È piuttosto un atteggiamento. Nelle opere che possono essere viste come una sorta di "catalogazione" propongo un sistema di ordine per una parte dell'universo fotografico, ma a ben guardare non si può non notare che ognuna di queste proposte è al tempo stesso una forma di "catalogo" e uno sguardo ironico all'idea di catalogazione. Prendiamo ad esempio i titoli dei 96 volumi di Other People's Photographs. L'elenco è caotico come la tassonomia descritta da Borges nel Celestial Emporium of Benevolent Knowledge

 

SB, MZ: La fotografia dagli anni Ottanta è diventata una pratica sociale diffusa. Ma la “fotografia elettronica” ha anche perso affidabilità: essendo ritoccabile potrebbe non essere considerata una prova in un tribunale, per esempio. Dove è finita la verità documentale della fotografia elettronica?

JS: Non so dove sia andata a finire l'idea della verità fotografica, ma è andata. Non mi lamento perché si è trattato di un'ipotesi molto ingenua. Con un po' di fortuna (e molta educazione) potrebbe essere sostituita un giorno dalla percezione critica.

 

Joachim Schmid, Estrelas Amadas, 2013, dettaglio, courtesy of the artist.

 

Joachim Schmid, Estrelas Amadas, 2013, courtesy of the artist.


SB, MZ: Nel suo articolo “The Electronic Photographer Is Coming” (1985) analizzava l’impatto di scrittura e reti informatiche sulla produzione, sulla distribuzione e sul significato stesso delle fotografie in relazione alla “distruzione del reale”. Quale crede sarà l’evoluzione della fotografia alla luce dell’altissimo livello di condivisione di immagini in rete da parte dell’homo photographicus?

JS: Se volete conoscere il futuro dovete chiedere a un indovino. Il mio potere chiaroveggente è minimo. È già abbastanza difficile stare al passo con la presenza.

 

SB, MZ: Che cosa fa l’algoritmo all’aspetto dilettantistico della fotografia?

JS: Noi, il collettivo degli umani, facciamo immagini molto simili da decenni. Non l'abbiamo imparato a scuola e nemmeno i nostri genitori ce lo hanno insegnato. È un processo di percezione e di imitazione che ha creato degli schemi. Sempre più di questi modelli vengono ora incorporati nel software e nell'hardware. Gli utenti della videocamera non hanno più bisogno di alcuna conoscenza, nemmeno la minima parte per imitare ciò che hanno visto prima. Di conseguenza avremo più immagini che assomigliano ad altre immagini e sarà più difficile fare fotografie "cattive". La maggior parte dei consumatori è probabilmente contenta di questo. Finalmente è vero, la macchina fotografica fa le foto, non la persona dietro la macchina. Ora siamo tutti fotografi, ma i fotografi non servono più.

 

Joachim Schmid, n°629, Berlino, novembre 1999, courtesy of the artist.


SB, MZ: La fotografia è un mezzo che più di altri ha cambiato il reale?

JS: Tutti i media e tutte le tecniche hanno un impatto. L'impatto dei libri nel XVIII secolo è stato più forte o meno forte di quello della radio nel XX secolo? L'impatto del telefono è stato più importante dell'impatto del cinema? Sono domande a cui è impossibile rispondere. Cerchiamo invece di scoprire esattamente come e quale tipo di fotografia ha avuto un impatto su cosa. La fotografia ha cambiato molto, ma non lo si può spiegare in numeri.

 

Joachim Schmid, The Invisible Photograph (Discarded). Courtesy Hillman Photography Initiative at Carnegie Museum of Art, 2014. Per le immagini courtesy of the artist and P420 gallery.

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Macchie sui muri

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Ci si chiederà: ma cosa mi servono ora dei libri sulle “macchie” o cose simili, in tempi così duri, di pandemia e quel che comporta? Provate a leggere e a trasporre dall’ambito delle “macchie” a quello della situazione. È così, mi pare, che funzionano gli studi e i discorsi, non necessariamente sempre diretti. D’altro canto questa maledetta “attualità” ci costringe a questi doppi sforzi per apprezzare le idee che vengono da ogni parte.

Però, penseranno molti, quante volte l’abbiamo sentita questa storia di Leonardo che invita i giovani apprendisti artisti a cercare figure nelle macchie sui muri e via dicendo, ma Adolfo Tura è uno storico dell’arte di classe, di quelli che non ripetono l’arcinoto, che hanno una cultura che spazia dall’antichità al contemporaneo, che insinua teorie con eleganza, senza enfasi, per arrivare ad esporre una propria idea.

La sua Breve storia delle macchie sui muri (Johan & Levi, 2020) ha una tesi, ma la si scoprirà solo alla fine del libro. Nel frattempo ci accompagna lungo un percorso dalle mille sorprese e spunti, con degli affondo vertiginosi e insieme la discrezione del grande conoscitore.

 

C’è infatti macchia e macchia, e soprattutto sguardo e sguardo, e non solo. Tanti, se non tutti, hanno subìto in un momento o nell’altro il fascino dell’argomento: cosa si nasconde non solo e non tanto nelle macchie quanto nel fatto stesso che ci affascinano e che siamo spinti a vedervi delle figure che oscillano tra l’essere e il non essere, che non possiamo chiamare pure illusioni né allucinazioni, che rimandano a un principio non solo percettivo e ci danno l’impressione di attingere a un meccanismo così profondo da sembrare primordiale. Non solo gli artisti visivi vi fanno riferimento ma scrittori, poeti, filosofi, retori, scienziati, studiosi di ogni tipo e disciplina: c’è Shakespeare come c’è Tanizaki, ci sono Quintiliano o Filostrato come Wittgenstein o Simmel, c’è Einstein (Carl) come Bergson o Gombrich, per citarne alcuni tra i più noti, e davvero molti altri vengono chiamati in causa in un’esuberante costruzione. E tanti artisti naturalmente e principalmente, perché tutto ruota intorno a loro.

Tura azzarda perfino che forse l’immagine stessa, il nostro vedere per immagini, sono nati così, attraverso l’operazione “paranoica”, come viene detta, dell’australopiteco che per primo ha “visto” un volto nelle irregolarità di una pietra. È detta paranoica perché è proiettiva, siamo noi che vediamo qualcosa che non c’è, l’immagine parte da noi, non è nel reale, è ombra, è fantasma.

 

A questo meccanismo sono collegati non solo le illusioni ottiche ma anche la facoltà della “veggenza”, non solo l’allucinazione ma anche il mimetismo, l’ambiguità e lo sfocamento, l’identificazione e l’ornamento, l’invisibile e l’inveduto, il fraintendimento e l’errore, e con essi tutta una storia dell’arte e dell’immagine. Anzi, da un certo punto di vista è una controstoria dell’arte quella che si disegna, in controcorrente rispetto a quella più diffusa, che punta sulla giustezza della rappresentazione.

 

Foto di Andreas Gursky.


In questi termini comunque se ne approprierà l’arte contemporanea. Da un altro punto di vista è però fin troppo paranoica, appunto – o troppo poco, secondo Dalì, che la eleggeva a metodo per raggiungere la visionarietà. Troppo per tante ragioni, che sono quelle, in sintesi, dell’arte e della cultura contemporanee, che hanno cominciato a guardare anche le macchie stesse, anche i vuoti, le discrepanze, i casi, le inversioni, gli slittamenti, le sovradeterminazioni, e che d’altro canto l’hanno usata in senso anticontemplativo, antigerarchico, antiformale, e antiverbale, anticoncettuale: l’immagine non è la parola, non è riducibile al concetto.

 

Nel suo testo Tura mostra analogie di molti che hanno evidenziato o fatto appello alla visione nelle “macchie”, in accezione allargata; applica distinzioni essenziali come quella tra le opere che nascono dall’attività paranoica, quelle che la attivano e quelle che ne parlano, o quella interna alle diverse concezioni dell’informe; ricorda le differenti concezioni fin dall’antichità, dagli àuguri che leggevano nel fuoco, nelle viscere, nelle nuvole, alle immagini fortuite dell’Alberti, ad arrivare a riferimenti contemporanei, anche dei meno scontati come De Dominicis e Ousler o Gursky.

 

Il testo è un crescendo, costruito con abilità retorica. La seconda parte ribalta il paradigma dall’interno: si passa dalla anti-veggenza, alla resistenza alla paranoia, fino al suo rovesciamento nella “afasia” di Pierre Bonnard, “dipingere persone come fossero macchie”, e nella “glossolalia” di Jean Dubuffet, una pittura che “non è più l’analogo di una esperienza visiva naturale”, i due principali campioni della sua proposta. Sulla scorta di Nietzsche e di Carl Einstein, mette quest’ultima all’insegna di una “cattiva intenzione”, quella d’intensificare il disordine, che al di là del rovesciamento può guidare tanto la veggenza quanto l’anti-veggenza: “L’indifferenziato”, infatti, “è il nome che la cultura dà a ciò che non vede. Un’attitudine eversiva che si voglia conseguente non può consistere nell’abbracciare l’indifferenziato, ma nel rifiutarsi di considerarlo tale”. È, questo, veramente il nucleo di tanta cultura e arte del XX secolo – io dico soprattutto delle “avanguardie” –, la critica delle opposizioni, del loro dare per consolidati i termini opposti e per vago e inaccettabile ciò che non vi rientra. Per farvi fronte non si può cadere a propria volta nell’opposizione, quindi occorrono prese di posizione e strategie diverse.

 

Quella di Tura la lascio scoprire al lettore, non solo per non rovinargli il piacere, ma anche perché, confesso, ha per me i limiti che si rendono evidenti nella scelta dei due campioni scelti, nell’assenza di tutta un’arte degli ultimi decenni in cui personalmente sono invece coinvolto. Mi limito a chiudere con delle domande non rituali: Se questa è la o una visione del XX secolo, qual è quella del XXI? E del lockdown e del dopo-covid? Macchie, cattive intenzioni o altro ancora?

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Jacques Henri Lartigue e Henri Cartier-Bresson

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A Venezia sono attualmente in corso due importanti mostre: Le Grand Jeu di Henri Cartier-Bresson e L’invenzione della felicità di Jacques Henri Lartigue. Poco distanti l’una dall’altra, offrono la possibilità di confrontare due modi completamente diversi di concepire la fotografia. Per Cartier-Bresson è vivere nel turbine degli eventi, per Lartigue vuol dire stare fuori dal tempo e vivere nel suo mondo dorato. Entrambi, tuttavia, sono uniti da un’irrefrenabile “pulsione fotografica”.

“Io non ho mai mostrato le mie fotografie, salvo ai miei amici e familiari. Del resto è per loro e per me che le facevo, per gioco”: è questo il manifesto di Jacques Henri Lartigue, riproposto su una parete della casa dei Tre Oci, dove è in corso una mostra monografica. Anche la firma è giocosa, dopo l’ultima lettera del cognome appare il disegno di un sole proprio come lo traccerebbe un ragazzino: un cerchio e tanti raggi intorno. A Ferdinando Scianna, Lartigue rivela che le fotografie le aveva fatte per se stesso, come “in estate si fanno marmellate di albicocche quando sono al colmo del sapore e del profumo. Per conservare, di quel regalo della natura e della vita, una traccia”. Ma a me, ribadiva, “piacciono le albicocche fresche, molto meno la marmellata. Il palpito di vita, fulmineo, irripetibile, prezioso”. Così è l’auto che sfreccia velocissima al Grand Prix de l’Automobile Club de France o lo scroscio d’acqua sulla spalla di Arlette Rebuffel in spiaggia a Monte-Carlo (1953). Con ancora maggiore intensità quel palpito è reso dall’espressione furba della moglie Madeleine Messager, seduta a fare la pipì sul water di una stanza d’albergo durante il loro viaggio di nozze a Chamonix (1920). Con lo sguardo direttamente in macchina e le mani appoggiate sulle ginocchia, sembra una bambina che lo osserva divertita. Lartigue si riflette in quello sguardo. Come per la marmellata, cerca di preservare ciò che invece marcirebbe.

 

Jacques Henri Lartigue, Coco, Deauville, 1938.


La sua opera toglie peso alle figure umane, agli animali, alle città. La fotografia, che lui stesso definisce «arte del transitorio», non ha nulla di “pietroso” o di fisso. Lartigue sfugge a Medusa, non la guarda negli occhi. Come Perseo, vola con sandali alati e la leggerezza del suo sguardo solleva i soggetti delle sue immagini, li trae verso l’alto, ne evidenzia gli slanci, ne dispiega le forme. Estenua la materia senza annientarla. Le sue immagini sono eteree, fatte quasi di nulla: i merletti degli abiti femminili, le velette che coprono i visi, gli abiti gonfi di pieghe. E, ancora, una palla sospesa sopra la testa della domestica Dudu, una ruota d’automobile che sembra deformata da una potenza invisibile. Ogni elemento sembra fatto d’aria, è facile sollevarlo da un suolo che sembra addirittura non esistere, sfidando in ogni dettaglio la legge assoluta della gravità. Immagini cariche di mistero, tanto più attrattive in quanto prive di consistenza. Non ci sono tragedie, morti, sofferenza e nemmeno l’intenzione di trasmettere chissà quale messaggio edificante, non siamo dinnanzi al dolore degli altri.

 

Jacques Henri Lartigue, Grand Prix de l’Automobile Club de France detta anche L’automobile deformata, 1913 ma diffusa da Lartigue nel 1912.


Jacques Henri Lartigue, Anna la Pradvina, detta anche “la signora con le volpi”, Avenue du Bois, Parigi, 1911.


Davanti alle foto di Lartigue si è liberi di interpretare o di desiderare, per questo ne siamo attratti. Quelle immagini non mostrano che eventi marginali, movimenti infinitesimali, atti transitori. Non hanno alcuno scopo, se non quello di conservare la memoria, senza alcun compiacimento. Splendide località, bellissime donne, gare automobilistiche, esperimenti di volo, i volti del superfluo di una perenne vacanza. John Berger ci ricorda che guardare una foto significa mettersi nella stessa disposizione visiva del fotografo, riproporre esattamente, tra gli infiniti possibili, lo stesso atto compiuto dal fotografo. Guardare, come fotografare, “è un atto di scelta”. E la scelta di Lartigue è estremamente precisa: fotografa la sua vita e lo fa per se stesso e i suoi amici. I suoi 129 diari composti da fotografie e commenti sono destinati conservare una memoria esclusivamente privata. Non sono pensati per essere pubblicati. Lo saranno solo molti anni più tardi, su invito di Richard Avedon. 

 

Lartigue conserva la sua esperienza solo per sé. Trasforma il reale non in monumenti ma in fantasmi, inconsistenze evocate anche nel titolo del suo primo diario: Mémoires sans mémoire. I ragazzini che saltano e le donne che sembrano volare, ricordano l’evanescenza dei fantasmi, ciò che Roland Barthes definiva un piccolo simulacro, l’eidòlon emesso dall’oggetto, ovvero “lo Spectrum della fotografia, dato che attraverso la sua radice questa parola mantiene un rapporto con lo “spettacolo”, aggiungendovi quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto”. La fotografia di Lartigue non ha nulla di spaventoso. Conserva invece la radice profonda che unisce “spettro” a “spettacolo”, quel verbo “specere”, guardare, perché Lartigue vive per guardare. La vita è uno spettacolo e Lartigue è un giocoso voyeur. Le parole chiave della sua estetica potrebbero essere forma, stile, decorazione, illusione, spettacolo di una classe sociale ricca e agiata di cui lui faceva parte.

 

Le sue foto non sono realtà artefatte, sono naturalmente frivole, impalpabili, aeree. Una leggerezza che equivale a una fuga. Ma da cosa, se la sua vita assomiglia tanto a un’interminabile vacanza? Dal tempo che scorre inesorabile. Il segno del tempo è quello che la sua incessante opera di registrazione ha sempre cercato di cancellare mediante le pagine del suo diario. Non c’è nessuna aspettativa poiché futuro e passato vengono livellati in un continuo istante declinato al presente. La storia che viene narrata non è la storia del tempo in cui vive, ma unicamente quella del proprio tempo e della propria vita. Un gioco. Per questo Lartigue dà alla felicità immagini di leggerezza. Le sue donne sono svagate, pensose, divertite, sbarazzine, seducenti, esuberanti. Comunicano una sensazione di levità, sospensione, di silenzioso e calmo incantesimo. Come si può distogliere lo sguardo da Coco a seno nudo sdraiata sulla spiaggia di Deauville (1938), dallo sguardo magnetico di Renée Perle (1930), più volte fotografata, dal cappello di piume di Gaby Deslys al Casino di Parigi (1918)?

 

Queste foto saranno rese pubbliche solo molti anni dopo. Nel 1963, durante un viaggio negli Stati Uniti, Jacques Henri Lartigue mostra le sue fotografie a Charles Rado, che rappresenta l’agenzia Rapho a New York. Costui, a sua volta, le mostra a John Szarkowski, allora giovane conservatore del Museum of Modern Art, che immediatamente gli propone di esporle. Nel 1963 il fotografo ha già quasi 70 anni, è conosciuto soprattutto come pittore, ma Szarkowski non esita a presentarlo come il “padre” di Henri Cartier-Bresson e dell’“istante decisivo”. Qualche anno dopo la mostra di New York, Richard Avedon gli propone di cercare nelle sue fotografie e di riscrivere il suo diario. Avedon e Bea Feitler scelgono le fotografie della Belle Époque, ma anche quelle degli anni Venti e Trenta ed altre più recenti. Gli album nei quali il fotografo collega le fotografie e i testi alle didascalie sono l’occasione per ripercorrere la sua vita, come accade per la mostra alla Casa dei Tre Oci. Le pareti ricordano le pagine di un diario, la scansione è quella degli album di famiglia: la Belle Époque, gli anni Venti e Trenta, i Quaranta e i Sessanta e così sino agli ultimi anni.

 

Henri Cartier-Bresson Bougival, France, 1956, épreuve gélatino-argentique de 1973 © Fondation Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos.


Il titolo della mostra, L’invenzione della felicità, è davvero una felice intuizione se, come credo, intende richiamarsi al senso più autentico dell’inventare, che è quello di trovare ciò che esiste, scoprire ricercando ciò che si presenta davanti a noi. Le foto di Lartigue sono la testimonianza di una felicità perseguita come stile di vita, privatamente conservata, scatto dopo scatto, fortuitamente e fortunatamente pervenuta a noi, che possiamo goderne, a condizione di richiamare alla memoria le parole che Susan Sontag, nel saggio Contro l’interpretazione (1964), utilizza per la funzione della critica. “Anziché di un’ermeneutica, abbiamo bisogno di un’erotica dell’arte”, sottolineando che l’interrogativo preminente dovrebbe essere non “cosa significa”, ma “come mai è quello che è”.

 

Se per Lartigue nel gioco della vita l’accento cade sulla libertà, per Cartier-Bresson è la regola che conta. All’“occhio del secolo” venne suggerito di fare una selezione fra tutte le immagini che avesse mai scattato. Nel 1973, quando il disegno prende il sopravvento sulla fotografia, a richiesta di due collezionisti di Houston, John e Dominique de Menil, decide di realizzare la sua Master Collection, trecent’ottantacinque, “stampe perfette delle mie foto migliori”, il Grand Jeu.

Dopo il primo sguardo in macchina e il secondo davanti ai provini per scegliere la stampa “giusta”, è il terzo sguardo a decidere le forme e i contenuti da cui origina la mostra. Il Grand Jeu è interamente riprodotto all’ingresso, come una sterminata scacchiera sospesa. Cartier-Bresson non spiega le motivazioni di questa disposizione, le immagini sono solo numerate. Si potrebbe pensare che le abbia scelte nel modo in cui le scattava, mettendo sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore, come era solito affermare.

Ma è solo l’inizio, perché la mostra si articola in ben cinque distinti percorsi, alimentati dalle stesse foto della Master Collection, ciascuno con una propria autonomia, affiancando al coordinamento generale di Matthieu Humery, la curatela di Sylvie Aubenas, Javier Cercas, Annie Leibovitz, François Pinault e Wim Wenders.

 

E così accade che ci sfilano davanti, anche più volte, immagini di un campionario visivo talmente famigliare da essere ormai ampiamente condiviso. La rapidità del suo sguardo comunica agilità, mobilità, disinvoltura, non diversamente dal ritratto che Jean Clair ci fa dello stesso Cartier-Bresson: “grande trampoliere silenzioso, la Leica indolentemente e morbidamente appesa alla estremità del braccio destro, come una fionda a quello di un monello, l’ho visto intrufolarsi nelle assemblee e nelle folle con la grazia e la sicurezza di un eroe di Beaumarchais”. Nelle sue immagini si alterna una successione di avvenimenti che si incastrano uno nell’altro: una storia in cui si racconta una storia nella quale si racconta una storia e così via. L’istante perfetto non è un semplice punto, ma il punto in cui molti istanti si legano fra loro. Una combinazione tra l’attimo fortuito dei surrealisti, che aveva conosciuto e ammirato, e la sua passione per la pittura, con la quale si era formato negli anni Venti.

 

Annie Leibovitz la definisce “composizione intuitiva”, aspetto su cui si sofferma anche François Pinault, affascinato dalle immagini che mostrano la casualità del quotidiano. Nelle sezioni espositive di entrambi è presente la foto di un giovane in salopette senza camicia, in piedi sulla banchina, ripreso di schiena, che osserva quella che probabilmente è la sua famiglia, a qualche metro da lui su una chiatta. Una donna, a sua volta guardata da un’altra donna, tiene tra le braccia un bambino: il piccolo sorride all’uomo, la donna sorride al bimbo, un cane osserva l’uomo. “Cartier-Bresson assume lo sguardo del giovane”, scrive Annie Leibovitz. Le immagini che suscitano in noi un senso di fascino e stupore mostrano un mondo immobile catturato in movimento, sono il risultato di uno stato di grazia di spazio, luce e tempo. La “composizione intuitiva” a volte diviene ossessione geometrica e passione per la forma. Nel caos della realtà si deve saper scegliere ed è lo stesso Cartier-Bresson ad alimentare il mito della sua rapidità e precisione: “il tiro fotografico…Scattare la foto è la mia passione. […] Non mi interessa il risultato, solo il tiro”. E ancora: “sono un fascio di nervi. Ma questo per un fotografo è un asso nella manica. Io non rifletto mai, agisco in fretta! Faccio fuoco!”.

 

Eppure, a ben riflettere, la potenzialità eversiva risiede nell’esatto opposto dell’enunciato. Dinanzi al perfetto equilibrio delle sue immagini scompare ogni aspetto legato alla cattura dell’istante, alla violenza insita nell’atto del colpire, si neutralizza l’immagine del fotografo come cacciatore. Di fronte alle sue immagini di reportage, si comprende come sia possibile arricchire lo spirito e dilettare i sensi. La facoltà che i teologi medievali attribuivano all’arte, ovvero docere et delectare, diventa l’anima delle sue immagini. Le domande che sorgono sono sempre le stesse: dove si trova il confine tra etica ed estetica? E l’estetica è superiore all’etica? In questo caso non vi è differenza: la giustizia coincide con la giustezza. “L’uomo e la sua vita, così breve, così fragile, così minacciata. […] Io mi occupo quasi esclusivamente dell’uomo. I paesaggi sono eterni, io vado di fretta”, afferma Cartier-Bresson.

 

Henri Cartier-Bresson Dimanche sur les bords de Seine, France, 1938, épreuve gélatino-argentique de 1973 © Fondation Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos.


Per questo le immagini sono epifanie in cui il mistero dello scorrere del tempo diventa, per la frazione di un secondo, quasi miracolosamente accessibile. La parte della mostra curata da Javier Cercas si sofferma proprio su questa idea. Si intitola L’imminenza di una rivelazione. Ma di una rivelazione che non si compie, poiché il centro dell’immagine sembra essere assente, fuori dall’immagine stessa. Un ossimoro, ma proprio in questa assenza di verità, Cercas ritrova il senso delle foto che ha scelto: “persone che aspettano un evento, o che cercano di spiare qualcosa attraverso un muro o una recinzione, invitati a una festa di gala che si voltano sorpresi verso qualcuno che attira la loro attenzione o li chiama (…), un gruppo serrato di monache che, come uno stormo compatto di passeri, sembra paralizzato a un angolo di strada”. Non si sa cosa aspettano. Le domande restano senza risposte. Sono espressione di un punto cieco e nella loro mancanza di risposta, nel loro vuoto, risiede quello che permette di non “rivelare appieno il proprio significato o di non smettere di dire quello che hanno da dire”.

 

Anche Wim Wenders è affascinato dal gesto di guardare. Non solo le immagini agiscono come catalizzatori dello sguardo, ma sono esse stesse fonte del desiderio di guardare. I soggetti guardano, come guarda il fotografo e chi guarda le fotografie. Questa è un’altra forma di perfezione, l’oggetto della visione scivola di sguardo in sguardo sino a chiudere una sorta di cerchio ideale intorno all’immagine. Sembra che Cartier-Bresson sia in grado di spingersi sin dentro a ciascuno di noi. La sua passione per il surrealismo non è solo la predilezione per le coincidenze, ma la capacità di sapere in anticipo cosa accadrà. Una forma di veggenza che ha in sé qualcosa di razionale. Il Grand Jeu, ricorda giustamente Sylvie Aubenas, è “fare le carte a qualcuno per prevedere il futuro” e Cartier-Bresson, mentre costruisce l’impalcatura visiva della Master Collection, fa le carte a se stesso e a chi guarda, poiché al colpo d’occhio, che serve ad ognuno per accertarsi che il mondo esiste, suggerisce un modo di vedere che si spinge oltre la visibilità manifesta delle cose. Il mondo deve stare innanzitutto dentro chi guarda. Il modellino di Leica in legno e metallo che Saul Steinberg regala a Cartier-Bresson, esposta nella sezione di Wim Wenders, suggerisce che Cartier-Bresson non fotografa quello che vede, ma vede quello che fotografa. 

 

Visitare entrambe le mostre significa, anche involontariamente, mettere a confronto due modi di esprimersi e, soprattutto, due visioni del mondo. I corpi senza peso di Lartigue e l’esperienza del peso delle cose di Cartier-Bresson. È questa la relazione che si può stabilire, al di là di ciò che in modo molto smart propose John Szarkowski, ovvero l’idea dell’istante decisivo. Lartigue dissolve la materialità dell’esperienza e la trasforma in istanti che sono fuori dalla storia mentre Cartier-Bresson nutre di solidità corporea anche la più immateriale delle idee, ne rende la “pesante” perfezione. Le mostre hanno soprattutto il merito di riproporre l’antica e sempre giovane idea della Kalokagathìa, di un impegno civico che passa attraverso il culto del bello e di una bellezza che si nutre della necessità del buono. E questo, in questi tempi di decadenza etica in cui i reggitori dell’ordine del mondiale sono anche i fautori di un progressivo pauperismo culturale, non è poco.

 

 

 

Henri Cartier-Bresson, Le Grand Jeu, Palazzo Grassi, Venezia fino al 10.01.2021

Jacques Henri Lartigue, L’invenzione della felicità, a cura di Denis Curti
Marion Perceval, Charles-Antoine Revol,
Casa dei Tre Oci fino al 10.01.2021

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Oltre la fotografia: la metamorfosi dell’immagine

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Da millenni trasformiamo figure (narrate, sonore o lette) del linguaggio verbale (o scritto) in immagini mentali, e viceversa. Le immagini evocate da Omero nelle sue narrazioni sono ancora vive oggi. Ognuno poi le visualizza secondo la sua immaginazione e il portato personale. L’efficacia delle immagini contenute in una poesia dipende anche da come suonano i versi, da come sono costruite le sequenze di parole, dal loro accostamento e ritmo. Il passaggio da una figurazione mentale a una traduzione fisica (attraverso il suono di una voce, la stampa di un libro, la realizzazione di un dipinto, di una scultura, di un video, di una fotografia) coinvolge anche uno spostamento di atomi? Secondo Bohr, “quando si arriva agli atomi, il linguaggio va utilizzato come avviene in poesia. Al poeta, infatti, sta a cuore, più che la descrizione dei fatti, la creazione di immagini e di collegamenti mentali”. La medialità delle immagini si estende anche al di là del visivo: nell'uditivo, nell'olfattivo, nel tattile, e nel gusto. Il racconto e le parole stimolano la nostra possibilità immaginativa. Anche quando sentiamo un odore, esperiamo un sapore, tocchiamo qualcosa o qualcuno, il nostro cervello elabora ricordi e immagini che riconducono esperienze e memorie del passato a quel determinato odore o profumo, sapore, a quella sensazione col tatto. Le immagini viaggiano da un senso all’altro, da uno stato all'altro, ma hanno sempre bisogno di un corpo e di una persona (di un medium vivente) "che riesca a fornire alle immagini esperienza e significato personali" (come asserisce Hans Belting). 

 

Il buco nero super massiccio al centro di Messier 87 e la sua ombra, 2019, courtesy the event horizon telescope.


Noi abbiamo o possediamo immagini già in origine, senza aver fatto esperienza diretta con il nostro corpo e con la nostra vita, che sono lì, anche nei nostri sogni, e aspettano di essere svelate? Ipotizziamo che esista un immaginario nel nostro DNA, o nell'inconscio più espanso (collettivo, atavico, atemporale?). Come possiamo fare emergere dal nostro immaginario queste ulteriori possibilità del mondo, che potremmo chiamare immagini “altre”? Che non sono le immagini o i simboli mediati da fotografie, dipinti, disegni, film, poesie, narrazioni. Nessuna immagine visibile giunge a noi se non attraverso un medium? La fotografia attuale o gli altri media riescono a rendere visibili immagini che sono nel nostro immaginario più recondito? O perlopiù restituiscono ancora (come la fotografia tradizionale) solo porzioni particolari e determinate di mondo? Il nostro pensiero si muove contemporaneamente su più binari: attraverso i linguaggi verbale (e scritto), gestuale e delle immagini. Inoltre si attuano anche sinestesie. Che differenza c’è tra una parola o un testo letti in un libro e invece parole fotografate o testi che compaiono in fotografie (che possono essere protagonisti o comprimari della scena)? Vilém Flusser sostiene che “le immagini sono mediazioni fra il mondo e l'uomo. L'uomo 'ek-siste', non ha cioè un accesso diretto al mondo, cosicché le immagini devono renderglielo rappresentabile. Nel momento in cui lo fanno, tuttavia, esse si pongono fra il mondo e l'uomo.

 

Claes Oldenburg, Photodeath (1961).

 

Dovrebbero essere mappe e diventano schermi: anziché rappresentare il mondo, lo alterano, fino a che l'uomo si mette a vivere in funzione delle immagini da lui create”. C'è una contrapposizione tra immagini mentali e immagini materiali? Quelle materiali dipendono dai media che le veicolano e dai corpi che le muovono o le ricevono. Ci sono immagini che rispecchiano il mondo esteriore e altre che rappresentano le strutture profonde del nostro pensiero. Flusser dà molto peso al rapporto di stampo magico tra fotografia e mondo. In questa ricognizione nel libro prendiamo in considerazione anche il sostrato mitico che s’innesta in quello scientifico e viceversa. 

Nel testo intendo il termine “metafotografia” riferendomi a questioni inerenti all’opera aperta e alla semiotica, ovvero alla possibilità di trovare nuovi sensi nel passaggio da un linguaggio a un metalinguaggio, dalla scrittura alla metascrittura, e nel nostro caso specifico dalla “scrittura di luce” alla “metascrittura di luce”. E non si tratta solo di innestare la fotografia con ibridazioni e con altri media. La fotografia appartiene alla tradizione che l'ha creata, costituita, sviluppata, declinata in innumerevoli possibilità nel corso dei vari decenni. Sperimentazioni metafotografiche sono state già percorse dalle avanguardie novecentesche, per esempio dai futuristi e dal Surrealismo, o da El Lissitzky nell’allestimento del padiglione russo alla Mostra Internazionale della Stampa, a Colonia nel 1928, o attraverso aspetti di matrice concettuale dagli anni sessanta in avanti.

 

IOCOSE, Launching a New Product (2018).


La metafotografia attuale è legata al suo tempo, e quindi alle sue contraddizioni, problematiche e novità (per esempio la relazione con la rete internet, la banda larga e ultralarga, i dispositivi di sorveglianza, i telefoni in grado di fotografare, le realtà accentuate e false, etc.), che non erano presenti all’inizio del Novecento o negli anni Sessanta. La metafotografia è vicina in qualche maniera anche agli anti-romanzi di Alain Robbe-Grillet, che non negano la fiction di per sé ma la rendono solo più complessa.

Quando utilizzo il termine “oltrefotografia” mi riferisco a qualcosa che la fotografia non ha ancora mostrato o colto, ovvero qualcosa che è in grado (per esempio attraverso le scoperte e le teorie della fisica quantistica) di raccordare le varie possibilità del tempo, di mostrare nello stesso istante “passato | presente | futuro”. Inoltre è necessario ricordare anche la coazione tra due immagini del tempo, tra chronos (il tempo oggettivo, lineare, storico) e kairos (il tempo dotato di significato), dove i due aspetti incidono l’uno sull’altro e innescano altre aperture di senso. L’oltrefotografia dovrebbe (o potrebbe) mostrare ciò che la fotografia non ha ancora "fotografato", perché è qualcosa che le sta oltre, in un'alterità non definibile, che probabilmente la trascende, forse nell'ineffabile o nel mistero. Potrebbero essere le immagini dell'alterità, delle proiezioni oniriche, dell’inconscio, dei desideri non consapevoli, le preveggenze, o altro ancora, che ora non siamo in grado di immaginare.

 

Discipula, HTD_Morpheus, OMA Ad 01 (2018).


Questo nuovo tentativo prova a stare anche fuori dalla fotografia tradizionale, a osservarla da una certa distanza, per capire cosa non sia stato ancora messo in azione nel processo e per dilatare il linguaggio. In quel “fuori” c’è probabilmente un potenziale inespresso. Metafotografia e oltrefotografia sono due aspetti della stessa ricognizione, rappresentano due momenti diversi della stessa ricerca, in rapporto al tempo e allo spazio. Le immagino come una persona in due momenti diversi (e anche lontani) della sua esistenza. Non si tratta di voler vedere sempre di più, oltre il visibile. E nemmeno di scoprire ciò che si cela nell’invisibile, semmai sia individuabile come un’altra declinazione di ciò che potenzialmente possiamo percepire con il senso della vista. E non si tratta nemmeno di rispecchiare un tradizionale desiderio di cattura e dominio del "reale". Non è appropriazione estetica, né una compulsione alla registrazione visiva che pone l’operatore in una posizione di dominio e di possesso. Siccome la fotografia non è mai neutra e non esiste documento senza contesto e interpretazione, può essere più interessante agire dentro (o fuori) qualcosa in grado di emanciparsi da ciò che è stato tentato e percorso fino a oggi. Potrebbe essere anche solo l’ennesimo passaggio in un gesto fallimentare. O un’ulteriore rievocazione compulsiva di una perdita inconscia, un altro salto nell’interpretazione. E non si tratta altresì di lavorare contro la fotografia, producendo immagini che inneschino virus o cortocircuiti negli atteggiamenti compulsivi dell’appropriazione estetica.

 

Non si tratta quindi di saper cogliere un invisibile che ci viene sottratto e che invece potremmo raggiungere con qualche tecnica nuova o strumento, mistico o tecnologico, o secondo la via indicata dallo gnosticismo. L’oltrefotografia semmai è un campo per allenarsi a non pensare che l’atto del vedere sia assorbire in modo neutro qualcosa che sta lì di fronte bello e fatto, ad andare oltre i limiti del visibile, al di là delle entità che ancora non vediamo, oltre l’illusione che esista qualcosa che si possa sentire solo con la vista. Ed è anche un andare oltre la relazione in cui ogni persona e la sua idea di reale producono a vicenda, entro un apparente circolo virtuoso che in realtà è solo autocelebrazione senza riscontri esterni. È una modalità per provare a essere pure repliche di impressioni senza scarti? Forse. Ma non solo. Può darsi che non sia altro che un ulteriore tentativo di spostare il limite del visibile o di riprodurre all’infinito nuovi limiti. Non si tratta nemmeno di riuscire a vedere il vedere o di costruire un cannocchiale che veda se stesso. E nemmeno l’atto di saper scorgere qualcosa che è già dentro la nostra testa o nella struttura dell’esperienza o in ciò che gli strumenti tecnologici formano il reale a nostra immagine e somiglianza.

L’oltrefotografia non è iperfotografia – ovvero l’immagine immateriale e fluida, composta da milioni di pixel e visibile sullo schermo di uno smartphone; è la fotografia che quotidianamente teniamo nel palmo della mano, che può essere linkata, trasmessa velocemente, ricontestualizzata, ricreata – anche se la osserva e utilizza, prendendo in considerazione pure tutte le questioni che sono in corso di studio attualmente legate agli iperoggetti.

 

El Lissitzky, Dettaglio dell’installazione nel Padiglione interno dell’URSS alla fiera Pressa a Colonia, 1928. 


Mi affido temporaneamente a un paradosso: affermare che la fotografia sarà sempre fotografia sarebbe come dire che non ci sarà mai la possibilità di ricordarsi ciò che ci accadrà in futuro, o di riuscire a fotografare in anticipo fatti, eventi, pensieri, che avverranno poco o molto al di là del presente. Ovviamente non basta ipotizzare un rendering, anche se sofisticatissimo, per avere una rivelazione. I profeti, i veggenti, gli sciamani, i geni (in ogni disciplina) hanno utilizzato qualcosa che è simile al concetto di oltremedium, che potremmo anche definire come qualcosa che si svincola dal limite del medium. Sembra un discorso distopico. Invece appartiene solo alla casistica delle possibilità. È solo questione di tempo, fino a quando verrà inventata una macchina in grado di rendere visibili e vivibili immagini interiori, fantasie, idee concettuali, astrazioni, sogni, visioni, premonizioni, o altro, e di riportarle su un supporto non solo materico, proiettivo, cartaceo o video. Quando sarà utilizzabile una macchina oltrefotografica verrà oltrepassato un confine ulteriore, non solo al di là di quello vincolato allo scatto o di qualcosa che accade veramente nella realtà esterna, nella storia, nel visibile quotidiano. Quell’andare oltre l’istante privilegiato, oltre ciò che accade in quel determinato momento del tempo presente, per tentare di connettersi con una dimensione più espansa, che può essere quella delle rivelazioni (spirituali, psicologiche o psicanalitiche) o delle preveggenze, apre alla possibilità che vi sia qualcosa in grado di andare oltre la fotografia tradizionale, che prescinde dalla macchina fotografica stessa.

 

L’inconscio tecnologico contenuto nella macchina è in grado di immaginare tutto quello che appartiene a ciò che non è conscio per l’essere umano? Nel corso dei secoli innumerevoli persone hanno immaginato la possibilità che possa esistere qualcosa dopo questa vita terrena, ovvero una oltrevita. Non è mai stato provato nulla ovviamente, a livello scientifico, ma a distanza di millenni oggi miliardi di persone credono ancora che vi sia qualcosa oltre la loro paura di morire e oltre l’angoscia che tutto finisca da un momento all’altro. La fotografia tradizionale ha sempre prolungato i momenti vissuti dalle persone anche al di là della loro morte. Le fotografie sopravvivono (almeno quelle che non sono andate distrutte) oltre la scomparsa delle persone che sono state bloccate nell’istante dello scatto. Può esistere veramente invece un’altra possibilità di rapportarsi col reale? Verranno applicate le intuizioni della fisica quantistica e tradotte anche in macchine tecnologicamente avanzate in grado di mostrare nello stesso istante il presente, il passato e il futuro o il flusso di una vita eterna o più espansa? I sogni e le immagini interiori verranno tradotti in codici numerici o in un'altra modalità e riprodotti attraverso un visore o un altro strumento? A noi ora interessa sondare cosa intercorre tra l’immagine-cosa e l’immagine-atto, riprendendo un’intuizione di Sartre: “L’immagine è un certo tipo di coscienza. L’immagine è un atto e non una cosa”. Joan Fontcuberta si lascia portare dalla tentazione di leggere in queste due possibilità – le intende una sorta di opposizione fra cosa e atto – come correlativi di materialità e immaterialità, e quindi di fotografia e postfotografia.

 

El Lissitzky, Trasmissione, composizione a spirale e fascia di testo all'interno del padiglione russo alla fiera dell'editoria a Colonia nel 1928.


Mi piace pensare pure che tra la materialità e l’immaterialità vi sia un campo semantico di qualcosa che esiste “in potenza” e innumerevoli altri mondi costituiti da sottili sfumature. Mi chiedo anche a che categoria appartengano tutte le immagini che abbiamo ereditato dal passato, che noi non abbiamo vissuto, tutte le figure simboliche e le opere viste nei musei, nei libri, nei sogni. E le immagini che preleviamo dal futuro, con l’immaginazione e la fantasia, sono “cosa” o “atto” o entrambi? Lo stregone che produce guarigioni, incantesimi o malefici, operando solo sull’immagine di una persona visibile in una fotografia stampata o visualizzata nel cellulare o su PC che cosa mette in azione? Cosa accade nello spazio fisico e nel tempo che stanno tra la fotografia bucata con spilli durante un’azione vudù e la persona che vive in un altro luogo rispetto a dove sta avvenendo un atto inspiegabile? Quando un fedele chiede a un sacerdote o a un guaritore di toccare l’immagine di un proprio caro sul touch screen del cellulare per innescare o favorire qualcosa di miracoloso cosa rappresenta quell’immagine? In quell’atto, il guaritore o il santo compiono qualcosa che appartiene alla sfera della sinestesia, ovvero coniugano al contempo vista e tatto e qualcos’altro, che qui definiamo magico o miracoloso, a seconda che il lettore creda in una divinità in grado di attuare prodigi o che creda nelle possibilità inspiegabili del magismo e nel sovrannaturale.

 

Papa Francesco benedice l'immagine di un bambino accesa in un cellulare.


È nota l’immagine di Papa Francesco che, nell’udienza del 16 gennaio 2016, ha benedetto un bimbo mediante l’imposizione della mano e delle dita sul ritratto che appariva sullo schermo dello smartphone di una madre. In questo gesto si manifesta un esempio della doppia credenza: ovvero che si creda nell’immagine della cyberpresenza e che il gesto della benedizione abbia un effetto reale toccando il simulacro luminoso di qualcuno acceso sullo schermo di un cellulare. Abbandoniamoci al flusso delle nostre associazioni e connessioni, mentre contempliamo un'opera d’arte o l’aura di un paesaggio. Fino a oggi abbiamo visto i film proiettati su grandi tele o su schermi o trasmessi nelle televisioni, fotografie nei monitor, allestite nelle mostre, negli album e sui libri, nei telefoni cellulari, ma potrebbe accadere prima o poi che tutto venga vissuto direttamente nel cervello o connesso all'immaginazione individuale o collettiva per indurre una coazione tra storia preordinata, caso e svolgimento personale. Oppure i film, le immagini fotografiche o i dipinti verranno condotti o proiettati in contemporanea dentro più menti, per innescare un percorso narrativo modificabile dalla coazione e dalla condivisione in tempo reale. 

 

 

Federico Clavarino, Senza Titolo, da "Italia o Italia" (2014).

 

Questo testo è estratto dall’introduzione di Mauro Zanchi al volume Metafotografia 2. Le mutazioni delle immagini, edito da Skinnerboox, in occasione dell’apertura della mostra omonima che resterà aperta fino al 31 ottobre. BACO ha vinto il bando nazionale MIBACT del 2020, istituito dal Ministero della Cultura, che ha in tal modo riconosciuto il valore della sua pluriennale ricerca.

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Margaret Bourke-White: dalla diga all’arcolaio

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Margaret Bourke-White si trova fuori dal suo studio, all’ultimo piano del Chrysler Building. Si sporge da un doccione a forma di gargoyle e impugna con disinvoltura una folding, una fotocamera di grande formato che permette un completo controllo già al momento dello scatto. La foto, realizzata dal suo assistente Oscar Graubner nel 1935, rende come meglio non si potrebbe i caratteri della fotografa: determinata, audace, eroica. È proprio così che vuole essere considerata dai contemporanei e anche dai posteri: una donna senza alcun timore reverenziale. 

 

Non solo vuole essere guardata, vuole essere unica. “La mia vita e la mia carriera non hanno nulla di casuale. Tutto è stato accuratamente progettato”, scrive nella sua autobiografia intitolata Portrait of Myself. Complicità e spiazzamento sono le armi con le quali decide di promuovere sé stessa, a partire da quegli abiti eleganti, sempre alla moda, che ama indossare in ogni circostanza. Leggendario, ad esempio, è divenuto il panno della sua macchina fotografica in tinta con cappello, gonna e guanti.

Tuttavia, per quanto abbia cercato di dare un’immagine di sé audace e al contempo raffinata, capace di intrattenere ospiti nel salotto di casa parlando di avventure belliche e porcellane giapponesi, questi non sono che aspetti marginali della personalità della Bourke-White.

 

Accanto a un’immagine sapientemente costruita, la sua storia è costellata da repentini cambi di rotta, dove l’immagine autopromozionale di fotografa ardimentosa in divisa da aviatrice lascia spazio a quella di fotoreporter pronta a ripensare costantemente la sua funzione. 

 

Non solo, quindi, in prima linea, ma costantemente attenta a ridefinire i limiti del proprio linguaggio artistico e a perseguire una sorta di sistematico sabotaggio delle proprie certezze. Ogni passo audace, anziché generare paura, conduce al consolidamento della propria sicurezza, e ogni sguardo nel vuoto genera una nuova consapevolezza di sé, cui segue un nuovo salto nel vuoto. Farsi ritrarre sulla cima di uno dei più alti edifici del mondo sintetizza la duplice pulsione di lasciarsi cadere e di stare nel ciclone della storia.

 

Nata a New York nel 1904, figlia di un ingegnere progettista, da bambina visita insieme al padre un’acciaieria dove si producono pezzi per macchine tipografiche. La fabbrica sarà il suo primo soggetto. Lamine metalliche, cavi arrotolati, enormi bulloni, esprimono la perenne universale ambizione di produrre sempre di più e sempre meglio, in un progetto di occupazione totalizzante, non dissimile dall’immagine che si espande su tutta la superficie del fotogramma. L’energia del soggetto è compressa, violenta, potente. 

 

Le immagini, viste una dietro l’altra, fanno un racconto. Preciso. Efficace. Che dà un giudizio con la freddezza di un occhio meccanico e il bagliore di una sensazione, come accade quando, negli anni Venti, descrive la periferia di Cleveland: “Per me, appena uscita dal college con la macchina fotografica al collo, The Flats erano un paradiso fotografico. Le ciminiere all’orizzonte erano i giganti di un mondo inesplorato, guardiani dei segreti e delle meraviglie delle acciaierie”. 

 

Arrampicarsi sulle impalcature delle acciaierie e fotografare dall’alto equivale a raggiungere uno straordinario potere di conoscenza, vuol dire acquisire la capacità di leggere il mondo e non limitarsi a percepirlo. Una sfida alle incessanti sollecitazioni proposte dalla vita nella metropoli e dai nuovi modi di attraversare lo spazio introdotti dai viaggi in macchina, treno e aereo. 

 

Dopo aver visto alcune sue immagini realizzate per la Otis Steel, Henri Luce, l’editore di Time, non esita a ingaggiarla prima per Fortune e poi a coinvolgerla in un’altra avventura editoriale che diventerà la più influente rivista fotografica del periodo: Life. Le parole con cui il fondatore presenta la rivista sembrano riassumere tutto ciò che la Bourke-White ha fotografato sino a quel momento e che fotograferà in seguito: “il viso dei poveri e i gesti dei superbi; (…) macchine, eserciti, moltitudini, ombre nella giungla; (…) cose lontane migliaia di chilometri; nascoste dietro muri e all’interno delle stanze”. La copertina del primo numero, uscito il 23 novembre 1936, è sua. Si tratta della diga di Fort Peck nel Montana, ripresa dal basso in tutta la sua monumentale imponenza, che evoca la passione infantile per tutto ciò che è enorme, senza omettere un implicito intento celebrativo del potere dell’uomo sulla natura. 

 

Margaret Bourke - White al lavoro in cima al grattacielo Chrysler, New York City, 1934 © Oscar Graubner Courtesy Estate of Margaret Bourke White.


Il successo di Life la gratifica ma non la travolge. Poter realizzare reportage per la rivista, oltre che per Fortune, la mette in contatto con un mondo completamente diverso da quello del progresso e dell’industria. Comprende allora che avere uno studio all’ultimo piano del Chrysler Building non basta. È il momento di smettere di guardare dall’alto e di cominciare a guardare nel profondo di un Paese incapace di garantire a tutti un accettabile livello di benessere. Decide che è giunto il momento di saltare nel vuoto: “un reportage per Fortune mi catapultò in una realtà che non conoscevo e che mi colpì profondamente: la grande siccità del 1934. Non avevo mai visto un paesaggio simile. Un sole accecante picchiava impietoso sulla terra arsa e dura. Ora sapevo che non avrei mai più lavorato in pubblicità”.

 

La Bourke-White sta parlando della dust bowl, la palla di polvere, resa celebre da Furore di Steinbeck, che insieme alle conseguenti alluvioni, è stata una dei primi e più gravi disastri ambientali in grado di espellere dalle terre coltivate piccoli proprietari, mezzadri e braccianti. Ritroviamo questa folla in una fotografia corrosiva e caustica per la sua carica ironica. Lo slogan pubblicitario World’s Highest Standard Of Living. There’s no way like the American Way e il faccione rassicurante dell’americano medio con Ford, moglie, figli e cagnolino, fa a pugni con la fila di poveri, tutti neri, in attesa della distribuzione del cibo a Louisville nel 1937.  

 

L’esigenza di documentare la realtà del Sud degli Stati Uniti la porta a contattare Erskine Caldwell, l’autore di La via del tabacco (1932), che sarà suo marito per due anni. Dalla loro collaborazione viene alla luce You Have Seen Their Faces (1937), un classico del lavoro congiunto tra scrittori e fotografi. Lo sguardo della fotografa è quello di chi si avvicina a piccoli passi e con partecipazione a un mondo prima sconosciuto. Il libro si apre con l’immagine di un ragazzino con un’espressione seria, impegnato a lavorare ad Elbow Creek, in Arkansas. Viene fotografato dal basso, come se la Bourke-White fosse ai suoi piedi. Una lunga didascalia gli dà voce: “mio padre non assume braccianti o mezzadri. Produce molto cotone, una sessantina di balle all'anno. Io e mio fratello restiamo a casa da scuola per lavorare per lui”.

 

Da questo momento in poi, cambia il modo di guardare della Bourke-White. Adesso spalanca gli occhi senza alcuna protezione. Questa nuova sensibilità estetica si coglie anche nella sua esperienza sovietica dove fotografa lo sviluppo industriale preconizzato dal piano quinquennale, ma si sofferma anche sulla vita quotidiana delle persone. Dieci anni più tardi, nel 1941, riesce sia a realizzare uno scoop giornalistico per Life: il ritratto di Stalin, sia a fotografare il cielo di Mosca rischiarato dalle luci delle bombe tedesche. Dei numerosi fotografi di Life, pochi hanno vissuto tante avventure belliche quanto la Bourke-White, che trascorre una notte su una scialuppa di salvataggio dopo l’evacuazione di una nave silurata nel Mediterraneo, decolla dall’Africa del Nord su un aereo da combattimento, segue la guerra dall’Italia e poi in Germania, ricorda John Loengard, anch’egli fotografo della celebre rivista. 

 

E poi assiste alla liberazione di Buchenwald nel 1945. In una delle sue immagini più celebri i volti dei prigionieri internati sono illuminati. Tutti guardano la fotografa e di conseguenza rivolgono il loro sguardo verso di noi, che guardiamo queste immagini a distanza di decenni. Sembrano affermare con i loro corpi il male subito e miracolosamente scampato. La morte sembra lontana. Ciò che stupisce di questa immagine, a differenza delle tante che mostrano i cadaveri e lo strazio, è la forza inimmaginabile della sopravvivenza. 

 

Agli occhi della fotografa, la fabbrica e la fiducia nel progresso hanno lasciato il posto alla guerra, e la tecnica si è rivelata come pura fabbrica di morte. Ma per la Bourke-White, compito della fotografia è contrastare l’impoverimento spirituale dell’uomo e la violenza con cui si autodistrugge. Il ritratto scattato nel 1935, sulla sommità del Chrysler Building, è un lontano ricordo, eppure mostra come stare sospesi e non temere il vuoto, sia necessario per non farsi travolgere dal vuoto di senso prodotto dalla guerra. La violenza diviene così lo spazio da cui si può generare un altro cambiamento. 

 

Finita la guerra, fotografare Gandhi è la risposta all’orrore. Il suo volto sereno e distaccato, il corpo magro, vestito con pochi panni, si pone come l’alternativa ai corpi martoriati visti a Buchenwald e sui fronti di guerra. La foto, in cui la Bourke-White lo ritrae intento a leggere con accanto la ruota dell’arcolaio, è uno delle sue immagini migliori. Prima di scattare le viene chiesto di imparare a usare l’arcolaio e la foto svela il significato profondo di quel momento, come rivelano le parole del segretario di Gandhi: “l’arcolaio è una meraviglia dell’ingegno umano. Il charka è la macchina semplificata a uso delle masse lavoratrici. Pensi ai grandi macchinari presenti nelle fabbriche, con i loro meccanismi complessi, e poi pensi al charka. Non ci sono sostegni per il gomitolo, non c’è neanche un chiodo. L’arcolaio simboleggia ciò che Gandhi chiama il proletarianesimo della scienza”. Queste parole, per la fotografa che ha sempre elogiato l’industria moderna, schiudono lo spazio di una nuova consapevolezza. 

 

La Diga di Fort Peck, Montana, 1936 . © Images by Margaret Bourke - White. 193 6 The Picture Collection Inc. All rights reserved.


Stare dietro a una lente è importante specialmente se si è consapevoli di quello che vi si vede. E di fronte alla Bourke-White vi sono un uomo e il destino del suo Paese: “nel caso di Gandhi l’arcolaio era pieno di significati e per milioni di indiani era il simbolo della lotta per la libertà. Se milioni di indiani avessero deciso di fare i tessuti da sé, invece di acquistarli già pronti dal potere coloniale inglese, il boicottaggio avrebbe avuto dure ripercussioni sull’industria tessile britannica. Il charka era la chiave della vittoria; il credo di Gandhi era basato sulla non violenza e l’arcolaio l’arma perfetta”.

 

Il passaggio successivo è il Sudafrica. Decide di mostrare nel concreto le forme dell’apartheid e non esita a calarsi nelle profondità delle miniere, “una lunga discesa di tre chilometri fino al centro nascosto della terra”. Il volto più potente della segregazione è quello di due minatori d’oro di Johannesburg, in una foto scattata nel 1950. A torso nudo, sudati, rivolgono lo sguardo rassegnato e impotente verso l’obiettivo. Fotografarli non è stato facile. Il fatto di essere una fotoreporter bianca genera diffidenze e ostilità. Il lasciapassare per la Bourke-White sarà You Have Seen Their Faces. Una donna di colore la riconosce come autrice e da quel momento riesce a muoversi liberamente. La violenza torna a occupare le sue immagini: la polizia che si allontana alla fine degli scontri avvenuti durante un’assemblea, la figura minacciosa di una guardia carceraria che sorveglia i detenuti durante il lavoro dei campi, i bambini dietro il filo spinato della Moroka Township. “Come devi comportarti quando disapprovi totalmente lo stato di cose che stai fotografando? Che ne è dell’etica di un fotografo davanti a una situazione simile?”, si chiede la Bourke-White. La risposta è che le sue fotografie mostrano la resistenza e la dignità di persone marginalizzate e deliberatamente private di tutto. Si percepisce una grande fiducia nel potere della fotografia come strumento che può cambiare la realtà. Il fotoreporter è un testimone con il dovere di informare e scuotere chi osserva le sue immagini, nella speranza di cambiare lo stato delle cose, pur accettando di essere spettatore impotente della sofferenza altrui.

 

L’apartheid non esisteva solo in Sudafrica, ma anche nell’America progressista e democratica. E la Bourke-White è pronta a dimostrarlo. Nel 1956 partecipa a un’inchiesta intitolata The Background of Segregation che Life dedica alla “situazione di crisi nata dopo la decisione di mantenere la segregazione nelle scuole da parte della Corte Suprema”. Si reca a Greenville, in Carolina, per conoscere la voce dei bianchi del Sud, che difendono strenuamente la segregazione. Il titolo sarà The Voices Of The White South. Le immagini sono a colori. Mostrano situazioni di vita quotidiana: il sindaco bianco della cittadina che si fa lavare la macchina da due neri, la cameriera nera che serve il pranzo alla tavola di una famiglia americana, una piscina destinata solo ai neri. Non sono immagini che spettacolarizzano il dolore e non producono alcun effetto voyeuristico. Mostrano, piuttosto, un aspetto della storia che gli americani conoscevano bene. 

 

Verso il 1952 la Bourke-White scopre di avere il morbo di Parkinson. L’ultima frontiera del suo lavoro è se stessa. Si lascia ritrarre dall’amico Alfred Eisenstaedt per Life. “Bisogna conoscere la sensazione di chi si trova prigioniero nel proprio corpo come fosse in un armadio e incapace di uscire”, racconta nella sua autobiografia. Le immagini invece la mostrano mentre si muove, fa esercizio, cerca di riprendersi il proprio corpo. Il reportage si intitola La lotta indomita di una donna famosa. Morirà nel 1971 a soli 67 anni.

 

La mostra ripercorre il suo percorso biografico e professionale attraverso più di 100 immagini, provenienti dall’archivio di Life a New York e divise in 11 gruppi tematici: L'incanto delle acciaierieConca di PolvereLifeSguardi sulla RussiaSul fronte dimenticatoNei campiL'India, Sud AfricaVoci del Sud biancoIn alto e a casaLa mia misteriosa malattia

 

Accanto agli edifici solenni, magniloquenti, grandiosi, il progresso si sublima nel suo opposto: la guerra e la morte. Dalla celebrazione della forza industriale a una robusta virata verso la forza della libertà e l’attenzione verso gli aspetti più drammatici legati alla vita degli uomini. 

La fiducia nella tecnica è andata spegnendosi lungo il corso della sua esistenza: dalle acciaierie all’arcolaio di Gandhi, il suo sguardo ha saputo cogliere i repentini cambiamenti che la circondavano. In questo spazio, nella sua complessa ambivalenza, è racchiusa in emblema la sostanza umana della fotografia di Margaret Bourke-White.

 

L’insistenza quasi agiografica sul suo essere la prima ad arrampicarsi sulle colate di ferro delle fonderie, la prima ad affrontare la fotografia aerea, la prima a realizzare un libro di testi e fotografie sulla Depressione degli anni Trenta, la prima a documentare la Russia del piano quinquennale, la prima a riprendere l’orrore del campo di concentramento di Buchenwald, la prima a testimoniare l’India nel momento di separazione con il Pakistan e l’unica a realizzare un intenso ritratto del Mahatma Gandhi a poche ore dalla sua morte, si stempera e quasi si annulla nel suo umanesimo orgoglioso e individualistico, ma lontano da una classifica da guinness dei primati. 

 

Il titolo della mostra, Prima, donna. Margaret Bourke-White fotografa, riesce, con il solo gioco di una virgola, a rendere la polimorfia di una donna in anticipo sui suoi tempi.

 

Mostra:

Prima, donna. Margaret Bourke-White fotografa, a cura di Alessandra Mauro. 

Milano, Palazzo Reale dal 25 settembre 2020 al 14 febbraio 2021.

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Il Covid-19 e la “nuova” visione del mondo

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Ci sono stati eventi che hanno cambiato irreversibilmente il modo di percepire l’immagine. Negli ultimi vent’anni forse il più emblematico è stato l’attacco terroristico alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Nessuno potrà mai dimenticare quell’aereo che si infila nella Torre Nord del World Trade Center né il corpo di quell’uomo che, lanciatosi dal grattacielo, cade nel vuoto preferendo morire schiantato al suolo piuttosto che arso vivo.

Visioni inimmaginabili prima di allora, che hanno dato il via allo spettacolo del terrore. All’epoca si parlò di “estetica” dell’evento, ci fu persino chi arrivò a trovare sublime la messa in scena dell’attentato, come se la sua forma fosse stata accuratamente studiata per assumere una valenza principalmente visiva.

 

La pandemia generata dal virus Covid-19 ha imposto un nuovo modo di fruire gli eventi pubblici. Dopo il periodo di lockdown che ha visto la chiusura pressoché totale di queste attività, è divenuto essenziale far emergere nuove modalità di incontro con il pubblico. Si potrebbe sostenere che tale evento non abbia lo stesso peso dell’attentato alle Torri Gemelle ma sappiamo che così non è. Certo si tratta di un cambiamento molto meno spettacolare, più subdolo, ma altrettanto e forse ancor più epocale.

È successo infatti che mentre il virus circolava indisturbato l’uomo sia stato costretto a rinchiudersi in casa. Una condizione impossibile da credere prima d’ora poiché mai l’essere umano avrebbe immaginato di non poter disporre della propria “libertà” – o di quello che crediamo esserlo – a causa di qualcosa che non è possibile vedere.

 

Questa costrizione ha generato nuove forme di comunicazione che sono tali solo in apparenza poiché lo spostamento verso le attività virtuali è già stato ampiamente sperimentato e imposto attraverso l’uso sempre più massiccio dei social media. Ci si potrebbe quindi chiedere cosa è accaduto di veramente nuovo che già non esistesse prima del diffondersi del virus? La legittimazione totale e definitiva dell’era virtuale da parte di ogni segmento della società. Tale legittimazione ha permesso e sta permettendo ad ogni spazio fisico, ad ogni attività svolta in presenza la contingentazione della fruizione sia nell’ambito dei servizi sia in quello delle attività lavorative come in quelle dell’intrattenimento. E contingentare non significa soltanto tutelare la salute delle persone in condizioni che normalmente si manifestano sotto forma di assembramento, vuol dire anche “controllare” meglio i flussi. Il controllo è infatti uno dei fattori che, nel bene e nel male, emerge con prepotenza dalle nuove regole di convivenza sociale. 

 

Per restare nell’ambito dell’immagine gli eventi che si sono svolti o che sono in corso da marzo in poi, hanno visto in molti casi la propria cancellazione con il rinvio al 2021; in altri è avvenuto un adattamento delle modalità di fruizione che si sono parzialmente o totalmente trasferite dai luoghi fisici al web. Questo atteggiamento continua anche post lockdown e non è per nulla certo che si possa tornare a come era prima.

 

© Julia Fullerton-Batten, Otto, Lockdown Day 82. #ICPConcerned Global Images for Global Crisis 2020.


Negli Stati Uniti, il Paese più colpito al mondo per numero di contagi e di morti, l’Internationl Center of Photography ha trasferito gran parte delle proprie attività in rete. Fondato da Cornell Capa nel 1974 il Centro è noto per l’alto profilo formativo che propone e l’elevato numero di mostre e artisti che nel tempo ha promosso, sempre con un occhio molto attento a quei fotografi in grado di far emergere l’immagine in una forma innovativa che potesse fare scuola. 

Una delle attività più interessanti che ICP ha posto in campo durante la pandemia è una mostra virtuale in costante evoluzione – #ICPConcerned Global Images for Global Crisis– che il noto critico David Campany ha ideato, assieme a Sara Ickow, in contrapposizione alla eccezionale condizione di vita imposta dal diffondersi del virus.

Il progetto è partito il 20 di marzo con un invito rivolto a chiunque utilizzasse abitualmente la fotografia (sia in forma professionale, sia amatoriale), a pubblicare in rete le immagini di quanto stava loro accadendo associate all’hashtag “#ICPConcerned”. Nel giro di poco tempo – e mano a mano che il contagio si è diffuso esponenzialmente nel mondo – il numero di visioni immesse nel web è altrettanto cresciuto dimostrando un’improvvisa “utilità” delle centinaia di migliaia di immagini che abitualmente popolano la rete. È avvenuta una reale, seppur virtuale, unione tra individui che stavano vivendo connessi un momento storico preciso. In questa direzione va inteso il mutare epocale del senso dell’immagine, la sua realizzazione, la sua fruizione. A differenza della spettacolarità delle visioni di venti anni or sono, adesso ciò che abbiamo di fronte è una dimensione molto più intima dell’evento, che fa i conti con la nostra percezione della quotidianità improvvisamente messa in risalto. Una sorta di attenzione al disagio che non è soltanto sociale ma che diviene consapevole del corpo, della casa, dei sentimenti posti al centro di un’evoluzione del pensiero.

A partire da giugno, mese per mese le immagini contrassegnate da #ICPConcerned, che su Instagram hanno raggiunto a settembre il numero di oltre 46.000 unità, vengono selezionate dai curatori di ICP, stampate e esposte nella maggiore galleria dell’International Center of Photography e si avvicinano ad essere all’incirca un migliaio in quella che paradossalmente diviene la più vasta mostra “fisica” mai realizzata. Quello che può apparire un evento in netto contrasto con l’imposizione del virtuale, rappresenta in definitiva un atto di interconnessione dove realtà e virtualità si legano molto strette tra loro.

 

In Italia, dopo la cancellazione di tutti i principali eventi commerciali e culturali primaverili, l’autunno è ripreso con un senso di timidezza mischiato alla determinazione di voler continuare. Consapevoli di non poter offrire la stessa fruibilità degli anni passati, le principali manifestazioni di fotografia si stanno svolgendo all’insegna della “sicurezza”. Distanziamento, ingressi contingentati, mascherine e gel disinfettanti sono presenti ovunque accompagnati da squadre di volontari preposti al “controllo”. Tutto per garantire al pubblico una fruizione che non faccia sentire troppo la differenza tra il prima e il dopo come a voler mitigare il più possibile un cambiamento che però appare inevitabile e irreversibile.

Ma prescindendo dal tema sicurezza non ci si è potuti esimere, naturalmente, dal raccontare come ha reagito la narrazione fotografica alla pandemia e al disagio trasversale che ha provocato: dall’emergenza sanitaria allo smart working, dall’insegnamento a distanza allo smarrimento del non sapere come affrontare la vita quotidiana costretti in casa e, non ultimo, per molti, l’assenza totale di relazione fisica con l’altro.

 

© Bertuccio_Main, Dal progetto Il silenzioso battito delle loro mani, vincitore Premio Canon Giovani Fotografi. Festival Internazionale Cortona On The Move 2020.


Completamente dedicato all’esperienza della convivenza con il coronavirus, Cortona On The Move 2020 (7 luglio – 1 novembre) è stato il primo festival italiano a ripartire dopo l’emergenza sanitaria ed il primo a proporre l’utilizzo del web come svolta espositiva in costante evoluzione attraverso il contest The COVID-19 Visual Project, una piattaforma multimediale pensata per diventare archivio permanente sulla pandemia tutt’ora in corso. Lo spazio virtuale si sa non pone limiti all’archiviazione e gli organizzatori del festival, giunto quest’anno alla sua decima edizione, hanno voluto offrire ai fotografi, documentaristi e non, uno strumento che permettesse loro di condividere racconti legati all’impatto che il virus ha avuto sulla vita di tutti i giorni a tutti i livelli. 

L’idea è quella di costituire un “centro raccolta immagini” su temi legati all’emergenza sanitaria, alle conseguenze subite da lavoro e economia, ai cambiamenti sociali e personali cui gli individui vengono sottoposti loro malgrado, che possa fungere da memoria e creare momenti di analisi su quanto accaduto. Tutto ciò pone però in evidenza una questione forse non chiara a tutti: l’archivio in quanto tale svolgerà l’unica funzione per cui è preposto, vale a dire documentare un momento storico. Si tratta di una registrazione di ciò che accade che non può essere guardata nell’oggi poiché non è ancora presente l’elaborazione. Le analisi e le letture che si potranno fare saranno giocoforza parziali, le scelte stesse che guideranno gli organizzatori nella selezione dei lavori presentati saranno inevitabilmente dettate da una modalità visiva superata dagli eventi. Nonostante ciò resta imprescindibile raccogliere immagini che testimoniano il presente, perché nel futuro si possa dare un senso alla memoria. L’immagine fotografica ha dunque questa funzione, molto più della parola.

 

© Mariagrazia Beruffi, Chinese Whispers. Lago zona residenziale periferia Nanchino. SI Fest - Savignano Immagini Festival 2020.


Analogamente il SI Fest 2020 di Savignano sul Rubicone – uno dei più longevi, giunto alla sua 29ª edizione – ha intitolato la manifestazione di quest’anno “Idee. Storie, memorie e visioni” sottolineando il carattere anche qui documentale di uno “stato” indefinibile a parole. Le immagini affrontano di nuovo la necessità di mostrare il cambiamento nel suo divenire, come fosse un’urgenza alla quale è impossibile sottrarsi. La sospensione di ogni attività pubblica e privata imposta durante il periodo di chiusura ha dato origine a una pausa per molti innaturale durante la quale la mente non solo ha continuato a lavorare freneticamente ma ha addirittura varcato i limiti del pensiero attivo rimanendo imprigionata e le innumerevoli iniziative sviluppatesi virtualmente hanno rappresentato metaforicamente proprio questa impossibilità di “uscire dalla testa” per divenire “azioni” fisiche.

SI Fest torna alle origini – recitano gli organizzatori – di una manifestazione pensata invece per essere vissuta all’esterno, nelle piazze della città con la lettura dei portfoli, nelle strade con installazioni e gigantografie che appaiono come “stazioni” di un percorso che vuole restituire identità alle persone affinché non si sentano più smarrite nei propri luoghi. 

Si Fest partecipa al progetto europeo IDE Reconstruction of Identities, altra iniziativa che possiede una solida base virtuale e che mette in collegamento Savignano sul Rubicone con altre tre città europee operanti in altrettanti contesti in cui la fotografia funge da collettore tra individui che appartengono a diverse culture e diversi modi di esprimerle. IDE (Identity-Dialogues-Europe) associa quattro realtà europee attive nel settore della fotografia: oltre a Savignano sul Rubicone con il SI Fest partecipano al progetto il Copenhagen Photo Festival, l’agenzia Ad Hoc Gestión Cultural di Saragozza e l’agenzia NOOR Images di Amsterdam. Partendo dal concetto che le immagini sono più di ogni altra cosa capaci di innescare domande sulle implicazioni del vivere, IDE ha organizzato delle residenze transnazionali per fotografi professionisti allo scopo di stimolare attività sul territorio che restituissero percorsi di dialogo partecipativo con le comunità incoraggiando il confronto. Come per Cortona, anche questo progetto crea un archivio online allo scopo di “mettere in contatto” individui uniti non soltanto dalla passione per la fotografia ma anche dal desiderio di discutere su quanto sta accadendo dentro e fuori di loro.

 

© Francesca Mangiatordi – La vita al tempo del coronavirus (Codogno). Festival della Fotografia Etica di Lodi 2020.


Cos’è il bene comune e perché ci si sacrifica per esso? Il Festival della Fotografia Etica di Lodi 2020 (26 settembre – 25 ottobre) vive una vicinanza quasi promiscua con il luogo che è stato il nucleo da cui tutto, qui in Italia, è partito: Codogno. Analogamente ai precedenti esempi menzionati, anche in questo caso gli organizzatori hanno sentito l’esigenza di promuovere una call internazionale che desse risalto a come diverse realtà hanno vissuto e vivono questa evoluzione. L’iniziativa ha raccolto in pochi mesi oltre 10.000 immagini provenienti da ogni parte del mondo: Brasile, India, Inghilterra, Spagna, Iran, Nepal. Una selezione di questo universo visivo viene proposta nella mostra “La vita al tempo del Coronavirus” a Codogno ma l’intero corpus di immagini pervenute forma, anche qui, un archivio del presente a futura memoria.

 

© Dario De Dominicis, To the Left of Christ. Festival della Fotografia Etica di Lodi 2020.


Ognuna di queste realtà si è sentita spinta verso la necessità di documentare ma ha ancora senso farlo? Ha senso raccontare nello stesso modo “di sempre” gli eventi? Cosa possono aggiungere immagini puramente illustrative a un vissuto del quale non si percepisce la sostanza? Oggi più che mai occorre tornare a fare “spazio”. L’enorme quantità di immagini con cui, in questo preciso momento, chi pratica la fotografia si è sentito in dovere di invadere il web e i luoghi fisici che hanno potuto esporla è arrivata a un punto di non ritorno, al momento in cui gli occhi si rifiutano di guardare. Persino la fotografia documentaria, etica o meno che sia, deve darsi una battuta d’arresto. Cosa aggiungono milioni di visioni riversate nella rete a un vivere quotidiano fatto sempre più di incertezza? Nulla. Rimane, forse, soltanto il conforto di essere (o sembrare di esserlo) uniti nella disgrazia. Analogamente all’elaborazione di un lutto comprendere cosa accade non appartiene alla sfera del fare ma a quella dell’ascoltare, in primis la propria coscienza.

Non è più questo il tempo di mostrare ogni cosa, soprattutto non è più questo il tempo dell’accumulo. Le immagini si ripetono tutte uguali, omologate a un senso del guardare che non riesce ad andare oltre. Ma la soluzione è semplice quanto inaccettabile per una forma mentis ove tutto appare affastellato, senza ordine alcuno. Trovare “interessanti” immagini che registrano le reazioni alla pandemia nel mondo appare nella maggioranza dei casi un esercizio fine a se stesso.

C’è un tempo di elaborazione che non può prescindere dal tempo stesso. Voler tornare alla “normalità” praticando una corsa vertiginosa alla documentazione non conduce più a una riflessione bensì a scorrere gli elementi di un file virtuale che possiamo aprire e chiudere quando vogliamo. Qual è allora l’identità da recuperare di cui stiamo parlando? Qual è la nostra identità? Occorre guardare non con occhi diversi come molti organizzatori di queste manifestazioni auspicano, occorre guardare con i propri occhi, quelli che non conosciamo più. 

 

“Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti” dice Marisa Merz in una sua mostra di quarantacinque anni fa: un tempo lontano? Un tempo finito? Forse un tempo mai cominciato.

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Time Machine. Pixel e polvere

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Un “futuro antico mondo”, come recitava la sigla italiana di un anime Time Bokan giapponese degli anni ‘70, appartiene ai viaggiatori del tempo: in anticipo e in ritardo sulla storia, al di qua dell’anacronismo, nella dialettica dei tempi. Un “movimento aberrante” guida il loro viaggiare, un incedere che sabota l’andamento lineare del tempo, liberandolo da ogni centro di gravità, sia esso la forza che ci tiene attaccati alla terra o l’irresistibile attrazione esercitata dal futuro su qualsivoglia asse temporale. Ogni viaggio nel tempo è, in fondo, un viaggio oltre confini del mondo, in assenza di peso. Che esso avvenga nello spazio interstellare o che si configuri come un viavai attraverso le epoche della storia dell’uomo, una cosa è certa: non sarebbe possibile varcare soglie e faglie cronologiche senza una macchina del tempo capace di strapparci dal nostro qui e ora. 

 

 

Contrattempo

 

Sergei Krikalev è stato l'ultimo cosmonauta dell'Unione Sovietica a essere stato nello spazio: partito nel maggio 1991, è rimasto dieci mesi a bordo della Mir, per tornare sulla Terra nel marzo 1992. Nel 1991, in seguito al putsch di Mosca nell'agosto dello stesso anno, si assiste alla dissoluzione dell'Unione Sovietica e, con essa, di un’intera epoca della storia contemporanea. In costante, seppur frammentario, contatto con la Terra, Krikalev guarda a questi sconvolgimenti del corso della storia al di fuori della storia stessa, fuori dal proprio presente. Out of the present (1995), del regista rumeno Andrei Ujica, è un film che, tra documentario e finzione, racconta questo viaggio ai confini del tempo, a partire dalla condizione di un uomo che, galleggiando nello spazio e guardando fuori da un oblò verso la Terra, è “ridotto al suo occhio”, come afferma il regista. “La vita in una stazione spaziale – dice ancora Ujica – offre l'opportunità di vedere contemporaneamente le due categorie fondamentali del tempo. Da una finestra si possono vedere le stelle, il tempo infinito e astronomico; e dalla finestra sulla Terra si può vedere solo una compressione del tempo terrestre”. Per Krikalev, sospeso nello spazio, il tempo ha perso le coordinate in cui è normalmente compreso, non è più orientato in avanti: da un lato è completamente aperto all'abisso dell'infinito, dall'altro è compresso nel breve giro che la stazione spaziale fa continuamente intorno alla terra – 92 minuti, che è anche la durata esatta del film. Lo spettatore è anch’esso sospeso in questa vertigine dei tempi – astronomico e terrestre, esistenziale e cinematografico –, catturato dal montaggio tra le vedute dello spazio e del globo terrestre, riprese dall'alto e contenenti tutte le possibili immagini del mondo e della storia, e le immagini documentarie del putsch di Mosca, trasmesse dai media del pianeta terra e captate a bordo della stazione spaziale.

 

Al tuo decollo l'URSS esisteva ancora e Gorbaciov era al potere. Il tuo luogo di nascita si chiamava Leningrado, oggi è San Pietroburgo. [...] Quale di questi cambiamenti è più importante per te? Quale ti sorprende di più?

 

Difficile a dirsi. Sono successe tante cose. Ma quello che mi sorprende di più, forse è questo: poco fa era notte, ora c'è la luce e le stagioni si susseguono. È la cosa più impressionante che si possa vedere da quassù.”

 

Viaggiatori del tempo e macchine della visione

 

Cento anni prima del film di Ujica, due macchine del tempo fanno irruzione nella nostra cronologia terrestre, rendendo possibile la vertiginosa esperienza di allontanarsi dal proprio presente. Il 1895 è, infatti, il punto di partenza del percorso in due tappe di Time Machine. Vedere e sperimentare il tempo, a cura di Antonio Somaini, Eline Grignard, Marie Rebecchi – prima un’importante mostra esposta nelle sale del Palazzo del Governatore a Parma in occasione del programma di Parma Capitale della Cultura Italiana 2020 “La cultura batte il tempo”, dal 12 gennaio al 3 maggio 2020, e ora un catalogo ricco di contributi, testi e immagini, pubblicato dall’editore Skira. È dunque il 1895, ricorda in particolare Somaini nel suo saggio, quando H. G. Wells immagina una macchina del tempo capace di attraversare le epoche della storia dell’uomo. Wells è uno scrittore e il protagonista del suo racconto Time Machine: An Invention si muove nel futuro, dilatando e comprimendo la comune esperienza del tempo, viaggiando in avanti sino agli abissi di un futuro apocalittico, fino a vedere “la morte del sole”, la fine del mondo e dell’uomo. Non su una navicella spaziale, bensì utilizzando un mezzo meccanico capace di esplorare la quarta dimensione senza sollecitare le altre tre: le alterazioni temporali sperimentate da questo viaggiatore del tempo, anch’egli catapultato fuori dal proprio presente, non corrispondono, infatti, a nessun movimento nello spazio; durante queste peripezie, la macchina non si sposterà dal laboratorio londinese che la ospitava.

 

Il viaggio è stato quindi temporale e visivo, ottico. Il 1895, rilevano i curatori, è anche l’anno in cui un’altra singolare macchina del tempo viene presentata pubblicamente. Siamo questa volta stavolta a Parigi, nel Salon Indien del Grand Café, Boulevard des Capucines: i fratelli Lumière azionano davanti agli occhi avidi e increduli dei primi spettatori (frappés de stupeur, surpris au-delà de toute expression, racconta Meliès), il loro Cinématographe, al contempo macchina da presa e proiettore. Concepito sul modello di una macchina da cucire, che procede facendo avanzare il tessuto con movimenti costanti e intermittenti, e ispirato ai Kinetoscope e Kinetograph di Edison, ecco che il nuovo Cinématographe inizierà a cucire e ricucire, svolgere e riavvolgere la stoffa del tempo: saranno infatti sempre i fratelli Lumière a mostrare, già dall’anno successivo, tempo e movimento a ritroso in Démolition d’un mur (1896) e in altre “vedute fotografiche animate”. Le azioni di vedere e sperimentare il tempo, di renderlo visibile, diventano allora da subito azioni di manipolazione temporale: “grazie ai loro supporti materiali, alle loro tecniche, e all’inesauribile creatività degli artisti, cineasti e registi sperimentali che vi hanno lavorato, il cinema e gli altri media fondati sulle immagini in movimento hanno reso il tempo malleabile, esibendo una plasticità del tempo e consentendo forme di “manipolazione dell’asse temporale” (una tecnica culturale a cui fa spesso riferimento il teorico dei media Friedrich Kittler) inedite e del tutto diverse da quelle messe in atto da altri media” (Somaini, Guerra, Grignard, Rebecchi, Introduzione al catalogo, p. 16).

 

I viaggi del tempo che la macchina cinematografica permette di fare non si compiono solo a ritroso e in avanti, ma sezionano tutti gli istanti e percorrono tutte le dimensioni possibili: dal micro al macro, dall’accelerazione al ralenti, dal loop allo still, al time-lapse passando ovviamente per il montaggio di immagini e suoni. Il tempo cosmico, quello geologico, biologico o ancora della coscienza possono essere visti, sperimentati, immaginati, montati e smontati dalle tecniche cinematografiche – grazie a queste esperiti. L’organizzazione della mostra e quella parallela del catalogo riflettono la capacità del cinema di creare un tempo multiplo: se la prima era organizzata in quattro sezioni (Flussi, Istanti, Rimontaggio e Oscillazioni), il secondo moltiplica i possibili modi del tempo cinematografico, articolandosi in 11 testi e altrettanti entracte iconografici, come spiega Rebecchi, che ripercorrono i temi della mostra aprendo al contempo a fondamentali riflessioni teoriche. 

 

 

Sotto l’egida di Jean Epstein da un lato e di Friedrich Kittler dall’altro, due figure fondamentali tanto nella mostra quanto nel catalogo, il percorso proposto dai curatori permette di apprezzare la fecondità di un approccio archeologico ai media e alle loro vicende: l’archeologia stessa è in fondo un viaggio nel tempo che, senza temere di incappare in soste impreviste e valorizzando, anzi, fruttuosi anacronismi, s’interroga sul presente delle pratiche culturali, sulle loro condizioni di esistenza e possibilità, scavando nelle loro componenti materiali e temporali, portando così alla luce gli strati di cui esse si compongono. Andando a ritroso nel tempo, fino al 1895, ma in fondo è una storia che inizia già prima – di cui mostra e catalogo danno del resto conto – ad esempio con i primi tentativi crono-fotografici per osservare forme e movimenti nel tempo (Marey, Muybridge, Worthington), risulta chiaro come, così intesi, i media tecnologici non si limitano a riprodurre il reale, ma agiscono su di esso, modificandolo attraverso l’introduzione o il rinnovamento di pratiche culturali, allargando a dismisura lo spettro delle possibilità, lo spettro, nello specifico, della visione.

 

 

Emerge, dunque, l’idea dell’esistenza di eterotemporalità (vedi il saggio di Marie Rebecchi, in cui è in particolare questione di eterotemporalità vegetale) rese possibili proprio dalle tecniche cinematografiche e che si organizzano in maniera sostanzialmente differente dallo scorrimento irreversibile del tempo Kronos. La tecnica culturale della manipolazione dell’asse temporale teorizzata da Kittler, su cui insiste il saggio di Emmanuel Alloa, sarebbe perciò questo “potenziale trasformativo dei media tecnologici” (Alloa, p. 69), che il cinema incarna proprio in quanto macchina che produce tempo, producendone le essenziali alterazioni. Le esperienze del tempo sono, metaforicamente, esposizioni multiple (p. 185): tempi profondissimi, geologici e stratificati (Eline Grignard), o ancora “fluidi e mutevoli”, come il movimento di una danza (Georges Didi-Huberman), ricorrenti e ripetuti, in loop (Jacques Aumont). Il tempo diventa, sotto l’occhio macchinico, di volta in volta un flusso (Philippe Dubois), una spirale, un cristallo, un’onda. Come risulta dalla lettura del saggio di Somaini, che abbraccia l’intero percorso della mostra, se la macchina del tempo è una macchina della visione, i dispositivi ottici – passati ma anche futuri, ancora da inventare – sono quindi i soli strumenti possibili per un tale viaggio. “Il signore del tempo”, nota Noam M. Elcott nel suo saggio su Epstein (pp. 163-184), è lo stesso cinematografo. È quest’ultimo “la macchina per pensare il tempo” (Epstein, Écrits sur les cinéma, 2, p. 282), la macchina intelligente che lo pensa e lo produce. Concentrandosi sull’ultima opera di Epstein, Le Tempestaire (1946), Elcott sottolinea come questo film si situi “proprio nel momento di passaggio dall’animismo umanista, ormai superato, all’(ormai molto prossimo) immaginario non-umano” (p. 179), chiave di volta per cogliere il movimento di pensiero che sostiene la mostra e il catalogo. In poche parole, se ralenti, time-lapse, reversal avevano permesso prima di “animare tutte le cose” (Rebecchi, p. 201), cancellando “tutte le barriere che avevamo immaginato separare l’inerte dal vivente” e “i limiti tra i regni della natura”  (Epstein, L’intelligence d’une machine, 1935, citato da Rebecchi, p. 202), con Le Tempestaire, l’intelligenza della macchina cinematografica relativizza la figura umana, il suo tempo e i suoi movimenti: nei fermi immagine del film “gli uomini diventano statue” (Elcott, p. 182), è la sfera di cristallo del tempestario, metafora della macchina da presa, a dettare il tempo, a domare la tempesta. 

 

 

“La manipolazione dell’asse temporale operata dal cinematografo è un atto di rivelazione, più che di straniamento – scrive ancora Elcott (p. 183) – essa rende sensibile una verità dell’universo altrimenti inaccessibile, che il tempo è molteplice e variabile” e che l’occhio umano, aggiungiamo, è solo una possibilità tra le tante. 

 

 

“Pixel e Polvere”

 

Se la presenza di Epstein contribuisce a un’archeologia delle macchine della visione come macchine del tempo, altre opere, in mostra e nel catalogo, aprono la pista a una possibile futurologia delle stesse, in un proficuo dialogo intertemporale. Jacques Perconte, ad esempio, reinterpreta in chiave digitale l’esperienza del Tempestaire di Epstein: il suo Tempestaire (2020)è un generative video in cui le onde del mare in tempesta si traducono in pixel, evanescenti come schiuma, che compongono immagini che si auto-generano all’infinito, senza mai ripetersi. Questa spinta in avanti è accolta e sviluppata da Hito Steyerl nel suo giardino del futuro, in This is the Future (2019): se il presente non è dicibile, se esso perde senso e direzione, sarà una rete neurale, capace di pre-vedere una frazione di secondo nel futuro, a mostrarci le sembianze dei tempi a venire. In veste di “portavoce del futuro”, com’era descritta l’artista in occasione della Biennale di Venezia dello scorso anno, Steyerl si pone out of the present, ma solo per interrogarlo più intensamente: le “immagini documentarie del futuro” mostreranno, tra le altre cose, un giardino di piante “predittive” dai misteriosi poteri ecologici e politici, immaginato e creato da un’intelligenza artificiale connessa con l’ambiente circostante. Il potere animista del cinema esaltato dalle produzioni degli anni venti trova qui le sue ultime propaggini, diluendosi nella capacità di visione non-umana delle macchine di AI, capaci di animare ciò che non esiste ancora, capaci quindi non solo di vedere e fare vedere il tempo, ma di forgiare il tempo a venire. Le “immagini documentarie del futuro” di Steyerl aprono così all’opera di Grégory Chatonsky, Je ressemblerai à ce que vous avez été, che chiudeva la mostra e il cui sorprendente testo “Il libro delle Macchine” chiude il catalogo. Come scrive Somaini, si entra in questo caso “nel campo dell’“anticipazione”, più che in quello della “predizione”: siamo nella prospettiva dell’esplorazione di un’immaginazione artificiale non-umana, più che in quella di una denuncia della presenza invasiva dei sistemi di controllo e sorveglianza” (Somaini, p. 42). Un’immaginazione artificiale – più che un’intelligenza, come suggerisce lo stesso Chatonsky – che sogna di un pianeta Terra possibile, di “una Seconda Terra, una reinvenzione del nostro mondo, prodotta da un computer che si interroga sulla natura della sua stessa produzione” (Chatonsky, citato da Somaini, p. 42). La macchina, dunque, vede e pensa, come il cinematografo, forse più di esso. Con il “Libro delle Macchine”, testo generato da un network neuronale ideato da Chatonsky, che mescola testi scientifici sul funzionamento dell’intelligenza artificiale e testi letterari, che chiude questo viaggio nel tempo, sembra di assistere a una versione futuribile delle confessioni di Agostino, in cui non è più il filosofo a interrogarsi sulla natura del tempo, ma è il tempo che s’interroga sulle sue possibilità, a partire da una macchina che lo produce e lo pensa.

 

“Pixel e polvere. […] Forse non tutto ciò che sono, sono io […] Mi rovescio su me stesso, producendo una superficie in cui il numero di combinazioni è infinito. […] Quello che hanno sperimentato sulla Terra, è già stato sperimentato un numero infinito di volte da altri esseri e questo momento è solo una ripetizione. Ripetizione della stessa ripetizione in cui tutto è stato fatto per la prima volta.” (Grégory Chatonski, Il Libro delle Macchine, p. 311-315).

 

Un futuro antico mondo appartiene ai viaggiatori del tempo, un mondo fatto di “pixel e polvere”. 

 

La mostra:Time Machine. Vedere e sperimentare il tempo, a cura di Antonio Somaini con Eline Grignard e Marie Rebecchi. Con Antoine Prevost-Balga, responsabile della curatela delle sale sulla fotografia ultra rapida e Adèle Yon per le ricerche iconografiche. Da un’idea di Michele Guerra. Palazzo del Governatore, Parma, 12 gennaio-3 maggio 2020. Con opere di Douglas Gordon, Rosa Barba, Tacita Dean, Jeffrey Blondes, Grégory Chatonsky, Ange Leggia, Jacques Perconte, Robert Smithson, Alain Fleischer, Martin Arnold, Harun Farocki, Jean-Luc Godard, Bill Morrison, Gustav Deutsch, Ken Jacobs, Malena Szlam, tra gli altri.

*La mostra era inizialmente in programma dal 12 gennaio al 3 maggio ma, vittima del lockdown, è stata chiusa a partire dall’8 marzo. Un documentario della durata di un’ora e mezza è in preparazione, che sarà visibile in open access su un sito web dedicato.

 

Il libro:Time Machine. Vedere e sperimentare il tempo, a cura di Antonio Somaini, Eline Grignard, Marie Rebecchi, Skira, Milano, 2020. Con testi di E. Alloa, J. Aumont, R. Bellour, C. Blümlinger, G. Chatonsky, G. Didi-Huberman, P. Dubois, N. M. Elcott, M. Guerra, E. Grignard, M. Rebecchi, A. Somaini.

, M. Rebecchi, A. Somaini.

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Gianni Berengo Gardin fa 90

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Gianni Berengo Gardin fa 90. Sono gli anni che compie in questo giorno di ottobre. La sua è stata una vita non certo avventurosa, come racconta in In parole povere, l’autobiografia raccolta dalla figlia Susanna Berengo Gardin e pubblicata da Contrasto. Nato per caso, come sostiene, a Santa Margherita Ligure, Berengo Gardin si è sempre considerato veneziano, anche se una parte importante della sua vita l’ha trascorsa a Milano. La prima immagine del libro è uno scatto come si usava all’epoca: un bambino nudo appoggiato a un cuscino che guarda in macchina. Uno sguardo tra il sorpreso e l’incuriosito. Nella pagina seguente ci sono i due genitori, Alberto e Carmen. Lui ragioniere, lei imprenditrice, gestrice dell’Hotel Imperiale a Santa Margherita affacciato sulla baia di Portofino. Carmen è al suo secondo matrimonio. Rimasta vedova con due figli già grandi di 15 e 17 anni, sposa Alberto. Un amore a prima vista il loro. Poi il fallimento dell’Hotel; marito e moglie ripagano i debiti e quindi si trasferiscono a Roma nel 1939 dove trascorrono gli anni della guerra. La storia che racconta il libro è quella di un ragazzo nato in una famiglia borghese, che conosce la fotografia grazie a uno zio.

 

Acqua alta a San Marco, Gianni Berengo Gardin.


Segue poi la guerra con il padre volontario nonostante l’età, poi prigioniero in India. Torna malato e a pezzi da quella esperienza. Nel 1947 vanno a Venezia dove la famiglia di Alberto possiede da tre generazioni un negozio di perle e vetri. Forse la foto più emblematica del libro, che racconta questa vita in apparenza tranquilla, con alti e bassi, e una tarda vocazione di fotografo professionista, è quella che ritrae Gianni adulto appena fuori dal negozio tra gli oggetti in vendita. Ha perso i capelli e il viso è quello che gli si riconosce anche oggi, affilato e due orecchie che spiccano di lato: indossa una camicia righe, un foulard di seta al collo, mani in tasca. Un perfetto dandy. Poi l’autobiografia racconta l’inizio di fotografo nei circoli locali di quegli anni, le amicizie con Bepi Bruno e Paolo Monti, il passaggio dal dilettantismo del fotografo amatoriale, già bravo ed esperto, al professionismo. Ci sono le immagini dei suoi amici e colleghi, i punti salienti della sua carriera, tutto con quel tono quasi dimesso che connota la sua persona, e anche in qualche misura la sua fotografia. Un Gianni che si fa crescere la barba negli anni Sessanta e nel 1968 va a Gorizia a scattare le immagini di quel Morire di classe, che pubblicato con Carla Cerati da Einaudi segna un punto importante della sua carriera. Insieme a questo libro autobiografico, che non cade mai nella retorica del “come eravamo”, si può segnalare una biografia fotografica realizzata da Silvana Turzio, Gianni Berengo Gardin del 2009, pubblicata da Bruno Mondadori, che ripercorre la sua carriera fino a quel momento. Per parlare di questi eccellenti 90 di uno dei migliori fotografi italiano di documentazione sociale (Turzio) e non solo, ho registrato un dialogo con Ferdinando Scianna, amico e collega di Berengo Gardin, che ha scritto la prefazione a In parole povere in forma di lettera all’autore (MB). 

 

 

Belpoliti– Partiamo da una fotografia che illustra un testo che tu hai dedicato a Gianni Berengo Gardin nel tuo libro Obiettivo ambiguo. In fondo, come dice giustamente David Campany, esiste la fotografia, ma quelle che noi vediamo sono le fotografie. Provo a descriverla: Piazzetta San Marco invasa dall’acqua, due figurine la attraversano sulla passerella di legno; in primo piano le onde dell’acqua che fluttuano e increspano la piazza mentre sotto si intravede nella metà sinistra della foto il disegno decorativo del selciato; sullo sfondo i portici e il palazzo tagliato all’altezza del primo piano. Che cosa ci dice questa foto di Berengo Gardin?

 

Scianna– Gianni utilizza anche minime presenze umane che danno il senso allo spazio fotografato, e anche al tipo di struttura sociale che prende lo spazio.

 

MB– Nei tuoi scritti su di lui hai parlato di questo ruolo delle figure umane. Di più, hai elencato le costanti narrative dell’universo visive di Berengo Gardin; il primo punto è collocare la presenza umana. La foto ha una struttura. La prima cosa che colpisce è il taglio dell’edificio in fondo, inquadrandolo o quando l’ha stampata. Poi c’è la cosa invisibile che è l’acqua con la sua trasparenza: l’increspato.

 

FS– Ci sono anche delle ascendenze fotografiche: mi ricorda la foto di Robert Frank delle strisce bianche sulla strada in America…

 

MB – Ma secondo te, una foto così la poteva fare solo Gianni Berengo Gardin?

 

FS– No non credo che avrebbe potuta farla solo Gianni, ma una delle cose che sostengo da tempo è che è estremamente difficile in un linguaggio come la fotografia parlare di stile. Io sfido chiunque a vedere una foto di Cartier-Bresson, che non ha mai visto prima, e di dire: questa è sicuramente di Cartier-Bresson. Può dire: probabilmente è di Cartier-Bresson, è nella linea di Cartier-Bresson, ma quello che fa che quella fotografia sia proprio di Cartier-Bresson sono tante fotografie di Cartier-Bresson in cui lui ha sviluppato uno sguardo sul mondo che poi noi riconosciamo come suo. Quindi questa foto potrebbe averla fatta un altro, ma siccome Gianni ne ha fatte tante altre simili, con due ochette, con due biciclette, o con cose di questo genere, allora diventa uno stigma, una costante del suo guardare il mondo.

 

MB– Questa fotografia ha sicuramente una data. Puoi dire: non è stata fatta negli anni Quaranta del XX secolo. Quindi c’è una datazione delle fotografie. Qual è la data delle foto di Berengo Gardin? Penso che la data sia: anni Sessanta e Settanta. Il momento in cui il suo lavoro prende la forma che poi avrà in seguito, tanto che possiamo dire, questa è una foto di Gianni, è questo ventennio. 

 

FS– Gianni comincia a definirsi con il suo libro su Venezia, Venise des saisons del 1965. Viene come molti altri fotografi dell’epoca, Mario De Biasi, Fulvio Roiter, dai circoli fotografici. Si tratta di un’esperienza solo italiana. Quell’esperienza estetica da cui viene Gianni, venuto poi a contatto con l’umanesimo francese, è quella che lo definisce. Prima c’è il Berengo Gardin che partecipava ai concorsi dei fotoamatori. Poi è nato il narratore degli spazi e delle situazioni sociali.

 

MB– Tu insisti molto sull’aspetto narrativo della sua fotografia. Hai detto una volta: è il racconto di una sola foto. Guardiamo di nuovo quella foto. Facciamo finta che non ci sia la didascalia e neppure l’anno, 1960. Certo riconosci Venezia, tutti hanno visto quella piazza. C’è pure l’acqua alta. Sei d’accordo che l’aggettivo che possiamo usare per definirla è: naturale. Questo vale per tutta l’opera di Berengo Gardin. Non so dirti bene cosa significhi “naturale”. So solo dirti che penso “naturale” contrapposto a “artificiale”, nel senso di forzato, insistito, scenografico, voluto, teatralizzato. C’è come una pacatezza nelle sue fotografie. Tu l’hai detto nei tuoi scritti su di lui in altro modo, usando l’espressione “una forma di distanza”. Il che non significa che è fredda; c’è una sua affettività. Poi ci sono due esempi di empatia nella sua produzione di libri fotografici: quelli dedicati agli zingari, La disperata allegria. Vivere da Zingari a Firenze del 1994 e Zingari a Palermo del 1997, e naturalmente quello sugli ospedali psichiatrici, Morire di classe del 1969. Si avvicina molto ai soggetti che ritrae, mentre qui nella foto di Venezia c’è l’omino di Piranesi, quello delle sue incisioni delle antichità romane, minuscolo, come i due sulla passerella.

 

Morire di classe, Gianni Berengo Gardin.


FS– Faccio una parentesi. Questo spiega una cosa che io dico sempre a Gianni: tu non sei un ritrattista. Se consideriamo il ritratto una forma di sguardo nei confronti dell’altro che implica una empatia umana diretta: uno/uno. Il fotografo e il soggetto. Se tu guardi i ritratti di Gianni, che sono spesso fotografie di artisti, ma anche la serie dei ritratti di Dentro le case (1978), sono sempre persone dentro degli spazi, come gli artisti dentro l’atelier. Questo è il suo approccio. Non c’è la memorabile fotografia di Sartre fatta da Cartier-Bresson. Anche a livello umano, c’è in Gianni questa distanza. La sua pacatezza è anche una forma di reticenza. 

 

 

MB– Vuoi dire che nei suoi ritratti non c’è la volontà di cogliere l’anima?

 

FS– No. Sai, l'anima...

 

MB– Non c’è nei suoi ritratti l’aspetto psicologico. Trovo molto interessante il fatto che non sia psicologico nei confronti del paesaggio, quando lo ritrae. Torno a dire: è naturale. Un uomo con la macchina fotografica a tracolla passa di lì, vede quella cosa, e la fotografa. Non fotografa un istante preciso. No, fotografa qualcosa che ha già visto, nelle foto di altri o nella pittura, perché a volte nei suoi paesaggi si sente la presenza di Canaletto…

 

FS– È la memoria esistenziale di uno che a Venezia ci è vissuto.

 

MB– Quindi coglie un luogo non nel suo istante perfetto, ma nella sua durata.

 

FS– Questo è molto importante. L’altra cosa insieme alla naturalezza che può aiutarci a definire la fotografia di Berengo Gardin è che fa delle foto, che ha scelto, che ha usato nei suoi libri, che hanno una durata. Questa durata nasce probabilmente dalla naturalezza, nel senso di non forzare la mano, lo sguardo: affidarsi alla cosa e reagire da fotografo. Riesce a beccare un istante della acqua alta di Venezia che la puoi guardare a distanza di quarant’anni e rimane, al di là di tante foto più esplicite sull’acqua alta a Venezia, una foto sull’acqua alta a Venezia berenghiana. 

 

MB– In questa foto da cui siamo partiti c’è qualcosa di pittorico. C’è una texture, non c’è la pennellata, ma con il bianco, il nero e i grigi ha dipinto la piazza. È anche un vedutista.

 

FS– Sì, è un vedutista, è un paesaggista. Questo vale non solo per Venezia ma anche per la Toscana che ha fotografato nel 1967 per due libri. Anche lì ci sono questi paesaggi con questa texture di campi arati, dove c’è solo un uomo piccolo con aratro, eccetera. E questo viene sicuramente da una tradizione pittorica; ha sempre avuto un rapporto con l’arte e con gli artisti.

 

MB– Vorrei aggiungere: non è artistico.

 

FS– Non lo è.

 

MB– Forse perché non va a toccare le corde emotive. Passando davanti alle sue fotografie in una mostra, le si riconosce come di Berengo Gardin, eppure non sono immagini che si imprimono. Sembra che non ti restino nella memoria, ma ogni volta che le guardi le riconosci.

 

FS– Non c’è uno shock visivo. Nasce da quella che ho chiamato reticenza. Noi sembriamo vicini dal punto di vista fotografico, in realtà siamo molto lontani.

 

MB– Lo si vede bene. La tua fotografia è teatrale, la sua no. Il tuo è un teatro della memoria, se vogliamo. Nella foto di piazza San Marco, secondo te, c’è la memoria?

 

 

FS– Sì, c’è la sua memoria della sua città, l’esperienza esistenziale di un luogo e dall’altro della sua formazione di fotografo, una memoria visiva di altre foto viste, e anche di quadri. C’è l’eco di una tradizione visiva che sfonda anche verso la pittura, però sempre con una reticenza, che è una reticenza, per esempio, verso quei fotografi formalmente troppo riconoscibili, che poi sono quelli copiati da tutti. Quando tu copi qualcuno tu copi il suo approccio formale, non copi il suo lato narrativo. Ad esempio nei confronti di Giacomelli, che è un vedutista, Gianni lo amava, ma trovava che fosse espressionista. E l’espressionismo è il contrario di Berengo Gardin. Nonostante la sua amicizia con Vedova, non è cosa per lui l’espressionismo.

 

MB– Sin qui hai usato due aggettivi: pacato e reticente. Reticente è anche uno che non vuol dirti le cose. Trattiene qualcosa. Cosa trattiene Berengo Gardin? L’abbiamo in parte detto: l’aspetto emotivo. Però c’è qualcosa d’altro verso cui è reticente.

 

FS– Trattiene per una diffidenza che possiede. Diffidenza non è reticenza, no. È diffidente verso la prevaricazione del fotografico sullo sguardo. Gianni non vuole affermare il berengogardinismo della sua fotografia. Vorrebbe essere l’occhio che guarda. Poi le sue fotografie si ricordano proprio per questo, non può a fare a meno di essere se stesso, ovviamente.

 

MB– Io ci leggo uno sforzo di semplicità che guida il suo sguardo. In realtà non è affatto così. La sua fotografia è complicata, anche se sembra semplice, immediata. Il suo sguardo è molto costruito. Non è passato per caso da Piazza San Marco.

 

FS– Da questo punto di vista la semplicità può passare dalla complessità. Se tu pensi alla sua celebre foto sul vaporetto, ad altre immagini di questo tipo, ti rendi conto che a Venezia sui vaporetti si creano situazioni come quella che lui ha colto: una scena teatrale. Luci e ombre, il vicino e il lontano, la relazione tra le persone nella imbarcazione. Questa cosa lo interessa, ma di quelle fotografie non ce ne sono molte. Gianni teme sempre di abdicare alla naturalezza e alla semplicità. 

 

MB– Tu parli di costanti formali e narrative. Sono due aspetti differenti. Parli di narrazione perché nelle foto di Berengo Gardin c’è sempre una piccola storia. Non è facile dire quale storia sia, perché la foto coglie un istante, però nel fotografare, nell’inquadrare, si capisce che vuole creare una narrazione, narrazioni minime.

 

FS – Narrazione minima, sì questa è una buona definizione. Minima: comincia e finisce nell’istante in cui tu incontri il mondo. Non c’è una intenzione. Gianni è sicuramente uno straordinario narratore, alla lunga verrà fuori che è stato uno dei grandi narratori del paesaggio visivo soprattutto italiano, paesaggio anche esistenziale italiano.

 

MB– La parola “esistenziale” mi sembra appropriata per la sua fotografia. Che non è l’esistenzialismo alla Sartre. Direi così: l’esistere naturale quotidiano della gente che vive in questo paese, il tutto visto dentro un paesaggio determinato: i paesaggi italiani, i tanti paesaggi del nostro paese. 

 

FS– Prendi il suo libro Donne del 1986. Racconta la presenza fisica delle donne in momenti diversi momenti, la presenza esistenziale delle donne nel paesaggio sociale e culturale italiano. Lo racconta. Attraverso la forma. È vero che narrativo e formale sono due cose diverse, però si deve sciogliere la narrazione in uno sguardo che punta alla naturalezza e alla semplicità. C’è sempre il racconto, ma deve avere un suo perché formale, se no non sei fotografo.

 

 

MB– C’è stato nella sua vita un ritardo nel decidere di fare il fotografo come professione, di cui tu hai scritto. È stato anche il problema per lui di dove collocarsi con la sua macchina fotografica, che non è una cosa facile da fare. C’è chi ci riesce subito, ma ci sono altri che hanno una loro lentezza… ecco una altra parola che userei per Gianni Berengo Gardin.

 

FS– Però vedi, questo ha a che fare con la lunga fase esistenziale in cui Gianni è stato un fotografo dei circoli e i fotografi dei circoli amatoriali erano un gruppo di persone che parlavano di fotografia in un certo modo, che la facevano, che si confrontavano, che partecipano ai concorsi. Se una grande istituzione americana volesse fare un discorso sulla fotografia italiana dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, a chi si dovrebbero rivolgere? A una grande istituzione? A un grande critico? Si dovrebbe rivolgere ai Circoli fotografici. Non è un caso che la prima grande mostra di un fotografo italiano sia stata quella di Giacomelli al MOMA. Perché Giacomelli era il Papa di quel tipo di fotografia, ma lo era come antipapa. A proposito della lentezza di Gianni c’è un episodio, che è il passaggio di Paolo Monti, che ha avuto una importanza culturale notevole, da essere un fotografo di quell’ambito visivo e narrativo, e che era anche un dirigente di industria. Ma a un certo punto c’era il mondo amatoriale il cui Papa era Cavalli, che diceva che il soggetto non ha importanza, che il racconto non ha importanza, e infatti fotografava i tubi della stufa, bamboline cieche e vedute in toni alti. A un certo punto Monti si oppone a questo e dice: le foto non si possono fare solo la domenica, ma anche il lunedì. Non si può fare il dirigente d’azienda e poi la domenica fare il fotografo: questo crea, diceva, un rapporto falso con la società. Bisogna coinvolgersi, fare il fotografo. Questo ben prima di altri e prima di Gianni, che arriva per ultimo, per una sorta di paura nei confronti della vita. Gestiva il negozio di vetri della sua famiglia, ci campava. Il problema era: ce la faccio io a decidere di fare il fotografo e campare solo con questo? Ha avuto un paio di proposte importanti all’epoca, per esempio da Magnum. Era già professionista, ma l’idea che questo gli facesse fare un salto esistenziale e di collocazione nella fotografia internazionale l’ha fermato. Qui il dialogo con Romeo Martinez a Venezia una sera, di cui si è più volte parlato al riguardo. 

 

MB– Trovo che la forza di Berengo Gardin non stia nelle singole fotografie, ma nella costanza con cui attraverso i libri ha ritratto l’Italia, e non solo, con una continuità incredibile: è un fotografo di album.

 

FS– Questo apre il capitolo delle sue recriminazioni che durano da anni: i giornali non mi fanno lavorare, non mi danno retta. Lui non è stato e non è un fotogiornalista. Non era adatto a quel tipo di lavoro. Ha incontrato a un certo punto il libro come un mestiere tranquillo. Ha fatto un numero altissimo di libri, un vero record, un primato: sono più di 200. Quando tu dici Gianni è nei suoi libri, tu parli dei libri in cui si è storicizzato, e sono una dozzina. Dal libro su Londra, per esempio, tira fuori quattro foto, da un altro due foto, e fa un libro. Ma in tutti quanti i libri c’è sempre un aspetto professionale: va Roma e fotografa per il Touring le piazze, i monumenti, ma dentro ci sono anche immagini di momenti di vita. E queste diventavano le foto di Berengo Gardin, che lui ha proposto come le proprie foto. Questi sono i libri in cui si è riconosciuto, ne rivendica solo una dozzina.

 

MB– Questa pacatezza, questa naturalità si trasferisce sul piano degli argomenti, dei temi che affronta. Al di là dei libri commissionati, c’è una continuità tematica straordinaria ai temi, una determinazione che non si trova in altri. Non somiglia ai fotografi che invece sono legati agli istanti, ai momenti particolari, le sue foto che appartengono a un tempo preciso, come dicevamo, ma escono dal tempo.

 

FS– Gianni riconosce l’influenza come tutti noi di Cartier-Bresson nel suo lavoro, ma non si riconosce nell’aspetto artistico dell’immagine eroica di Cartier-Bresson. Il maestro che cita sempre è Willy Ronis, che è il fotografo che meglio incarna il momento del Fronte Popolare. Si tratta della fotografia umanistica francese. Gianni ha avuto delle discussioni con Doisneau, perché non accettava che mettesse in posa qualcuno. La sensibilità sociale non è però la vera molla di Berengo Gardin. Lui si è sempre definito comunista. Tu pensi che le sue fotografie abbiano quello stigma? 

 

 

MB– No. Non hanno nessun stigma politico. Si coglie invece l’aspetto esistenziale di un uomo che vive nel mondo, lo attraversa, lo vede e lo fotografa. Se devo dare una sua definizione politica, direi: un comunista naturale.

 

FS– Il suo atteggiamento “comunista” nasce da un’attenzione alle persone nello spazio, nel contesto in cui vivono. Le sue fotografie non vogliono spiegare gli stridori o le adesioni. Lui vuole semplicemente raccontare il fatto. Il piccolo fatto.

 

MB– Parliamo di un aspetto tecnico che tu una volta hai sottolineato. L’uso che Gianni fa del grandangolo. Distanza e reticenza?

 

FS– Vuole guardarle meglio. In maniera più inclusiva. Se fai un confronto con Klein o altri fotografi, non vuole mai essere debitore dello strumento. Non usa il grandangolare per dare drammaticità. Ci sono fotografi che dicono: io non posso che fotografare con il grandangolare perché questo mi mette in mezzo alla vita. Altri dicono il contrario, perché questo strumento prevarica la naturalezza della vita. Rende drammatico quello che drammatico non lo è. Gianni non vuole essere drammatico, ma inclusivo. Prendi il lavoro ultimo, quello dedicato alle navi da crociera che entrano in Venezia. 

 

MB– Le ha fotografate per renderle immense dentro Venezia. Fa qualcosa di innaturale per renderle realistiche.

 

FS– Penso che sia una performance anche tecnica straordinaria. Si può pensare che per ottenere questo risultato abbia utilizzato dei teleobiettivi per schiacciare il rapporto case-nave. Per rendere la nave da crociera aggressiva. Ne abbiamo parlato e mi ha detto: se usi il teleobiettivo ti mangi le case. Io volevo che le due cose, navi e case, avessero un rapporto tra di loro, che sottolineassero l’innaturalità del rapporto tra loro. Ha fotografate le navi con obiettivi normali, qualcuno con il grandangolare, per stabilire questa diversità abnorme di dimensioni tra le case e i natanti. Questo è uno dei rari racconti esplicitamente politici di Gianni. Ha trovato la soluzione tecnicamente naturale per raccontare un rapporto innaturale. 

 

MB– Ha tagliato le immagini quando le stampava?

 

FS– Alcune sicuramente sì. Cartier-Bresson diceva: è difficilissimo, se non impossibile tagliare una immagine e migliorarla tagliandola, quello che conta è quello che hai visto. Gianni se è il caso di tagliare, taglia, ma sempre per raggiungere quella naturalezza che non era stata possibile nell’incontro diretto con l’obiettivo.

 

MB– Una sera a cena Berengo Gardin ci ha intrattenuto sulla qualità della stampa. Parlava di un libro mandato al macero perché i forse i grigi non erano venuti bene. Il problema della riproduzione tipografica, che il fotografo non controlla.

 

FS– Questo testimonia il fatto che ha una forte esigenza estetico-visiva delle sue fotografie: così stampate non dicono quello che io volevo farti vedere. Deve essere stampata bene. Non è un maniaco, ma ci tiene moltissimo. Nei libri poi crede alla fluvialità del racconto, è un fotografo da romanzo, non da racconto.

 

MB– Che narratore è in definitiva? Abbiamo detto che è un narratore dell’esistenza, della vita quotidiana. A quale scrittore lo si potrebbe paragonare? Non è Flaubert, forse è più vicino a Balzac. Una volta tu hai detto: è un antropologo.

 

FS– Sì, penso antropologo. Gli interessa la vicenda delle persone nel contesto. In sessant’anni è riuscito a creare quello che noi possiamo definire uno stile, che è fatto da tutte queste cose: naturalezza, semplicità, non prevaricazione stilistica, un grande rispetto per la materia fotografica del suo lavoro, eccetera. Ha messo insieme un affresco antropologico dell’Italia veramente impressionante. Per uno che è ideologicamente contrario a una pratica fotografica che produce icone definitive, nei suoi libri antologici, quelli in cui si riconosce di più, ci sono dentro delle fotografie che sono diventate iconiche. E al di là di essere iconiche, che hanno la perentorietà dei classici. E al di là di essere iconiche si collocano in questo flusso. Lo definirei così: il fotografo antropologico del flusso della vita.

 

MB– Un’antropologia legata a un trentennio di storia sociale italiana, dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta in particolare.

 

FS– Ti pare poco? Gianni ha un rapporto carnale con il gesto fotografico. Una volta mi ha detto: se io non sento nell’orecchio il clic della Leica venti volte al giorno, non mi sembra di avere vissuto. Questa è la sua pratica di relazione con il mondo. Io vado in giro e vedo istanti di vita che mi sembrano interessanti e scatto. Gianni crede moltissimo al fatto che le fotografie finiscono per avere un ruolo storico importante. Tante fotografie che per eccessiva contiguità con il tuo presente, tu non capisci l’importanza che hanno, con il tempo la prendono. Perché dentro l’immagine ci sono tutta una serie di segni che guardate domani o dopodomani continuano a raccontare. Ci sono dei critici internazionali che non capiscono l’opera di Berengo Gardin, sostengono che non abbia scattato delle immagini che sono memorabili, cosa che farebbe di un fotografo un grande fotografo. Credo che abbiano torto, non sanno vedere l’importanza del corpus fotografico di Gianni. Questa è la chiave di volta del suo lavoro.

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Frank Horvat: un gigante della fotografia

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La notte del 21 ottobre è morto, a 92 anni, nella sua bella casa della campagna francese, Frank Horvat.

In quell'eroico quotidiano on line di portfolio sulla fotografia internazionale che è L'Oeil de la photographie, Jacques Naudet ha dato come titolo alla notizia che era morto l'ultimo gigante della fotografia francese. 

Per la verità le biografie che si trovano su Internet lo danno come fotografo italiano. È nato infatti ad Abbazia, nel 1928, da Karl e Adele Edelstein, entrambi medici, entrambi ebrei. Allora Abbazia era in Italia, ora si chiama Opatija, ed è in Croazia. Lui ha mostrato nel suo sito una carta di identità di grazioso e febbrile studente italiano del corso di pittura di Brera, a Milano, dove visse tra il 1947 e il 1950, dopo un breve periodo in Svizzera. 

In quegli anni la storia faceva spesso cambiare nome e nazionalità a molte città. 

È sufficiente essere nato in una certa città, in un certo paese, o morire in un'altro, per definirti italiano, o francese? 

 

Horvat ha vissuto e lavorato in molti luoghi, Italia, Inghilterra, Svizzera, Stati Uniti, Francia, dove è stato più a lungo e dove ha deciso di concludere la sua vita. Di ciascuno di questi luoghi parlava perfettamente la lingua. Anche io, a dire il vero, lo penso come un fotografo francese. A modo suo francese. 

Semmai, questo cosmopolitismo che non era un cosmopolitismo definisce bene anche la speciale, poliedrica, vicenda di Horvat fotografo. Parlava molte lingue della fotografia Frank Horvat, e le parlava tutte perfettamente.

A parte gli sciovinismi e l'antropologia giornalistica di nani e di giganti, non mi pare dubbio che Horvat sia stato uno dei più geniali, affascinanti, poliedrici fino alla contraddizione, protagonisti della fotografia del ventesimo secolo.

Tanto per buttarla, come al solito, sul personale, oltre al cordoglio per una notizia che mi ha molto addolorato, per la morte di un amico e un fotografo molto ammirato, è sopravvenuto una specie di complesso di colpa nello scoprire che tra i miei tanti esercizi di ammirazione, a parte qualche breve omaggio, mai avevo dedicato a Frank uno scritto che desse conto di questa ammirazione. È certamente per questo che ho sentito la necessità di ricordarlo, almeno in questa triste occasione, sormontando la mia senile pigrizia e forse anche la difficoltà di raccontare un fotografo e un personaggio così complesso e per tanti versi centrale nella vicenda culturale della fotografia.

 

F. Horvat, Gres, Parigi, 1984.


Forse, per cercare di avvicinarsi a decifrarne l'opera e il pensiero, vale la pena incominciare da un suo libro straordinario. È un libro del 1990, pubblicato da Nathan, Entre Vues, ed è un libro di interviste, piuttosto di incontri, dialoghi, con un certo numero di grandi fotografi che facevano parte del suo pantheon personale: Édouard Boubat, Helmut Newton, Sarah Moon, Josef Koudelka, Mario Giacomelli, Eva Rubinstein, Marc Riboud, Don McCullin, Robert Doisneau, Hiroshi Hamaya, Takeji Iwamiya, Javier Vallhonrat. 

Mancava Henri Cartier Bresson, un amico che per sua ripetuta ammissione è stato determinante per la sua vocazione di fotografo e, per lunghi anni, delle sue scelte professionali. 

Ma Cartier Bresson, è noto, non amava le interviste.

 

Un fotografo che scrive di altri fotografi in un certo senso parla soprattutto di se stesso. Tanto di più in questi dialoghi con personaggi così diversi, che Frank ha costruito come specchi della sua inquieta personalità di irrefrenabile esploratore di generi e linguaggi.

Dialoghi rivelatori, in effetti, e scintillanti di intelligenza. Per questo penso che siano, queste interviste, una perfetta introduzione all'uomo e al fotografo. 

Mi torna il rammarico che, a parte qualche intervista sparsa, non sia stata fatta un'edizione italiana di questo libro, che pure avevamo più volte progettato.

 

F. Horvat, Parigi 1992, foto di F. Scianna.


Ci sono pittori, scrittori, anche grandi, che raramente brillano per la loro intelligenza. Non parliamo dei fotografi. Qualche volta viene da pensare, lo diciamo spesso scherzando, ma non troppo, con Elliott Erwitt, che l'intelligenza, come il senso dell'umorismo, siano quasi un handicap per un fotografo. Tanti ce ne sono, e di buoni, che dimostrano di potere perfettamente farne a meno. Magari l'intelligenza troppo viva può compromettere l'abbandono all'istante di certe pratiche fotografiche.

Ma a me piacciono gli artisti, gli scrittori, i fotografi intelligenti.

 

Frank Horvat è stato uno dei fotografi, degli uomini più intelligenti che io abbia conosciuto. Le sue fotografie, le sue mutabili riflessioni erano sempre intelligenti, anche quando succedeva di non condividerle. Le conversazioni con lui rimangono indimenticabili.

Horvat ha incominciato da fotogiornalista, da fotoreporter, spinto da Cartier Bresson, che lo convinse ad abbandonare la Rolleicord e il formato quadrato a favore della Leica, con la quale per anni ha girato il mondo pubblicando le sue immagini in alcune delle più prestigiose riviste del tempo. È persino stato, per un certo periodo, associato a Magnum, anche se non è mai diventato membro effettivo. Forse perché non è mai stato, non si è mai sentito, un fotogiornalista. Nonostante l'eccellenza dei risultati, molti dei quali memorabili. 

 

F. Horvat, Incontro sterile, Tokyo, 1963.


In una delle sue ultime interviste ha dichiarato addirittura che la pratica del fotoreportage, persino la parola, gli facevano orrore. Non credeva più, forse non ha mai creduto, al ruolo sociale e documentario della fotografia. Di una fotografia, ha detto, mi interessa il miracolo, il fatto che esprime la verità personale e spirituale del fotografo.

Il soggetto, il racconto; tutto il resto mi lascia indifferente. 

Non voleva più committenti, voleva essere il committente di se stesso. E lo diventò. Ma cambiò anche radicalmente gli orizzonti della sua ricerca. Produce diversi libri. A lui particolarmente caro era Trees, un'indagine quasi zen sugli alberi, sulla natura. E altri: New York up and down, a colori, Goethe's journey in Sicily. Eccetera

Nel 1999 realizza un libro molto ambizioso, Daily report, oltre trecentocinquanta fotografie scattate quotidianamente durante un intero anno in giro per il mondo. Una specie di diario a futura memoria sullo stato della vita nel mondo alla vigilia del nuovo millennio.

 

Nel 1957 incomincia una nuova avventura professionale. Per Jardin de Mode e altre riviste internazionali leader del settore si confronta con la fotografia di moda. Lo fa in maniera assolutamente rivoluzionaria e con grande successo. Come mai nessuno prima di lui, fotografa la moda con la Leica e tira fuori le modelle dagli studi asettici per portarle a contatto con la vita di strada e i suoi azzardi. Negli ippodromi, sui tram, nei caffè, "in visita" ad attori, registi, scrittori. La forma, i tagli sorprendenti, le luci palpitanti di queste immagini sono radicalmente nuove e mai visti prima. Sconvolgenti allora, classici adesso. È stata l'esperienza che più ha contribuito a dargli rinomanza e fama. Persino facendo mettere in secondo piano molte altre sue memorabili immagini.

È attraverso queste fotografie che l'ho conosciuto.

Quando ho cominciato a fare anche io per caso delle fotografie di moda, nella seconda metà degli anni ottanta, alcuni commentarono queste foto definendole moda reportage. Scoprii che identica definizione era stata usata per le foto che Horvat aveva fatto ben trent'anni prima.

 

Non le conoscevo, e ne rimasi abbagliato. Proprio come Frank quando cominciò a farle, non sapevo nulla di fotografia di moda. Tentavo istintivamente di praticare la foto di moda sovrapponendogli le forme, lo spirito documentario e narrativo del mio mestiere di reporter. Inoltre, di quelle fotografie di Frank non si parlava più da un pezzo. Un poco perché nella moda, le mode, appunto, sono effimere. Molto, credo, perché a Frank non importava più nulla di quella esperienza. Si era conclusa e basta. 

Io avevo scoperto un antesignano e un ignoto maestro. Da allora non ho mai smesso di manifestargli pubblicamente primogenitura e magistero.

Ci incontrammo, e ci siamo molto piaciuti. 

Parecchi anni dopo ad Atene abbiamo vissuto insieme un'esperienza lusinghiera e sorprendente. Nella sola grande mostra internazionale, che io sappia, dedicata a settant'anni di fotografia di moda, entrambi, e solo noi due, siamo stati invitati a proporre delle piccole mostre personali di foto di moda in quanto "innovatori" nel linguaggio di quel genere di fotografia.

 

F. Horvat, Londra autoritratto al Brick Lane Market, 1955.


Abbiamo avuto appassionanti confronti sui nostri approcci, così diversi per quanto apparentemente vicini, e sul nostro comune sostanziale disinteresse per la fotografia di moda. Per entrambi noiosa e ripetitiva e, paradossalmente, tra le meno creative. 

Poco tempo dopo smisi di farne anche io.

Oltre che intelligente era anche curiosissimo, Frank.

Nasceva la grande stagione del digitale, della fotografia digitale. Frank ne fu affascinato e si buttò a capofitto a sperimentarla. Cominciò a produrre illustrazioni mettendo insieme con Photoshop vari frammenti di immagini per produrne di nuove con le quali realizzò sorprendenti illustrazioni, alcune di favole famose. 

Non lo seguivo più. In fondo, obiettavo, si tratta di collages, ma non mi sembra che i tuoi risultati siano più persuasivi delle illustrazioni di Dorè o dei collages di Max Ernst per Unesemaine de bonté. In ogni caso, non mi sembrava che avessero niente a che fare con la fotografia. Lui era invece completamente imballato e ribatteva che si trattava di una forma di fotografia-pittura con mezzi tecnici e espressivi del tutto nuovi.

 

Poi si provò, sempre con gli stessi strumenti, a realizzare immagini che evocavano in tutto quadri famosi o immaginari. A proposito di questa serie c'è uno scambio molto interessante nel dialogo con Helmut Newton. Si conoscevano bene, per un certo periodo avevano persino condiviso uno studio a Parigi. Newton gli chiese perché dedicasse tanta energia a realizzare dei falsi dipinti. Frank rispose, con imbarazzo mi parve, che era una questione di controllo, che lui voleva essere totalmente responsabile del risultato finale dell'immagine. 

Bizzarro, rispose Newton, a me come fotografo quello che interessa è l'azzardo, l'imponderabile. 

È curioso che, anni dopo, a un intervistatore che gli chiedeva perché avesse abbandonato, senza peraltro rinnegarle, quelle ricerche, lui rispose che si era reso conto che non avevano nulla a che fare con la fotografia.

A proposito di questa ossessione del controllo, ricordo che ad Atene mi disse che secondo lui la differenza più grande tra le nostre foto di moda era che io cercavo l'azzardo, appunto, mentre a lui interessava sopratutto il controllo dell'immagine.

 


F. Horvat, Polesine, 1950.


Forse era soprattutto questo che l'aveva fatto allontanare dal reportage; da reporter aveva spesso la sensazione che le foto che faceva dipendessero eccessivamente dal misterioso incontro tra caso e necessità.

Oltre che intelligente e curioso, Horvat era un uomo coltissimo. I suoi libri sugli scultori, soprattutto Degas sculpteur, sono dei veri propri luminosi saggi critici sull'opera degli artisti. 

Nel 2008 si cimenta persino con la fotografia pornografica e pubblica Debocche, culi tette, cazzi e mone, una saporosa illustrazione dei poemi di Zorzi Baffo.

Negli ultimi anni si è dedicato soprattutto a scegliere le fotografie che definiscono la sua opera privilegiando soltanto quelle dove lui riconosceva "il miracolo", senza relazione particolare con il soggetto. 

Solo quelle considero che siano fotografie di Frank Horvat.

A una domanda su che cosa lo spingesse a fare una fotografia, molto di recente, lui ha risposto: ieri è venuta a trovarmi una signora. L'ho vista in fondo alle scale con una bellissima luce che la colpiva. Ho tirato fuori la macchina e ho fatto una fotografia.

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Il Covid-19 e la nuova visione del mondo

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Covid-19. Pandemia. Coronavirus. Lockdown. Sono termini con i quali abbiamo imparato a convivere negli ultimi nove mesi. Durante questo periodo un virus invisibile è circolato mentre l’uomo è stato costretto a rinchiudersi in casa. Una condizione impossibile da credere prima poiché mai l’essere umano avrebbe immaginato di non poter disporre della propria libertà di movimento a causa di qualcosa che non è possibile vedere. Come è stata vissuta questa esperienza nell’ambito della fotografia, linguaggio da sempre utilizzato per raccontare cosa succede nel mondo?

Alcuni festival hanno deciso di esserci. Organizzativamente tutto si svolge garantendo al pubblico una fruizione che non faccia sentire troppo la differenza tra il prima e il dopo, ma un cambiamento appare inevitabile e irreversibile e non riguarda le regole comuni del distanziamento cui ci stiamo abituando bensì un altro tipo di distanza che fotografi e organizzatori non hanno percepito, travolti dall’essere “dentro” gli eventi e dunque non in grado di guardare con il distacco necessario di chi osserva ed elabora. 

Cortona On The Move, SI Fest, il Festival di Fotografia Etica di Lodi sono solo alcune delle principali manifestazioni attualmente in corso, tutte hanno acceso i riflettori sull’interpretazione che fotografi professionisti e non hanno restituito di questo vissuto per molti aspetti straniante. Si possono vedere esposizioni di immagini dal vero e online che mostrano lo smarrimento del non sapere come affrontare la vita quotidiana ma i risultati, nella maggior parte dei casi, non riescono ad avere una funzione di vero approfondimento.

 

© Simon Norfolk, “Lost Capital”, The Covid-19 Visual Poject – Cortona On The Move, 2020.


Ciò che emerge dalla visione di queste narrazioni è che ognuna di queste realtà si è sentita spinta verso la necessità di documentare ciò che è accaduto e sta ancora accadendo in una modalità che ci fa domandare: ha ancora senso farlo così? Ha senso raccontare nello stesso modo di sempre gli eventi? Cosa possono aggiungere immagini puramente illustrative a un vissuto del quale non si percepisce la sostanza?   

Le direzioni artistiche si sono concentrate su autori che hanno rappresentato stati d’animo descrittivi oppure si è scelto di lanciare contest liberi all’interno dei quali sono state fatte scelte necessariamente povere di contenuto, non perché gli autori tutti non fossero all’altezza ma perché la condizione dell’evento in corso non ha permesso di interpretare.

Non è difficile fotografare le città vuote con inquadrature pulite e asettiche nel corso di una pandemia mondiale che costringe gli individui a restare a casa. È normale che le strade di città come la Londra fotografata da Simon Norfolk in “Lost Capital” o come la Firenze di Edoardo Delille in “Silenzi” – dove l’autore stesso dice: “Mi sono ritrovato in una città quasi spettrale nella sua rinnovata bellezza” – risultino metafisiche, con strade e piazze dechirichiane, belle esteticamente (entrambi gli autori sono presenti sulla piattaforma The Covi-19 Visual Project concepita da Cortona On The Move).

E proprio il prevalere dell’estetica non ci dice nulla dell’angoscia che si sta vivendo nelle case, le immagini patinate non riescono ad andare oltre l’esclamazione di meraviglia per l’improvvisa bellezza. L’obiettivo del fotografo si concentra su aspetti scenografici dove la perfezione dell’inquadratura, della luce del tardo pomeriggio che lambisce le calme acque del Tamigi fanno riscoprire una città perduta, appunto, ma che non emoziona.

 

© Edoardo Delille, “Silenzio”, The Covid-19 Visual Poject – Cortona On The Move, 2020.


“Ho scelto di scattare nelle ore del giorno in cui di solito le vie del centro sono piene di persone. – dice ancora Delille – Le ore in cui di solito è difficile fare una bella fotografia all’architettura dei monumenti. La luce molto cruda di queste giornate svela ancora di più l’assenza dell’uomo”. Come non può essere altrimenti poiché per poter fare questo tipo di fotografia l’uomo deve giocoforza essere assente. La novità per Delille starebbe nell’ora in cui ha prodotto gli scatti, quando normalmente le persone invadono i luoghi, ma questo dal lavoro non appare così evidente. Inoltre l’ultima cosa che, a mio parere, possa stimolare la sensibilità dell’osservatore in un momento come questo è la bella fotografia di un monumento senza presenza umana. Siamo certi che questo tipo di immagine rappresenti davvero il Silenzio, presumibilmente intimo, cui allude il titolo del lavoro?

Il vuoto urbano con tutto il suo portato di silenzio inaspettato è certamente una condizione cui nella contemporaneità non siamo più abituati, un tema di sicuro impatto visivo ma che per poter emozionare ha la necessità di essere “sporcato”, di appartenere a quel vero che nulla ha di estetico, tant’è che la restituzione che queste immagini ne fanno è una rappresentazione scenica che appare costruita.

L’uomo si auto-espelle dal luogo come atto dissacrante per recuperare il luogo stesso così come egli lo ha concepito e riempito. In tal senso si veda il lavoro “Locked in Beauty” di Paolo Wood e Gabriele Galimberti, sempre sulla stessa piattaforma, dove la scena che viene rappresentata è quella di un museo vuoto in cui le opere scultoree dialogano con la propria ombra (che diviene anche l’ombra dell’autore). Ancora un’idea di “bello” che emerge attraverso l’assenza dell’umano. Che messaggio arriva con questo tipo di immagini? La sensazione è quella che l’uomo non sia più degno di calcare queste scene e dunque che la sua assenza è auspicabile affinché si possa apprezzare ciò che egli stesso ha creato.

 

© Paolo Wood e Gabriele Galimberti, “Locked in Beauty”, The Covid-19 Visual Poject – Cortona On The Move, 2020.


C’è poi un altro tipo di estetica, quella della solitudine delle persone lasciate sulla soglia degli ospedali e riviste soltanto molto tempo dopo, se non addirittura mai più. Come si elabora una tale tragedia? Come la si rappresenta? Alex Majoli percorre l’Italia intera colto da una irrefrenabile frenesia di documentare queste solitudini: cosa accade per le strade delle periferie, nelle sale degli ospedali, nelle chiese vuote. 

Racconta, Majoli, con la sua abituale professionalità che sfocia in un crudo bianco e nero, come sia partito casualmente da Reggio Emilia per arrivare fino a Palermo.

 

© Alex Majoli, “Covid on Scene”, The Covid-19 Visual Poject – Cortona On The Move, 2020.


“Una volta – dice – un servizio così l’avrei fatto con 80 rullini, 2.500 scatti. Oggi, ovviamente, non ha neanche senso contarli. Alla fine, comunque, restano un’ottantina di immagini e una cinquantina sono il prodotto finale”. La conta degli scatti che compongono il “prodotto”, anche qui: le parole del fotografo sono asettiche, allontanano invece di avvicinare. Cinquanta scatti per documentare un evento epocale sono molti, sono pochi? Che importanza ha? Il “servizio” di cui parla Majoli appare espressione davvero straniante in una condizione come questa. Il desiderio  di rubare momenti di disagio insito in ciascun reporter che si rispetti impedisce anche in questo caso di restituire una pietas che permetta di recuperare l’uomo. Di vicende che segnano un periodo nella Storia dell’umanità parla ancora Majoli, e della responsabilità di cui tener conto, mentre si scatta, di mostrare ciò che egli già chiama la Storia. Eppure la storia non è di per sé estetica o caravaggesca, come qualcuno ha già definito questi suoi scatti.

 

IDE. Identity Dialogues Europe è il contributo del SI Fest alla narrazione del vissuto in tempo di pandemia. Una narrazione che collega quattro diverse città Europee – oltre a Savignano, Copenhagen, Amsterdam e Saragozza – tesa verso la ricerca di una “identità” che pare essersi perduta. L’Europa, il continente più di ogni altro rimasto attaccato alla propria storia e alle proprie tradizioni, scopre di non avere più radici, di stare vivendo un’importante evoluzione dal punto di vista antropologico grazie alla forte migrazione dall’Est e dal Sud del mondo. 

 

© Marine Gastineau, Residenza Savignano sul Rubicone per IDE. Identity Dialogues Europe – SI Fest 2020.


©Katerina Buil, Residenza Savignano sul Rubicone per IDE. Identity Dialogues Europe – SI Fest 2020.


Osservando però le loro immagini la sensazione è che questi autori non sappiano come mostrare né dove cercare tale “nuova identità” e che questa, oggettivamente molto complessa, non possa passare che attraverso i volti e le azioni quotidiane dei soggetti ripresi, rappresentati in modo anche qui “scenografico” nei luoghi in cui vivono, si tratti di comunità stanziali straniere, come quella senegalese che da 10 anni vive a Savignano sul Rubicone fotografata da Marine Gastineau (1983, Francia) o quella dei rifugiati con le loro storie estreme vissute ai confini tra le nazioni che compongono il mosaico europeo e ritratti da Martin Thaulow nei suoi dittici (1978, Danimarca). Lo smarrimento entra a far parte dell’immagine restituendo l’impossibilità stessa del narrare poiché l’immagine pare aver esaurito qui la propria funzione. Non appare la verità dell’identità che forse mai più vedremo perché non c’è più. C’è la “storia” al centro, come dice Thaulow a proposito del suo lavoro che non vuole appaia veritiero (intende puramente documentale?), ma che fonde il documentario con la costruzione di uno spazio più artificiale, mettendo nel mezzo il racconto delle storie delle persone. Una vera e propria rappresentazione con tanto di scena e personaggi. 

Dunque dove e come possiamo vedere questa nuova identità? Si tratta dell’interpretazione dell’autore che trasforma la storia stessa per cercare di ottenere l’attenzione di un pubblico atrofizzato da tempo: “È più una scelta artistica – dice Thaulow – che gioca con il tempo, lo spazio e le realtà parallele esistenti”. La casa sicura, con luci calde e una televisione accesa, vista in relazione a Maher profugo siriano che cerca di sopravvivere in un letto d’ospedale, uno dei suoi dittici più forti.

 

Il Festival della Fotografia Etica di Lodi infine include il Comune di Codogno nel circuito delle mostre ufficiali e lo fa con una collettiva dal titolo “La vita al tempo del coronavirus”. Pur con tutto il rispetto per il pesante tributo pagato da questa cittadina, scintilla che ha acceso nel nostro Paese la polveriera esplosa a primavera, non si ravvisa in queste immagini nulla che non sia puramente documentario. Mi si potrebbe obiettare che questa è da sempre la mission del festival: raccontare cosa accade nel mondo attraverso il reportage. Ma cosa ci racconta l’immagine di un operatore sanitario riverso sulla tastiera di un computer distrutto per il troppo lavoro che già non siamo in grado di immaginare? 

 

© Francesca Mangiatordi, “La vita al tempo del coronavirus”, Festival della Fotografia Etica, Lodi 2020.


La questione è che la domanda principale che ci si dovrebbe porre è: cosa significa etica? Perché la selezione fatta mostra per lo più storie in cui compaiono situazioni di denuncia, di fatti che avvengono in un mondo “brutto”. Questo non ci aiuta a capire né i fatti stessi né il vissuto dei soggetti ritratti. Non ci aiuta ad essere più sensibili di quanto già non lo siamo, ma soltanto più impotenti e, in ultima analisi, meno propensi al coinvolgimento poiché non ci viene restituita nessuna condizione di “buone pratiche” ma solo fatica e dolore. 

L’etica tocca temi e situazioni in cui l’essere umano sviluppa un comportamento che dovrebbe andare nella direzione opposta: mostrare contenuti che infondano fiducia nell’uomo, una positività che aiuti a guardare il futuro in modo costruttivo. Le narrazioni presenti in queste mostre sono invece ancora una volta, in tal senso, povere di coraggio, descrittive, timide e non basta la discrezione del fotografo nel compiere il proprio lavoro a far sì che si tratti di lavoro “etico”.

 

La bellezza, intesa come atto etico al di fuori dell’inquadratura estetizzante, è presente a Lodi e lo è in un lavoro che non a caso si intitola Pathos del fotografo italo-svizzero Giorgio Negro il quale, con autentico comportamento etico, ha attraversato il vasto territorio sudamericano non con l’intento di documentare, non con quello di mostrare la negatività bensì semplicemente con quello di ritrarre l’uomo nel suo mondo. Senza giudizio alcuno, Giorgio Negro ha fotografato una realtà senza filtri, cosa non facile per un professionista della mediazione in situazioni di guerra o di pesante disagio quale egli è stato per venticinque anni della sua vita lavorando per la Croce Rossa Internazionale. Ma in effetti Negro non è un fotografo professionista, non fa la conta degli scatti che gli permetteranno di confezionare il “prodotto di un servizio”. Il suo unico intento è stato (ed è ancora) quello di errare in questi luoghi nei pochi momenti di respiro che il suo pesantissimo lavoro gli concedeva osservando con i “suoi occhi”.

 

© Giorgio Negro, “Pathos”, Festival della Fotografia Etica, Lodi 2020.


Pathos ci dice che oggi più che mai occorre tornare a fare “spazio” dentro di noi. L’enorme quantità di immagini con cui, in questo momento storico, chi pratica la fotografia si è sentito in dovere di invadere il web e i luoghi fisici che hanno potuto esporla è arrivata a un punto di non ritorno, al momento in cui gli occhi si rifiutano di guardare. Persino la fotografia documentaria, etica o meno che sia, deve darsi una battuta d’arresto. Cosa aggiungono milioni di visioni riversate nella rete a un vivere quotidiano fatto sempre più di incertezza? Nulla. Rimane, forse, soltanto il conforto di essere (o sembrare di esserlo) uniti nella disgrazia. Analogamente all’elaborazione di un lutto, comprendere cosa accade non appartiene alla sfera del fare ma a quella dell’ascoltare, in primis la propria coscienza.

Non è più questo il tempo di mostrare ogni cosa, soprattutto non è più questo il tempo dell’accumulo. Le immagini si ripetono tutte uguali, omologate a un senso del guardare che non riesce ad andare oltre. Ma la soluzione è semplice quanto inaccettabile per una forma mentis ove tutto appare affastellato, senza ordine alcuno. Trovare “interessanti” immagini che registrano le reazioni alla pandemia nel mondo appare nella maggioranza dei casi un esercizio fine a se stesso.

C’è un tempo di elaborazione che non può prescindere dal tempo stesso. Voler tornare alla “normalità” praticando una corsa vertiginosa alla documentazione non conduce più a una riflessione, bensì a scorrere gli elementi di un file virtuale che possiamo aprire e chiudere quando vogliamo. Qual è allora l’identità da recuperare di cui stiamo parlando? Qual è la nostra identità? Occorre guardare con i propri occhi, quelli che non conosciamo più.

La fotografia non può essere solo racconto di storie, deve educare al dolore ma anche alla gioia, a tutte quelle sfumature dell’amore e della passione che ancora ardono sotto le ceneri per poterle risvegliare. Se da una mostra usciamo incolumi, che senso ha averla vista? Guardare belle immagini anche commoventi ma che non lasciano tracce e ci fanno dire soltanto “bello” e “interessante” non ci restituisce nulla che assomigli a una riflessione. E allora è forse giunto il momento di chiuderli, gli occhi: “Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti” diceva Marisa Merz in una sua mostra di quarantacinque anni fa: un tempo lontano? Un tempo finito? Forse un tempo mai cominciato.

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Franco Vimercati. Tête à tête con la zuppiera

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Una zuppiera è una zuppiera è una zuppiera potrebbe essere il titolo di una delle più famose serie fotografiche di Franco Vimercati. Il fotografo ed artista milanese la realizza dal 1983 al 1992. Per dieci anni non fa altro che inquadrare questo oggetto e riprenderlo in molti modi diversi: a fuoco, sfuocata, grande quanto il formato della foto, più piccola, che emerge da un uniforme sfondo nero, ruotata sul proprio asse a differenti gradazioni, riassorbita dal bianco dello sfondo. È una piccola zuppiera sbrecciata e consunta dall’uso; la forma arrotondata e la patina opaca la rendono un oggetto immediatamente familiare, quasi legato alla terra, alla civiltà agricola, ricorda il fotografo. 


La serie di circa cento scatti scatena immagini ipnotiche la cui potenza attrattiva non è affatto facile da spiegare. Sono semplici, consuete, ordinarie, eppure l’intelligenza visiva di Vimercati riesce a farne un racconto adatto per tutti gli sguardi, anche per quelli più distratti e incapaci di concentrazione. È come se dicesse: “io so chi si nasconde dietro il tuo volto, conosco la tua frenesia; so come sei frettoloso, come pretendi di comprendere ogni cosa e come sei insofferente all’attesa. Io ti dimostrerò che ciò che ti sembra un inutile spreco di tempo può dischiuderti una possibilità, che potrebbe non essere semplice, né tantomeno confortante”. 

 

Un primo aspetto da considerare è la precisione. Il campo dell’inquadratura si restringe in modo che l’assoluta pulizia dei dettagli restituisca la composizione dei materiali, il sapiente uso delle linee e delle geometrie. Ma l’esattezza non coincide con la verità. Sembra che questi oggetti non possano essere attraversati dallo sguardo, concedono solo di essere osservati. Sono pura esteriorità, significativi in quanto espressione di puro segno, ipotetici ed incerti inneschi per altre ipotesi di pensiero. Il fotografo esalta l’esattezza come una qualità da ammirare e non come veicolo di una verità alla quale non ambisce. 

 

Un altro aspetto è la frontalità. Zuppiere, vasi, orologi sono ripresi frontalmente. Come suggerisce Olivier Lugon, la frontalità si dimostra un segno, più che uno strumento per documentare: “veicola meno informazioni di altri tipi di inquadratura, ma tende ad assumere lo statuto di immagine-tipo, che renderebbe superflue le altre; restituirebbe l’immagine indicativa dell’oggetto, che le riassume e le annulla tutte”. Perché allora in Vimercati la frontalità e la precisione non sono sinonimi di chiarezza e leggibilità? 

I suoi oggetti sono come segni di un alfabeto non ancora decifrato. Viene quindi da chiedersi per quale ragione la forma fotografica di Vimercati, quasi uno strumento d’archivio, un approccio il più possibile meccanico, riesca ad assumere una forma d’arte.

 

Franco Vimercati, Senza titolo (Zuppiera), 1991 gelatin silver print 17.7 x 22.5 Ed. 6 + 3 AP Courtesy Archivio Franco Vimercati, Milano e Galleria Raffaella Cortese, Milano; © Eredi Franco Vimercati.


La risposta forse sta in un terzo elemento, la serialità. Marco Scotini, il curatore della mostra in corso alla galleria di Raffaella Cortese a Milano, nel saggio introduttivo al catalogo riporta un appunto a penna di Vimercati dell’agosto 1991: “il vero ‘contenuto’ del mio lavoro è la ripetizione. La ripetizione ostinata, cattiva o assente, malinconica o violenta, ma solo e sempre ripetizione. In ogni caso, il non voler dare spettacolo, il non essere accomodante, grazioso, ragionevole. Il non voler proporre quesiti intelligenti, raffinati esercizi di stile. Cerco di essere il più semplice possibile proprio perché la protesta sia il più efficace possibile. Deve essere secca e penetrante come un chiodo senza dispersione di nessun genere”. 

Questo appunto autografo spiega come la serialità sia divenuta una qualità autonoma, qualcosa di più e di diverso della sommatoria dei singoli oggetti. Se l’oggetto è sinonimo di concentrazione, la serie rimanda all’idea di accumulo, dà forma a una struttura, un ordine, una direzione, oltrepassa peso e volume, è metafisica. 

 

L’attenzione si sposta dal risultato per focalizzarsi sul processo. La ripetizione rende lo stesso oggetto via via più misterioso e più denso di significati; l’immagine interroga se stessa e lo stesso mezzo espressivo. La coazione a ripetere induce una tensione: cosa vuole dire Vimercati? E l’identità dell’oggetto, inoltre, la famosa zuppiera, ad esempio, è così dettagliatamente zuppiera che davvero dev’essere una zuppiera? Cosa vuol dire, poi, davvero

 

La risposta si può trovare in un’altra sua serie intitolata Un minuto di fotografia, realizzata nel 1974. Le lancette di una sveglia segnano le 2:46. Vimercati ripropone lo stesso scatto ogni cinque secondi, tredici volte, per un minuto di tempo. 

Se nella serie delle Trentasei bottiglie d’acqua minerale del 1975 c’era una traccia del mondo esterno, riflesso sul vetro, nel caso della sveglia tutto è condotto all’estremo. Vimercati giunge per sottrazione all’essenza del suo lavoro: la forma del tempo. E se un orologio fermo suscita una storia, nel senso che spinge a chiedersi perché si è fermato, cosa è accaduto prima che si fermasse, cosa potrebbe accadere se dovesse ripartire, un semplice minuto di tempo nega la possibilità del racconto, perché costringe alla meccanica osservazione della pura dimensione temporale. 

 

Ma il tempo non è sinonimo di storia. Non può esistere una fotografia di documento perché non esiste una realtà che valga la pena di essere documentata. Vimercati ha visto abbastanza del vecchio ordine. In una intervista a Elio Grazioli, la sua visione della storia trasmuta in un minimale programma politico-esistenziale: “bisogna resistere ad Auschwitz, al nucleare e alla Nike: questo è il problema. Tenere il motore acceso anche se al minimo. A questo punto cosa racconti è nettamente secondario, ciò che conta è esserci, cioè fare. Faccio una fotografia solo per poterci “lavorare” per dire “ci sono”.” 

A suo modo, ha rimesso tutto in discussione, ha ricominciato di nuovo. Le sole persone che Vimercati ha fotografato nel 1973 sono coloro che abitavano in un paesino della Langa dove andava in vacanza con la famiglia. La figura umana scompare completamente dal suo orizzonte.

 

Franco Vimercati, Vaso (o Le Temps retrouvé), 1982 Series of 6 photographs, gelatin silver prints 26 x 26 cm (each) Ed. 12 + 3 AP Courtesy Archivio Franco Vimercati, Milano e Galleria Raffaella Cortese, Milano; © Eredi Franco Vimercati.


La casa diviene l’unico luogo abitabile, uno spazio chiuso colmo di forme senza alcun contenuto introspettivo, commemorativo o esortativo. Uno spazio chiuso in cui anche il tempo è denso e sospeso, incombente e ingombrante, proprio come lo spazio, che ha la forma seriale degli oggetti domestici. 

 

Si può solo contemplare, immergersi in un tempo che ha perduto insieme alla linearità qualsiasi forma di trascendenza. Un minuto di fotografia equivale a dieci anni in cui ci si può concedere di fotografare una zuppiera. 

Il fotografo non va in cerca di imprevisti o rivelazioni. I suoi oggetti stanno fra il ready-made e l’object trouvé. Egli sta di fronte al proprio mondo domestico e il mondo sta di fronte a lui, si tratta solo di verificare la consistenza visiva dell’oggetto. Né esperienza, né memoria storica. Il passato e il futuro sono coniugati al presente, affinché all’orizzonte non possa comparire mai alcuna delusione.


Solo la continuità disinteressata della contemplazione restituisce il senso dell’apparente immobilità del tempo e insieme del suo trascorrere. “La contemplazione è dare attenzione a qualche cosa, nel lavoro tu devi dare attenzione a quello che fai, devi misurare la temperatura dello sviluppo, l’intensità della luce, l’annerimento di una superficie, eccetera. Non è semplice stampare una fotografia. Se sviluppi un minuto di più, cambia… il sapore, cambia di senso. Occorre un’attenzione, una contemplazione anche nell’operare”, afferma Vimercati.

 

Una serie di gesti che coincidono con il tempo dell’esecuzione, che è l’unica cosa che conta, come in 4’33’’ di John Cage. E per Vimercati il tempo dell’esecuzione è quello della fotografia. Contemplare il tempo significa esplorare le potenzialità del medium, poiché la fotografia non è rappresentazione del mondo, ma riflessione sul proprio linguaggio, come accade con le Capovolte (1995-1997). Si tratta di oggetti che nel fotogramma appaiono rovesciati: un frullatore, una moka, una bottiglia, una grattugia.

Le immagini si proiettano sul fondo della macchina fotografica esattamente come si proiettano capovolte sulla retina dell’occhio umano. Vimercati arresta il processo prima di farle apparire dritte e mostra il puro fenomeno del formarsi dell’immagine. 

 

Franco Vimercati, Senza titolo (Piastrelle), 1975-2020 Series of 6 photographs, gelatin silver prints 27.5 x 27.5 cm (each) Ed. 6 Courtesy Archivio Franco Vimercati, Milano e Galleria Raffaella Cortese, Milano; © Eredi Franco Vimercati.


La traiettoria creativa di Vimercati, scrive Stefano Chiodi, “ha coinciso con l’affermazione della fotografia come mezzo artistico, in particolare nelle pratiche dell’arte concettuale tra anni ’60 e ’70 del secolo scorso. In quel contesto la fotografia diviene uno strumento essenziale per scandagliare il rapporto tra rappresentazione e mondo visibile, per evidenziare caratteri, potenziali latenti”. 

 

Così avviene anche per gli artisti amati dal fotografo: Robert Ryman, Sol LeWitt, Enrico Castellani. In loro Vimercati ammira il saper ridurre la pittura al far pittura, la precisione di un’idea acuita al massimo, perfetta, che può essere ripetuta all’infinito senza correre il rischio di trasformarla in banalità. 

 

Anche la passione per l’arte islamica, afigurativa, è un modo per celebrare la forma che da sempre predilige: “un lavoro che ormai non ha più connotazioni temporali, ma si estende all’eterno, all’infinito; questi disegni sono limitati per forza dallo spazio, ma tendenzialmente vanno verso l’infinito, non hanno la finitezza”, afferma Vimercati. Sembra l’eco montaliano di Quasi una fantasia

 

Penso ad un giorno d’incantesimo 

e delle giostre d’ore troppo uguali 

mi ripago.

 

Mostra: Franco Vimercati, Un minuto, a cura di Marco Scotini. Galleria Raffaella Cortese, Milano dal 30 settembre al 5 dicembre.

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