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Robert Smithson: “Let Asphalt Flow!”

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Qui, nei paraggi di Roma, sembra estate sebbene il calendario segni 15 ottobre 1969. In cima a questa collina abbandonata fa caldo a causa delle macchine di cottura con le loro materie prime, i gas caldi e un fumo nero che incenerisce il cielo. La puzza di catrame è forte quanto il rumore prodotto dalla macinazione.

Non si vede un granché da questo pendio brullo – un vero e proprio nonsite. Lontana è la Roma che ho visitato nel 1961, la Roma storica, la Roma dei monumenti dove storia ed eternità si rincorrono in un gorgo senza fine.

L’idea di venire fin qui è stata del gallerista Fabio Sargentini, quando ha realizzato che dentro le mura cittadine non avremmo mai trovato uno spazio adatto alla mia idea, neanche nel suo garage, una galleria d’arte underground che ha chiamato L’Attico. 

Il mio intervento si è chiarito poco a poco: all’inizio c’era giusto un’immagine, una colata di lava, un fluido viscoso e nero che scivola verso il basso. Qualcosa che cade e la cui conformazione finale è data solo dalla forza di gravità, in assenza di qualsiasi intervento umano. Una scultura che si fa da sola o meglio che è fatta dal – e assieme al – paesaggio. Ridotto al minimo è il mio intervento; rispetto a Robert Morris e Richard Serra, a interessarmi è il processo di produzione più che la forma finale. Che il processo faccia il suo corso!, mi dico e così suggerisco ai quattro testimoni romani – di più non ne volevo. Per gli altri ci saranno il film Rundown e le fotografie.

 

Qui a Cava di Selce (come si chiama questa frazione nel nord-est di Roma vicino via Laurentina), mi limiterò ad alzare il cassone ribaltabile del camion con una leva che aprirà il portellone posteriore. Quindici quintali di catrame bollente si verseranno e spargeranno lentamente giù per la collina, seguendo la pendenza e le anfrattuosità del terreno. Una scia nera di cui non potremo far altro che seguire la metamorfosi qui dall’alto, allo stesso modo in cui si assiste a un naufragio coi piedi saldi sulla terraferma o, meglio, a un’eruzione vulcanica. In una terra come quella italiana piena di vulcani ancora in attività, creare un’eruzione artificiale mi sembra una buona idea. Per questo a L’Attico ho portato, assieme agli specchi, della cenere vulcanica.

Il blob bituminoso sarà preso in una metamorfosi incessante finché, seccandosi, non resterà che una impronta dell’erosione per così dire, un fossile dei tempi a venire. Mi diverte pensare a quegli archeologi del futuro che si romperanno la testa sull’inusuale quantità di asfalto trovata in questa zona, unica traccia superstite del mio intervento o forse di tutta la mia opera.

Asphalt Rundown, questo il nome, è il primo di una serie che continuerò appena tornerò negli Stati Uniti e che vorrei chiamare “pouring”.

 

Robert Smithson, Asphalt rundown, Archivio lattico, Fabrio Sargentini.


Da questa periferia urbana la Città eterna è invisibile, quasi scomparsa a causa di un’improvvisa calamità. Ricordo come fosse ieri che nel 1961, quasi dieci anni fa, ero venuto in visita a Roma per tre mesi. Era estate e c’era un’atmosfera torrida da città decadente, da fine impero – “Rome is still falling” scrivevo; ma anche: “I am a modern artist dying of Modernism”.

L’arte europea era per me l’antecedente del modernismo. Pensavo alla storia dell’arte in modo schematico ed eurocentrico. Di Roma avevo un’immagine archetipica, come se fosse la radice – o meglio l’ombelico – della civiltà europea, il mundus che si è spalancato nel terreno per metterci in contatto con un abisso sotterraneo e ctonio. 

Mi piacevano le catacombe, i dipinti di Botticelli, gli affreschi di Pietro Cavallini a Santa Cecilia, con quegli angeli che, grazie alle loro ali screziate, diventavano creature fantastiche provenienti da un altro pianeta. M’interessava il modo in cui la religione ha influenzato l’arte nella civilizzazione occidentale.

Così ho trascorso quell’estate a fare il periplo di chiese e monumenti – una vera e propria cura d’intossicazione! Al punto che, preso a fare i conti col passato, di arte contemporanea ne ho vista ben poca, anche se tutti mi dicevano che il centro di Roma pullulava di gallerie e giovani artisti. A La Salita c’era persino una collettiva del Gruppo Zero. In questi giorni mi parlano di un nuovo movimento, l’arte povera; alcuni protagonisti espongono con me alla collettiva di Harald Szeemann a Londra, Live in Your Head: When Attitudes Become Form.

 

Sempre a Roma ho tenuto la prima mostra personale della mia carriera, nella galleria di George Lester, un americano trapiantato a Roma: ventiquattro opere tra collage, tempere e olii su carta. “Mostri goyeschi” li ha chiamati un giornalista italiano – e forse ci ha visto giusto. Mi ha fatto capire che, in fondo, non era la religione a preoccuparmi. Non era attraverso il cristianesimo che potevo risolvere i miei problemi col modernismo. Mi sono messo a raffigurare santi accanto a distributori di benzina, Giovanni Battista accanto a King Kong. Finché nel 1965, appena ho colto la lezione, ho cominciato a fare arte di testa mia.

E da allora – e Asphalt Rundown ne sarà una prova – la geologia ha cominciato a interessarmi più della teologia. 

 

Robert Smithso a Roma.,


Difficile dire da dove mi sia venuta l’idea del “pouring”; non saprei neanche dire se si tratta di scultura, opera site-specific, land art, earthwork. Tutti nomi, tutti fallaci. Di sicuro non sarà una performance. 

Qui in Italia, c’è da giurarci, non ci sarà mai una Land art: il paesaggio è troppo antropizzato, privo di quelle distese a vista d’occhio del paesaggio americano. Eppure in questa cava abbandonata potrei essere nel New Jersey, a due passi da Passaic dove sono nato. Due luoghi agli antipodi ma tangenti, entrambi paesaggi entropici, entrambi paesaggi di rovine. Che Passaic sia la nuova Città eterna? 

Quelle di Passaic sono rovine all’inverso, lontane da quelle romantiche, in cui le costruzioni industriali vanno in rovina prima di essere terminate, si manifestano come rovine già in fase costruttiva. Diverse le vestigia romane, uniche nel loro genere: si presentano come tagli geologici e stratigrafici di epoche diverse, tutte leggibili in verticale. 

A proposito, il prossimo anno vorrei scrivere una storia in cui fotografie di pietre e fossili si alternano a un testo sulle ere geologiche. Sarà disposto in verticale, come se ogni paragrafo costituisse una discesa negli strati della Terra.

Nelle rovine di Roma, dicevo, niente è andato distrutto, tutto si è preservato sotto lo strato successivo. Qui il tempo si mostra e si lascia leggere nella sua complessità, nella sua vertigine. Quando ero a Roma nel 1961, oltre a leggere Il Pasto nudo di William Burroughs, T.S. Eliot o Ezra Pound nel fresco delle chiese barocche, ero affascinato dalle riflessioni di Freud in Il disagio della civiltà. In quelle pagine Roma si faceva immagine della mente, l’archeologia dell’inconscio, la geologia – aggiungo io – dei processi psichici.

 

Sleeping venus, Giorgione, 1964.


Ricordo bene l’impressione che suscitò su di me la scultura di Michelangelo: quelle figure prese in un turbine di dissoluzione e corruzione, quella massa quasi informe che resiste all’elevazione verticale della salvezza. Ne ho parlato con Peter Hutchinson, uno dei pochi artisti americani ad aver colto nel manierismo un linguaggio contemporaneo, molto più contemporaneo di tante opere d’arte esposte oggi nelle gallerie.

Nelle sculture e nelle architetture di Michelangelo, io e Peter ritroviamo una sorta di manierismo astratto. L’astrazione è, prima di tutto, materia grigia, cosa mentale; la sua materialità è inorganica, lontana dall’antropomorfismo nascosto dei pittori dell’Espressionismo astratto, che si tratti di Pollock, de Kooning o Newman – “one paints with the brain, not with the hand”. Per questo con Asphalt Rundown non ho alcuna intenzione di fare un Pollock en plein air

Per me il manierismo ha a che vedere meno col barocco che con l’astrazione, anzi per me il manierismo non è neanche un movimento storico ma una soluzione ai problemi irrisolti del modernismo, uno dei tanti. Così pensavo quando scrivevo What Really Spoils Michelangelo’s Sculpture, il mio primo articolo dedicato a un artista non contemporaneo che volevo pubblicare su “Art Magazine”.

I Prigioni di Michelangelo hanno una massa tale che sembrano in bilico, in procinto di cadere dal piedistallo come macigni da una montagna in frana. Un’idea di caduta propria alla storia della scultura, sin dal corpo senza vita di Cristo che posa sulle ginocchia della madre nelle Deposizioni. A volte immagino che, della scultura, non resti altro che il cadere, altro che il collasso, altro che un gesto di de-creazione. Asphalt Rundown sarà anche questo.

Inforco gli occhiali da sole e mi affaccio dal bordo della collina. Mi rendo conto che sono attratto da tutto ciò che va verso il basso, che va nel senso contrario dell’elevazione della scultura classica – o di Manhattan, ma questa è un’altra storia. Un’adesione incondizionata alla gravitas portata a un punto di non-ritorno, a un punto irreversibile, quello dell’entropia.

Asphalt Rundown sarà una scultura che cade; l’ultimo capitolo di una storia della scultura cominciata con le Deposizioni; il mio omaggio estremo all’arte di Michelangelo.

 

Christ series in limbo, 1961,


Ora, queste idee datano al 1966. Alcuni giorni fa, giunto a Roma, riflettevo non tanto al primo viaggio italiano quanto a quello recente in Inghilterra. A settembre infatti ero a Londra per installare Chalk-Mirror Displacement in Live in Your Head: When Attitudes Become Form. Solo Szeemann poteva tenere miracolosamente insieme arte povera, minimal art, land art, installation art, arte concettuale; per lui siamo tutti “artisti dell’attitudine”. Qui a Roma ho portato opere simili, fatte di terra vulcanica e specchi, legate al viaggio nello Yucatan.

Prima di Londra con mia moglie Nancy Holt abbiamo viaggiato nel sud dell’Inghilterra visitando, oltre a cave e miniere, siti preistorici, Stonehenge incluso, che si è per così dire sedimentato nella mia mente. Altro che reperti archeologici! La storia della scultura e il rapporto dell’uomo col paesaggio ne escono stravolti. Ne devo parlare assolutamente con Carl Andre. Ricordo che già qualcuno aveva paragonato la scultura minimalista esposta al Jewish Museum coi megaliti arcaici – sempre di Primary Structures si tratta in fondo.

Che il minimalismo abbia a che vedere più con la preistoria che col modernismo americano? Con un tempo profondo, incommensurabile, stratigrafico, lontano dalla contemporaneità cui la critica mainstream vuole assoggettarci? Asphalt Rundown preistorica?

“Time as ideology has produced many uncertain ‘art histories’ with the help of the mass-media. Art histories may be measured in time by books (years), by magazines (months), by newspapers (weeks and days), by radio and TV (days and hours). And at the gallery proper – instants!” (Smithson, Quasi-Infinities and the Waning of Space, 1966).

 

Robert Smithson, A pentre-ifan.


In quell’annus mirabilis che è stato il 1966, mentre lavoravo su Michelangelo, m’interessavo anche di geologia. Mi chiedevo come tenere assieme la massa scolpita dallo scultore e la materia terrestre studiata dai geologi. Rispetto al viaggio romano del 1961, sentivo il tempo profondo divaricarsi sotto ai miei piedi e il modernismo trasformarsi in un battito di ciglia, in uno sbadiglio della Terra, in una sgualcitura del tempo. Prima o poi anche le architetture più colossali franeranno sotto il peso del tempo – basta fare un giro al centro di Roma per rendersene conto.

Che le parole resistano meglio all’usura del tempo? Che la parole siano dure come pietre? Che, in altri termini, vi sia un’analogia tra geologia e linguaggio, tra scultura e scrittura? Sempre più la scrittura mi appare come un affare di stratificazione, lontana dalla pagina su cui s’imprime l’inchiostro, piatta come la “flatness” decantata dalla pittura modernista. E se le parole hanno uno spessore, la pagina è come uno di quei mappamondi in rilievo, uno spazio da esplorare e cartografare.

Colui che scrive procede come un collezionista di minerali e di rocce. Mette le parole una accanto all’altra, provando combinazioni diverse con fare empirico. Scrivere un testo è come fare una scultura. In finale, la scrittura si avvicina alla scultura piuttosto che al disegno. No, la scrittura non era un ideogramma che (almeno nelle nostre lingue occidentali) ha perso la sua figuratività per cristallizzarsi nella forma fissa, fissata dalla lettera. La scrittura, al contrario, è un assemblage di parole-mattoncini con un loro peso specifico.

 

Così le parole, che fuoriescono come una valanga dalla nostra bocca, franano, vengono eruttate dalla cavità orale come dal cratere di un vulcano. Quando sono catapultate possono ferire come lapilli nel corso di un’eruzione. Chi lo ha detto che il linguaggio viene dal canto degli uccelli? Per me viene da sottoterra, una voce degli abissi che soffia e genera terremoti, smottamenti che hanno ripercussioni sul piano fisico quanto psicologico, di questo ne sono convinto.

Asphalt Rundown sarà una parola che frana, che si sfracella giù per la collina: una parola fatta di asfalto emessa dalla bocca del camion. Sarà un grido inarticolato, il vagito originario di una lingua che non sappiamo ancora interpretare, perché ne abbiamo perso le tracce o perché non è stata ancora inventata.

 

Robert Smithson, A heap of language, 1966.


“One cannot avoid muddy thinking when it comes to earth projects, or what I will call ‘abstract geology’. One’s mind and the earth are in a constant state of erosion, mental rivers wear away abstract banks, brain waves undermine cliffs of thought, ideas decompose into stones of unknowing, and conceptual crystallizations break apart into deposits of gritty reason. Vast moving faculties occur in this geological miasma, and they move in the most physical way. This movement seems motionless, yet it crushes the landscape of logic under glacial reveries. This slow flowage makes one conscious of the turbidity of thinking. Slump, debris slides, avalanches all take place within the cracking limits of the brain. The entire body is pulled into the cerebral sediment where particles and fragments make themselves known as solid consciousness. A bleached and fractured world surrounds the artist” (Smithson, A Sedimentation of the Mind: Earth Projects, 1968).

“Matter” e “mind”: ne discuto coi miei amici romani. Pare che, in Italia, “mind” non sia facile da tradurre: spirito, mente, coscienza, pensiero. Comunque, per dirlo in una parola, sono alla ricerca di una forma di geologia astratta, di un inconscio geologico, di una corrispondenza tra geologia e processi psichici.

 

Ai piedi della collina il fotografo Claudio Abate è pronto a documentare Asphalt Rundown. Realizzerà un’affiche della mostra, un’immagine in cui la frontalità e la verticalità del magma oscuro che scende predomineranno, anche a costo di scontornarla un po’. Sarà soffusa di un’aria misteriosa se non minacciosa, come in un film noir: il protagonista aziona la leva del rimorchio del camion e poi scappa, lasciando la portiera aperta, trasformando questo squallido paesaggio nella scena di un delitto senza corpo, in un luogo disertato più che deserto.

 

Robert Smithson, Asphalt rundown, 1969, courtesy Archivio lattico, Fabio Sargentini.


L’affiche, così mi ha promesso Sargentini, sarà pronta prima che parta. La metterò sulla parete del mio appartamento newyorkese e la farò vedere di sicuro a Richard Serra e Walter de Maria.

Sarà simile all’affiche di un film di science-fiction, uno di quelli girati in Italia che mi hanno colpito, come La Decima vittima (1965) di Elio Petri. Un film pop di quelli che se ne vedono pochi in giro; difficile pensare che sia stato realizzato a Roma, dove la fantascienza è tenuta in così scarsa considerazione. Pare che in Italia sia stato molto criticato, bah! Io e Dan Graham ne siamo rimasti entusiasti e ne ho pure scritto in Entropy and the New Monuments (1966) riguardo alle sculture di Sol LeWitt.

Senza dimenticare Mario Bava: il design interno e l’arredamento delle navicelle spaziali in Terrore nello spazio (1965) ricorda tante mostre minimaliste cui ho partecipato. Per non citare quei film di serie B a piccolo budget in cui più palese è l’artificialità dell’ambientazione. Qui, come dicevo a Lawrence Alloway, “le convenzioni crollano mentre si guarda l’attore titubante nel suo costume extraterrestre sul minuscolo plateau coperto di nebbia”.

Dicevo che a Roma ho frequentato poco la scena artistica contemporanea; ma col cinema science-fiction ho sentito subito un’affinità. La SF funziona bene in una città dove il passato ha lasciato una quantità così impressionante di rovine. Anziché relegarla a quel momento passato – come un cristallo di tempo –, le rovine la proiettano all’altra sponda del tempo, nella dimensione altrettanto incommensurabile del futuro.

Roma invasa dagli ultracorpi, da una presenza aliena quale Asphalt Rundown.

 

Mario Bava, Terrore nello spazio, 1965.

 

Mario Bava, Terrore nello spazio, 1965.


Ecco, ci siamo quasi, il cassone del camion è pieno d’asfalto bollente che, una volta tirata la leva del camion, scivolerà attraverso il portellone riversandosi giù per la collina. A quel punto non si potrà più tornare indietro. La leva del camion è il mio bottone rosso. È l’immagine dell’entropia che si può redimere solo filmandola e proiettandola al contrario.

Ora, se devo essere sincero, la mia idea originaria era un’altra. Avete presente Viaggio in Italia di Roberto Rossellini? Quella scena in cui il film diventa astratto, quando Ingrid Bergman visita la Solfatara e, d’un colpo, viene inghiottita dal fumo. Lo schermo si fa bianco come la calce. Il film diventa astratto per pochi minuti. Solo le voci che provengono da questa coltre indicano che là dentro c’è ancora l’attrice e la guida locale.

Asphalt Rundown me l’ero immaginato lì, alla Solfatara, in mezzo al fervido fango, in mezzo ai miasmi, non lontano dalla città morta di Pompei. Quando ad aprile scorso Sargentini è venuto a New York, gli avevo accennato di Ercolano, l’antica città romana ai piedi del vulcano, e di Ansedonia vicino le fonti d’acqua termale e solforosa. “Qui a Roma avevo in mente un luogo particolare da cercare. Avevo un’idea generale di ciò che cercavo, qualcosa di equivalente alla mia immagine mentale. Ma il risultato poi dipendeva dal luogo concreto” (Smithson, Tempo concreto, dicembre 1969).

Ad ogni modo i paraggi di Roma vanno bene. Anche ai margini della Città eterna c’è porosità e c’è entropia, una messa in scacco del tempo cronologico, della teologia della Storia che si esercita a distinguere passato-presente-futuro.

 

Chissà cosa ne penseranno i miei amici di Asphalt Rundown. Per Nancy è un modo di rendere visibile l’entropia, per Carl Andre un “angolo dell’inferno”. Quando mi chiedono il senso di quest’intervento io taglio corto: “You see, it’s ultimately what’s done after the truck pulls away”. E quando il camion si allontana quello che resta non è altro che il collasso, un’immagine in negativo.

Asphalt Rundown sarà un’immagine della sedimentazione della mente o un mindscape. Sarà un tentativo di mimare i processi geologici. Ma anche d’ibridare un tempo precedente la presenza dell’uomo sulla Terra e un futuro post-umano, geologia e science-fiction – un’attrazione reciproca tanto più forte quanto più la loro unione è, in finale, impossibile.

A proposito, non è paradossale pensare a un tempo della pre-istoria, cioè a un tempo prima del tempo? Non è la spia della nostra difficoltà a relazionarci col tempo profondo? Cosa ne è del tempo se non c’è storia, o cosa ne è del tempo se non c’è l’uomo? (ma le due chiedono la stessa cosa?).

Asphalt Rundown mi permetterà di veder meglio, forse di esorcizzare, la preoccupazione per la temporalità che mi ossessiona. Il momento è giunto, comincio a tirare la leva del camion – “Let Asphalt Flow!”

 

Nota

Il titolo – “Let Asphalt Flow” – riprende un appunto di mano di Robert Smithson datato 5 ottobre 1969 su Asphalt Rundown. Il testo s’ispira liberamente, oltre che agli scritti dell’artista, a diversi studiosi di Smithson: Larisa Dryansky, Sébastien Marot, Valérie Mavridorakis, Alexander Nagel, Jennifer L. Roberts, Maria Stavrinaki, Gilles Tiberghien, Philip Ursprung.

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Roma, 15 ottobre 1969
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Naviganti. Un viaggio dentro i cantieri San Lorenzo

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La prua della nave come il muso di un pescecane a bocca spalancata, la carena simile a un oggetto spaziale da issare sulla rampa di lancio, una finestrella verticale che ricorda un quadro di Fontana, un elemento triangolare sospeso nel vuoto simile a una scultura dell’arte povera, l’elica come un vortice futurista al fermo immagine. Si potrebbe continuare descrivendo altre immagini che le fotografie rigorosamente in bianco e nero di Silvano Pupella evocano nello spettatore della mostra ai Tre Oci di Venezia, Naviganti. Un viaggio dentro i cantieri San Lorenzo (Sale De Maria, sino al 2 novembre). Questo lavoro rigoroso e ricco d’evocazioni richiama analoghe opere che hanno documentato il lavoro umano negli anni Cinquanta e Sessanta, quando la modernità italiana stava affermandosi e la descrizione del connubio uomo-macchina era un tema consueto. 

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.


Pupella ha dietro le sue spalle molti anni di attività come manager. Ha l’esperienza di chi sa guardare il lavoro umano nelle sue diverse forme. Lasciata quella attività ha ripreso in mano la sua macchina fotografia, antica passione, e ha cominciato a ritrarre i luoghi dell’attività industriale. I cantieri navali San Lorenzo sono da oltre sessanta anni uno di questi spazi in cui l’artigianalità incontra la tecnologia, il design si connette con il piacere delle forme e dei materiali. 

  

Scegliendo di fotografare in bianco e nera Pupella ha inteso mostrare la forma essenziale del lavoro che lì si svolge. La bicromia e la sequenza dei grigi imprimono in chi guarda un senso di durezza, compattezza e solidità davvero inconsuete. Sono superfici saldate a mano, carpenteria metallica che qui celebra il proprio assoluto trionfo. Non la fabbrica con i suoi macchinari della produzione a catena, piuttosto monoliti di metallo su cui agiscono come scultori armati di fiamma ossidrica innumerevoli operai-artisti. 

  

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.


Ciascuno ha il proprio punto d’attacco. Uno sale sulla carena utilizzando un ponteggio, un altro entra nel ventre del pesce ferroso e ne aggiunge un pezzo; un altro s’inginocchia alla stregua di un rito religioso vestito con maschera e armato della fiamma ossidrica per congiungere due superfici; altri ancora tengono nelle mani la lunga fune mentre la gru assembla i pezzi della futura barca. Pupella ama il contrasto cromatico. Tra bianco e nero s’installa una lotta, un conflitto, lo stesso che oppone gli operai-artisti alla materia che stanno plasmando, saldando, unendo. 

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.


San Lorenzo, Metal Superyachts production.


San Lorenzo, Metal Superyachts production.


C’è qualcosa di drammatico in questa scelta di toni, non di spaventoso, piuttosto di drammaticamente titanico. Gli uomini si misurano con la materia in una lotta che è volta a dominarla, a piegarla, a dirigerla. Sono azioni compiute per ottenere dal metallo qualcosa di predefinito, per far combaciare le singole parti secondo la volontà del progetto. Lo sguardo del fotografo si fa teatrale, evidenzia gli spazi e la disposizione, i gesti e le posture. Si sofferma sui dettagli come nello scatto che ritrae guanti, attrezzi, carpenteria. 

    

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.


Siamo nel teatro del lavoro, perché c’è qualcosa di ciclopico nella costruzione dell’imbarcazione, che poi solcherà i mari con le sue forme pure e perfette. Siamo anche nella caverna di Vulcano, nell’antro e nella spelonca del dio del fumo e del fuoco. La fiamma è quella azzurra, qui tradotta in bianco e grigio, che esce del cannello. Il fotografo parla nel suo testo di presentazione alla mostra di caos quale origine di tutte le cose. Questo egli vede e fotografa, perché la forma non ha ancora preso il sopravvento, e l’insieme è composto di parti da montare e assemblare. 

 

Il luogo del lavoro è per Pupella il luogo del caos, del movimento incessante, dello scontro e del contrasto. Egli parla di casualità e imprevedibilità, evocando in questo sia il lavoro umano in corso sia il suo, quello di fotografo. Cogliere il momento giusto, fissare l’attimo in cui l’ordine subentra al disordine, questo sembra la missione. 

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.


La drammaticità implicita nel suo sguardo si coglie perfettamente nel momento in cui lo scafo, non ancora leggibile come tale, viene issato mediante una gru subito dopo lo scatenarsi di un temporale. Le nuvole accentuano la forza caotica del momento. La loro forma imprendibile e cangiante si oppone alla forma definita e tozza dell’oggetto. Ma è il minuscolo uomo che dà il senso delle proporzioni dell’azione: alza la mano, come per indicare la direzione in cui spostare il grande sospeso. Appare piccolissimo sul piazzale del cantiere. Sopra di lui, immenso, si svolge il conflitto di aria e nuvole; sul piazzale la pioggia ha lasciato la propria traccia nelle pozze sparse. Il braccio della gru partisce così lo spazio dell’immagine come se il segno verticale fosse un asse del mondo, che si protende verso il cielo senza tuttavia raggiungerlo. Lavoro di formiche che manovrano oggetti immensi, li issano e li modificano con le proprie mani. Tutto è a misura d’uomo e tutto, per necessità, lo trascende.   

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Robert Capa: l'affaire

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Come si diventa un grande fotografo della Magnum? Per Endre Ernő Friedmann, al secolo Robert Capa, è accaduto grazie a due tra gli eventi storici più cruenti del XX secolo: la guerra civile in Spagna, la cui immagine iconica è Il Miliziano colpito a morte e lo sbarco americano in Normandia durante la seconda Guerra Mondiale testimoniato dalle Magnifiche undici fotografie che l’autore ungherese, unico fotografo al seguito delle truppe, scattò mentre i soldati attraversavano il lembo di mare che separava le imbarcazioni dalla terra ferma. 

Come è successo che un fotoreporter di tale levatura sia stato sottoposto a un’indagine di autenticazione che non ha precedenti nella storia della fotografia? L’occhio del fotografo “vede” e in quello stesso istante “immagina”. Le due azioni si verificano contemporaneamente. Quando un fotoreporter scatta una fotografia ha già in mente cosa ne sarà, soprattutto se la rivista per cui lavora gli ha commissionato un certo tipo di storia oppure se ha saputo vendersi “bene”. Quanto incide questo sull’autenticità (e quindi sulla responsabilità etica dell’autore) dei fatti e dei luoghi riportati quando in gioco c’è il prestigio di se stessi e della rivista che si rappresenta? E ancora: c’è solo una manipolazione “manuale”, che avviene in fase di post produzione o anche una manipolazione “mentale” che tocca il livello culturale del pubblico che si vuole raggiungere (ovvero il mercato)? 

 

Il breve ma intenso volume L’affaire Capa di Vincent Lavoie, storico della fotografia, pubblicato in Italia per i tipi di Joan & Levi, affronta con metodo pignolo un caso divenuto per l’appunto storico poiché riguarda il presunto falso attribuito all’immagine che ritrae un Miliziano repubblicano nel momento in cui viene colpito a morte, scattata da Robert Capa durante la guerra civile spagnola nel 1936. 

Il volume mette in fila con rigore scientifico, quasi si fosse in un’aula di tribunale e si debba convincere una giuria della colpa o dell’innocenza di questa fotografia, tre metodologie di verifica: le parole dei testimoni, la risposta documentale, le perizie criminalistiche sull’immagine. La domanda è: il Miliziano colpito a morte racconta la verità o è un trucco per accaparrarsi lettori e fama? Storicamente il repertorio comune ai fotografi che vogliono accreditarsi presso le testate giornalistiche, è composto da tre scenari principali: autenticità dell’immagine, integrità dell’autore e veridicità della scena. Ciò dovrebbe comportare una sorta di indipendenza nel documentare i fatti purché ci si avvalga di un preciso codice deontologico. Ma nella realtà – come afferma Foucault – ogni società ha la sua politica generale di “quel che funziona come vero”. 

 

Phillip Knightley, giornalista australiano – l’accusa –, è considerato colui che per primo, nel 1974, si espresse sulla celebre fotografia di Capa come di un possibile falso. 

Il 12 luglio 1937 la rivista americana Life pubblica la foto del Miliziano ma la didascalia che l’accompagna, secondo Knightley, verrebbe meno a quelle che sono le famose domande dell’esagono di Quintiliano: Chi, Che cosa, Dove, Quando, Come, Perché. Il testo posto in calce all’immagine dice che il fotografo “coglie un soldato spagnolo nell’istante in cui viene ucciso da una pallottola in testa sul fronte di Cordova”. Non si tratta di un testo che descrive in modo imparziale gli eventi bensì crea una narrazione più emotiva alterando la percezione dei fatti. 

Il Miliziano colpito a morte che campeggia sulla pagina di Life offre prima di tutto un messaggio visivo, la dimensione è già di per sé elemento autorevole eppure ciò che mostra può dare adito a diverse interpretazioni poiché non è ancorata alla didascalia. La considerazione principale che Knightley affronta è la sottomissione del racconto fotografico all’elemento testimoniale, imprescindibile per definire un evento vero o falso. Soltanto la testimonianza diretta di chi è stato presente ai fatti può avvalorare la veridicità degli stessi.

 

Usando questo metodo, Knightley porta testimoni a favore dell’accusa che possano confermargli o meno l’autenticità della fotografia in questione. La sua disamina si basa principalmente sulla testimonianza del cronista sudafricano O’Dowd Gallagher. È nel racconto di quest’ultimo, infatti, che affiora per la prima volta l’accusa di falso nei confronti del fotografo di Life. Secondo Gallagher, Capa si sarebbe recato presso un campo di esercitazioni tornando con una serie di fotografie tra le quali quella del Miliziano. Gallagher riporta anche un’ambigua espressione di Capa che avrebbe detto: “Se vuoi delle belle istantanee di guerra, l’obiettivo non deve essere mai perfettamente a fuoco. Se la mano ti trema un po’ viene fuori una splendida foto che sembra scattata in pieno combattimento”. Capa, secondo questo testimone, avrebbe dunque violato una regola fondamentale dell’etica giornalistica: il divieto di effettuare qualunque intervento diretto sulla realtà. In una testimonianza resa tre anni dopo però, Gallagher sembra non essere più così aderente alle affermazioni della precedente: questo in una qualsiasi aula di tribunale basterebbe a far traballare qualunque testimone.

 

 

Ed è proprio la mancanza di coerenza nelle diverse testimonianze di Gallagher ad offrire a Richard Whelan, biografo ufficiale di Robert Capa – la difesa –, lo spunto per controbattere la tesi del falso. Non potendo basarsi sulla matrice dello scatto andata perduta, Whelan imbastisce una teoria completamente differente che pone al centro della disamina l’intero corpus del lavoro svolto da Capa quel giorno. In questa ricostruzione prevale l’aspetto documentale rispetto a quello testimoniale, Whelan promuove la fotografia da succedaneo della realtà e passibile di compromissione della stessa, a un ben più ingombrante ruolo di conferma dei fatti e dunque di “testimonianza” vera e propria. Whelan introduce il concetto di narrazione fotografica (ciò che è il reportage), la ricostruzione dei diversi momenti immortalati fornirebbe – a suo dire – la prova assolutiva del fotografo.

 

Diversi sono coloro che hanno effettuato ricerche proprie o tramite incarico, per cercare di stabilire la verità. Tra questi il fotografo italiano Mario Dondero che racconta di essersi recato sui luoghi della battaglia per la rivista Il Diario nel 2006 e di aver raccolto numerose testimonianze locali – a Cerro Muriano e Alcoya – nelle quali nessuno aveva il minimo dubbio che il Miliziano ucciso della famosa fotografia fosse Federico Borrell detto ‘Taino’, originario di quei posti. Dondero dichiara inoltre di non concepire come possa essere possibile dubitare della veridicità dell’immagine, soprattutto dopo aver consultato la documentazione spagnola relativa alle indagini svolte proprio sulla morte di Borell.

Ma c’è un secondo scatto, meno famoso, che riprende un altro miliziano colpito a morte, nello stesso luogo. Le due immagini pubblicate in sequenza da Paris soir il 28 giugno 1937, recano due didascalie che paiono metterle in relazione, è evidente però che si tratta di due persone diverse in due momenti diversi. Ancora una volta la didascalia pilota la fotografia verso un significato che non è ancorato alla realtà: sotto la prima (quella più famosa) è scritto “Touché!!!” (Colpito!!!), sotto la seconda “Il tombe!!!” (Cade). Un terzo scatto preso in esame da Whelan per avallare ulteriormente la sua tesi basata sul “contesto” è quello che mostra i due miliziani brandire i loro fucili a braccia alzate assieme ai loro compagni dall’alto di una collina. Questo terzo scatto proverebbe che l’immagine compromessa è in realtà autentica poiché partecipe del contesto dell’azione. Dunque le prime due strategie di riscontro, quella testimoniale e quella documentale, nel controverso caso del Miliziano pareggiano. La ricerca della verità assoluta non è possibile, i documenti non combaciano, i negativi non sono completi, le informazioni latitano, i testimoni traballano. Entra in scena così la terza via: quella della perizia criminalistica.

 

Come in un episodio di CSI bisogna conoscere “la scena del crimine” nei minimi particolari. In questi frangenti la fotografia è la prima tecnica utilizzata per evitare che la scena possa essere modificata a seguito della raccolta delle prove. La fotografia è dunque il primo atto che rileva un contesto criminoso o incidentale. Ma perché si è dovuti arrivare a scomodare le tecniche della polizia scientifica per poter dimostrare la veridicità della fotografia del Miliziano? Esaminiamo i fatti: è in corso un’azione violenta e veloce, il fotografo scatta a ripetizione nel tentativo di ritrarre il più possibile, senza sapere cosa sta inquadrando. Nella fotografia del Miliziano subentra però un elemento “estetico” che fa emergere il dubbio: se lo scatto è stato così rapido e invisibile all’occhio del fotografo come è potuto accadere che egli abbia colto proprio quell’attimo? L’immagine viene sezionata come un cadavere sul banco di un obitorio durante un’autopsia che deve stabilire le cause del decesso affinché si conosca la verità. Inclinazione del suolo, della gamba sinistra, del braccio destro. Posizione delle nuvole, dei monti sullo sfondo, delle stoppie: non c’è che dire, l’analisi criminologica è spietata, non lascia nulla al caso. 

 

È negli anni Trenta, con l’avvento dei dispositivi di piccolo formato, che i provini a contatto assumono lo statuto di prova documentale al pari della testimonianza orale. Ma all’epoca l’archiviazione dei provini non sempre è rigorosa, così come per i negativi; nel caso del Miliziano non c’è provino e nemmeno negativo dunque come si può essere certi che l’immagine sia autentica e non posata? Il dubbio pare essere posto a tacere sessant’anni dopo, nel 1996, quando Whelan è in grado di far uscire il Miliziano dal ruolo di “milite ignoto”, cioè di rappresentante simbolico di un evento storico, e farlo entrare in una dimensione più individuale dandogli un nome e un cognome: Federico Borrell Garcìa.

 

Il milite ignoto è simbolo imprescindibile di ogni conflitto, possiede un valore identificativo universale, nel cercare di dare un nome all’uomo caduto si spezza questo senso di universalità alto e ricco di significati ideali per far posto a una pratica molto più individualista dove il corpo dell’uomo in questione, attraverso la sua identificazione, attenua di fatto la luce iconografica e quindi il suo valore emozionale. Tale “svolta” nelle indagini condotte da Whelan mostra l’accanimento nel cercare di dare un’identità all’uomo colpito a morte come se la realtà senza il nome proprio non potesse esistere. Quell’uomo che si vede combattere in altri scatti, presumibilmente presi in quello stesso giorno, è morto davvero. L’inserimento quindi della foto incriminata nella logica del contesto è per Whelan la prova definitiva della sua autenticità.

Da tutto questo, nella contemporaneità digitale, nasce un’attenzione da parte delle agenzie stampa verso l’autenticità delle immagini di reportage e della loro eventuale manipolazione dettata spesso dalla richiesta, da parte delle redazioni giornalistiche, di produrre immagini estetiche e spettacolari. La fotografia si “globalizza” appiattendo la percezione dello spettatore su una tipologia di immagine uniformata: nel web, al cinema, nei telegiornali, sulle riviste, condizione che porta ad uno stato di assuefazione visiva capace di annullare qualsiasi forma di sollevazione contro il sistema. Eppure esistono sofisticati mezzi tecnologici in grado di verificare l’autenticità di uno scatto digitale. Tali strumenti sono ormai indispensabili per intercettare foto fake o comunque ritoccate. L’Associated Press, una delle agenzie stampa più importanti al mondo, da anni sottopone a verifica le migliaia di immagini che riceve quotidianamente, questo per evitare che venga minata l’attendibilità dell’agenzia stessa e l’integrità dei clienti. L’analisi di ciò che “non si vede” nella fotografia, cioè l’alterazione o meno dei metadati, attesta la veridicità di ciò che si “vede”, un processo possibile grazie a una strumentazione di alto livello di indagine criminologica.  

 

Assoluzione o condanna dunque per Robert Capa “il più grande fotografo di guerra al mondo” e il suo Miliziano? Le indagini che si svolgono da oltre quarant’anni sull’autenticità delle sue fotografie non mettono in discussione soltanto le immagini ma, macchia ancor più grave, la professionalità del fotografo, la sua etica. Da tutta questa querelle di opinioni e confronti usciamo confusi e assolutamente non in grado di poter affermare se stare dall’una o dall’altra parte. Il sentimento che ci pervade è quello del tradimento anche se sappiamo che non è Capa a tradirci – chi al suo posto non avrebbe fatto ciò che ha fatto lui – bensì un sistema che ha reso la verità un campo di battaglia ove lo scontro finisce con l’essere l’unico terreno di confronto, senza che peraltro si venga condotti verso una risoluzione del conflitto.

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Indagine su un fotografo al di sopra di ogni sospetto
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Da Anthropocene a Tecnosfera

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Tecnosferaè il titolo dell’edizione 2019 della Biennale di Fotografia dell’Industria e del Lavoro a Bologna, organizzata dalla Fondazione MAST - Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia a cura di Francesco Zanot, che terminerà il 24 novembre. La Biennale, composta da 10 mostre dislocate in diversi luoghi non museali nel centro storico, prosegue idealmente il percorso tracciato dalla mostra Anthropocene a cura di Sophie Kackett, Andrea Kunard e Urs Stahel allestita al MAST, prorogata fino a gennaio 2020. 

Il concetto di Tecnosfera coniato nel 2014 da Peter Haff, specialista in geologia e ingegneria civile ambientale presso la Duke University, in Carolina del Nord, indica le strutture che l’uomo ha costruito nel tempo: centrali elettriche, linee di trasmissione, strade, edifici, reti dei mezzi di trasporto, aziende agricole, industrie manifatturiere che si avvalgono delle tecnologie più avanzate, entrano nel quotidiano attraverso devices ed elettrodomestici “pensanti” che modificano profondamente la nostra vita. Reti complesse e articolate che per sopravvivere ed evolversi hanno necessità di alimentarsi attraverso le numerose forme di energia che la Terra offre tramite l’estrazione di carbone, petrolio, minerali altre forme di energie alternative come il vapore, l’eolico, ecc. Secondo Haff la Tecnosfera ha origine con la prima rivoluzione industriale che ha avuto inizio a metà ‘700 e si caratterizza, come uno spazio in cui si generano vita e cultura e dove si manifestano le interrelazioni sociali che l’umanità crea quotidianamente attraverso la comunicazione in tutte le sue forme grazie alle nuove tecnologie. All’interno di questo spazio, di questo guscio che ormai avvolge tutta la superficie terrestre si genera una costante necessità di innovazione, in particolare quella tecnologica, ormai inarrestabile, che ha accelerato i consumi oltre che i bisogni, modificando la percezione e producendo nuovi bisogni.

 

Allo stesso tempo questa spinta scientifica e tecnologica è un grande propulsore per la creatività artistica. Per Haff, la Tecnosfera, costituisce un nuovo paradigma globale emergente che definisce la presenza di un nuovo strato del pianeta oltre che di una nuova era per il genere umano, dove il lavoro e la creatività giocano un ruolo del tutto speciale. L’approccio filosofico di Nelson Goodman (Ways of Worldmaking, 1978, tradotto in italiano nel 1988 con il titolo Vedere e costruire il mondo) ci aiuta a capire meglio come la Tecnosfera possa contribuire notevolmente alla conoscenza e quindi alla progettazione e costruzione di nuovi mondi. Anche la scienza, non diversamente da quanto accade per le arti, dalla pittura alla musica, contribuisce al processo creativo. Infatti, per il filosofo, “non esiste un unico mondo di mondi più di quanto non ci sia un unico mondo”. La ricerca scientifica, così come quella artistica, nello scomporre la realtà per ricomporla al fine del raggiungimento dell’obiettivo o del messaggio, è parte integrante nel fabbricare nuovi mondi. Essa assume quindi la stessa importanza del percorso creativo nell’arte e viceversa. Le classiche categorie filosofiche, sostiene Goodman, possono essere d’intralcio per la comprensione della realtà e per i nuovi sviluppi a venire.

 

Il progresso tumultuoso della tecnologia, però, che non sempre procede di pari passo con un progresso etico e consapevole, mostra come la scienza, e l’arte abbiano a volte confuso due categorie tradizionali: quelle di vero e falso. In questo percorso che a volte raggiunge una parabola con vertici mirabolanti, si inserisce il linguaggio della fotografia. Essa è il più denso dei media, a differenza dei testi scritti o audio visuali, che propongono narrazioni complesse, dettagliate e di una certa durata. Il linguaggio della fotografia si pone come una “attivazione dello sguardo” quindi utile alla comprensione del mondo, per citare Luigi Ghirri (Catalogo (1970-1979), 1979). La fotografia desidera che i racconti sgorghino dall’osservatore. Il saggio di Luigi Zoja, Vedere il vero e il falso (2018) è davvero utile per muoversi tra le diverse teorie della percezione e quelle della critica oltre che dal proliferare delle immagini attraverso i media e i social. L’eliminazione della distanza geografica tra la realtà e la sua raffigurazione in fotografia non cancella però la distanza tra vedere e sapere e questo può generare spostamenti di piani per la comprensione del messaggio. Lo stesso meccanismo si propone con le immagini generate da sofisticati software per l’elaborazione delle immagini e i relativi device. La fotografia, infatti, può essere profonda verità, ma anche tradimento della realtà stessa. La Biennale di Foto/Industria parte e si muove anche da questi presupposti teorici.

 

Essa propone dieci mostre che la curatela ha così suddiviso: Albert Renger-Patzsch, Paesaggi della Ruhr, che illustra alcune fasi dei processi di produzione e delle trasformazioni del paesaggio e della natura con l’avvento dell’industrializzazione della Ruhr; André Kertész, Tires/Viscose che realizza un raffinato reportage in pieno periodo bellico per documentare la produzione della fibra artificiale per nuovi e strategici tessuti; Luigi Ghirri, Prospettive industriali, un percorso tra le principali committenze industriali realizzate per Ferrari, Costa Crociere, Bulgari e Marazzi, dove vengono presentate insieme a materiali che raccontano l’intero processo di lavoro dell’autore, come gli album di provini originali e le pagine di un menabò che sarebbe dovuto sfociare in un libro, strumenti utili per approfondire il percorso creativo dell’autore anche nel campo della fotografia di committenza. Sono però assenti alcuni degli sguardi più intriganti di Ghirri come quella dell’operaio della Ferrari che appoggia la mano in un cerchione, dove è evidente il riferimento iconografico all’Autoritratto del Parmigianino (1524, Kunsthistorisches Museum).

 

Essa, se ce ne fosse necessità, è un’ulteriore riprova, anche nel campo della documentazione, dell’approccio di Ghirri al superamento dei generi e di come la sua ricerca personale fosse continua, anche nell’ambito della committenza. Le immagini mostrano come la sua memoria, la sua percezione costruisca, nel presente, una rete visiva di relazioni che rimandano a concetti e idee a lui cari. Ghirri, nel 1991, nella sua ultima e lunga intervista a Arturo Carlo Quintavalle in Viaggio dentro un antico labirinto, afferma che “la frequentazione visiva con tempi e riflessioni completamente diversi mi consente una riconsiderazione diversa dalle immagini già fatte e mi permette di relazionarle con future immagini possibili che sono sempre più fresche nella memoria. La memoria funziona proprio in termini associativi”. Le immagini delle Ceramiche Marazzi ne sono un esempio. In esse riprende la metodologia delle Polaroid di grande formato scattate nel 1981, create attraverso una serie di oggetti in relazione alla propria memoria personale, non per guardare in modo nostalgico il passato, ma per riflettere sui mutamenti del presente. Quelle immagini, apparentemente “nature morte” sono in realtà microcosmi. In Lezioni di fotografia (2010), riferendosi al lavoro di committenza industriale, l’autore afferma che non cerca la perfezione formale, come generalmente si procede nella maggior parte dei casi preparando set e controllando l’illuminazione artificialmente, perché lavorando in questa direzione gli oggetti diventerebbero, appunto, delle nature morte. All’autore interessa invece mostrare uno spazio che si appropria dell’esistenza, di un vissuto per coglierne il rapporto con chi lo vive. Diversamente sarebbe stato restituito uno spazio, quello del lavoro, decorativo, accessorio ad approcci utilitaristici. Sono ricerche e sperimentazioni che non hanno derogato al linguaggio della fotografia, all’opposto lo hanno arricchito aprendo nuovi e inediti modi di vedere.

 

LUIGI GHIRRI – Ceramiche Marazzi, Sassuolo, 1983, © Eredi di Luigi Ghirri Courtesy Marazzi Group.


Armin Linke, Prospecting Ocean e Délio Jasse, Arquivo urbano invece assumono una posizione di uno sguardo sociologico e politico, ove al centro vi è la condizione umana in relazione all’ambiente e alla natura. 

Armin Linke, lavora da molti anni sui temi della trasformazione del territorio e delle forze economiche e politiche che la promuovono. Prospecting Oceanè uno studio realizzato grazie alla collaborazione di scienziati, tecnici e legali, sullo sfruttamento delle risorse marine e l’amministrazione dei fondali di tutto il mondo. Realizzate con speciali veicoli sottomarini a controllo remoto e altri strumenti tecnologici all’avanguardia, le immagini mostrano ciò che risulta normalmente invisibile, svelando un denso intrico subacqueo di macchinari e tubazioni per estrarre e distribuire risorse preziose.

Délio Jasse con Arquivo Urbano, una serie dedicata alla capitale dell’Angola, Luanda, città il cui destino è quello delle megalopoli. Anche Jasse affida la sua ricerca ad un allestimento complesso, fatto di sovrapposizione di immagini che riflettono sul passato che ha negato la cultura locale a causa del colonialismo. Il suo linguaggio apre una riflessione non solo sul presente, ma anche sul futuro delle metropoli africane, caratterizzate per lo più dall’incertezza e a logiche legate ad un veloce sviluppo piuttosto che a criteri di sostenibilità.

 

ARMIN LINKE – Biblioteca Universitaria di Bologna Università del Texas, Austin, sala di modellizzazione delle correnti oceaniche, Institute for Computational Engineering and Sciences (ICES) Computational Research in Ice and Oceans Group (CRIOS), Austin, Texas, USA, 2018 © Armin Linke 2018. Courtesy Galleria vistamare/ vistamarestudio, Pescara / Milan.

 

DÉLIO JASSE – Fondazione del Monte - Palazzo Paltroni Sem valor, 2019 © Délio Jasse. Courtesy of the artist and Tiwani Contemporary.


Matthieu Gafsou, H+, di formazione filosofo, lavora sul concetto di Transumanesimo, spesso abbreviato con la sigla H+. È un movimento che si dà come obiettivo quello di migliorare le performance cognitive, psichiche e fisiche dell’uomo attraverso l’utilizzo della scienza e della tecnologia. Il progetto costituisce una vasta ricerca su questo fenomeno, svolta all’interno di istituzioni scientifiche, laboratori e comunità in diversi paesi. A partire dalla capillare diffusione degli smartphone, che costituiscono ormai l’estensione del corpo di miliardi di individui, il lavoro documenta dispositivi e innovazioni che vanno dai supporti medici (pacemaker, protesi, arti cibernetici) agli innesti di microchip, dai cibi sintetici alle strategie anti-invecchiamento. Immagini che sono affidate a un vero sistema di allestimento che sovrasta l’opera e che pare diventare il vero tema della mostra stessa e dove le opere diventano funzionali all’allestimento stesso. Appare quindi una deroga dell’autore che sposta l’attenzione del proprio messaggio all’allestimento, a volte a scapito della chiarezza, nel tentativo forse di superare la figura stessa del fotografo o del linguaggio fotografico. Il progetto si inserisce quindi più nel mondo del visuale più che all’espressione della fotografia tradizionalmente intesa. Sappiamo, tuttavia, come il rapporto tra opera e suo allestimento sia emergente nell’arte contemporanea, così come è evidente, in May You Live In Interesting Times a cura di Ralph Rugoff, alla Biennale d’arte di Venezia. La complessità del tema è inequivocabile: si evince anche da alcune mostre degli autori che potremmo definire “tradizionali”. 

 

MATTHIEU GAFSOU – Palazzo Pepoli Campogrande 4.5.1 © Matthieu Gafsou / Galerie C / MAPS.

 

Ben lo testimonia Lisetta Carmi, che nel restituire le immagini del porto di Genova e dello stabilimento dell’Italsider utilizza un linguaggio sperimentale, tra astrazione e documentazione. La mostra è accompagnata dal brano musicale di Luigi Nono che visita, con Lisetta Carmi, quegli stabilimenti nel 1964, ne registra i rumori e li pone alla base della sua composizione La fabbrica illuminata

 

LISETTA CARMI - 2019.


David Claerbout, Olympia, propone un’analisi della rappresentazione dove protagonista è il celebre Olympiastadion di Berlino, noto per avere ospitato le Olimpiadi del 1936, progettato dall’architetto Werner March. Secondo il suo progetto originario, lo stadio dovrebbe resistere per mille anni: tale era infatti la durata attesa dai gerarchi per l’intero ciclo del Terzo Reich. Per questo lavoro David Claerbout si è dunque chiesto come dovrebbe apparire l’Olympiastadion tra un millennio, sviluppando un complesso software di computergrafica che simula il degrado dell’architettura in una proiezione di grande formato, fino alla sua totale sparizione. La creazione delle immagini è quindi affidata ad un software governato da complessi algoritmi ideato da ingegneri in collaborazione con l’artista. Il progetto non si preoccupa quindi del reale, ma di quello che ipoteticamente sarà.

 

Yosuke Bandai, A Certain Collector B lavora sull’aspetto archeologico dei manufatti e su come il tempo abbia dato loro nuovi destini. I rifiuti sono un inevitabile oggetto di attenzione e dibattito, nel contesto della Tecnosfera. Il fotografo giapponese li mette al centro del proprio lavoro che costituisce insieme una riflessione estetica e filosofica. Per le sue immagini, egli raccoglie una serie di rifiuti e altri materiali ritrovati e ne fa una serie di sculture minime e fragili, che durano il tempo di una ripresa fotografica. Il risultato sono immagini insieme attraenti, misteriose e disturbanti, fuori scala, frutto di un attento processo di revisione in cui gli oggetti di partenza, pur rimanendo del tutto riconoscibili, risultano completamente trasformati. Immediato è il riferimento al kintsugi, l’arte di riassemblare la ciotola di ceramica che si rompe e, ricomponendola, da rifiuto prende nuova vita attraverso le nuove forme e le linee di frattura che, secondo la filosofia giapponese, la rendono ancora più pregiata. Kintsugi ci insegna a non vergognarci delle ferite, degli scarti, ma di abbracciare i resti per dar loro nuova vita. È una lezione simbolica che viene riportata alla nostra attenzione con prepotenza da Tecnosfera.

 

Stephanie Syjuco, Spectral City, combina nei suoi lavori fotografia, video e nuovi media digitali. Questo progetto consiste in un video realizzato con immagini scaricate da Google Earth che ricostruisce il percorso compiuto dal ‘cable car’ di San Francisco nel film A Trip Down Market Street del 1906, per realizzare il quale i Miles Brothers avevano montato una cinepresa sulla parte anteriore di un ‘cable car’. Pochi giorni dopo le riprese il grande terremoto di San Francisco avrebbe cancellato gran parte degli edifici documentati dalla pellicola. Parallelamente, nel video di Stephanie Syjuco, l’algoritmo di Google cancella ogni presenza umana. Completamente deserta, la città appare proprio come dopo un enorme cataclisma. Spectral Cityè una riflessione sui limiti e le distorsioni della visione delle macchine, sullo spazio pubblico e sul continuo processo di costruzione e ricostruzione della città. 

Questa edizione di Foto/Industria ha mostrato un cambio di passo rispetto alle precedenti edizioni, curate da François Hebel, forse più attente al linguaggio fotografico nella più alta accezione del “fotografico”; ma è anche vero che la percezione dell’arte e della fotografia trovano i fotografi, gli artisti e i videomakers impegnati a riflettere su questi Interesting Times (tempi interessanti). La fotografia, come arte, può denunciare, farci sentire partecipi e soprattutto consapevoli della realtà in cui viviamo, attraversata da profondi cambiamenti ambientali, turbata da problemi politici e sociali, e che ben poco può incidere sulle decisioni politiche per cambiare il mondo. Foto/Industria evidenzia una visione sociale della fotografia contemporanea che mette in discussione formule del passato offrendoci una nuova lettura degli oggetti, della scena quotidiana, del mondo del lavoro, delle metropoli e del mondo dell’industria. Un linguaggio della fotografia che considera più punti di vista: quello dell’autore e quello dello scienziato, richiamando a gran voce l’attenzione del visitatore su temi ormai inderogabili almeno per le nostre coscienze.

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Marina Ballo Charmet, o della Defotografia

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La fotografia potrebbe essere dunque definita l’espressione del desiderio di contenere e conservare una traccia dell’esperienza e costituirebbe dunque una protesi tecnologica dell’apparato psichico.

Marina Ballo Charmet

 

Si crede ancora oggi che l’occhio umano veda tutte le cose nitidamente su una grande estensione: questo è falso: in realtà l’occhio non vede nitidamente che una piccola parte del campo visivo, tutto intorno resta sfuocato […] l’occhio fissa solamente gli oggetti in casi molto rari, in generale si muove dentro un campo visivo largo circa 200 gradi, mentre l’ottica fotografica normale non comprende che un settore molto più ristretto di 45 gradi. Anche se l’occhio fissa un oggetto, è capace grazie al suo ampio campo visivo di registrare anche fenomeni ottici che avvengono o si trovano ai bordi del suo campo visivo. 

 

Queste parole di Raoul Hausmann, grande pioniere dell’avanguardia dada e surrealista anni Trenta-Quaranta, citate da Marina Ballo Charmet in uno degli scritti raccolti nel suo libro Con la coda dell’occhio (a cura di Stefano Chiodi, Quodlibet 2017, p. 50), si possono accostare al passo in assoluto più celebre della teoria e della storia della fotografia, quello di Walter Benjamin nella Piccola storia della fotografia del 1931 (in Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Einaudi 2012, p. 230):

 

la natura che parla alla macchina fotografica è […] una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente […]. La fotografia […] rivela questo inconscio ottico, così come la psicoanalisi fa con l’inconscio pulsionale. 

 

I due partono da presupposti inversi: Hausmann sostiene che l’occhio – la nostra percezione ottica naturale – vede più della macchina fotografica, almeno dell’otticafotograficanormale; mentre per Benjamin è vero il contrario: la macchina è in grado di scoprire una porzione di spazio che la nostra attenzione, di norma, non mette a fuoco. Colpisce però come tutti e due ci richiamino a un’attenzione – dello sguardo umano o di quello della macchina – che dal centro del campo si sposta ai suoi margini. 

È in quest’ottica, è il caso di dire, che va ricostruito il meccanismo del pensiero di Marina Ballo Charmet: che fin dal principio del suo percorso – dalla fine dagli anni Ottanta, cioè – si è posta in controtendenza rispetto ai suoi maestri: i quali si erano assunti il partito preso etico e politico, prima che la missione estetica, di mettere sempre a fuoco il centro dell’immagine impiegando addirittura (come spiega Stefano Chiodi nella postfazione a Con la coda dell’occhio, p. 165), nel caso specifico di Gabriele Basilico per esempio, l’artificio del «tutto a fuoco»: l’immagine è perfettamente razionale, completamente percepibile, e mostra il proprio oggetto per intero. 

 

Il presupposto di Marina Ballo Charmet è simmetricamente opposto: a interessarle è proprio il margine di una percezione che, nel lessico dei suoi altri maestri – psicoanalisti come Salomon Resnik e Anton Ehrenzweig –, viene definita «visione periferica»: quella che ci fa percepire la presenza di un oggetto senza che in realtà ce ne accorgiamo. Il nostro occhio, o forse piuttosto la nostra psiche, si comporta come l’obiettivo fotografico di Benjamin: vede più di quanto, cognitivamente e razionalmente, pensi di farlo. 

Se però dalla generazione dei padri risaliamo a quella dei “nonni”, un air de famille si avverte inequivocabile.

 

 

Dobbiamo pensare al tempo di personaggi come John Cage o Ornette Coleman, fine anni Cinquanta-inizio Sessanta. Ricorda questa couche d’infanzia e adolescenza attorno a suo padre Guido critico d’arte e poeta, Marina Ballo Charmet, nell’Introduzione al suo Con la coda dell’occhio. È la temperie che trova la sua sintesi perfetta, nel 1966, nel Blow-Up di Michelangelo Antonioni: celebre apologo sulla fotografia in cui pare circolare il concetto di inconscio ottico (anche se è difficile che Antonioni potesse conoscere, allora, il saggio di Benjamin; la sua traduzione esce da Einaudi, nell’antologia L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, lo stesso anno del film; sono, in ogni caso, pensieri tipici di quel tempo). Questa avventura di un fotografo– come di lì a poco, alla maniera appunto di Antonioni, intitolerà Italo Calvino uno dei suoi Amori difficili– è quella di Thomas, fashion photographer che per caso riprende delle immagini in uno spazio aperto, in un parco alla periferia di Londra – “set” che somiglia da vicino, peraltro, a certi luoghi d’affezione di Ballo Charmet – e poi, sviluppando e ingrandendo quelle fotografie, si convince che quel luogo anonimo, senza senso e “senza qualità”, sia stato in effetti la scena di un delitto. Qualcosa che invece ha molto senso, dunque: e quel senso bisogna a tutti i costi cercare di comprendere. Ma l’ingrandimento ossessivo dell’immagine ha un esito opposto a quello perseguito dal fotografo: la prova del delitto che crede di aver intravisto e di cui cerca le “prove” nell’immagine fotografica gli sfugge, in quanto l’ingrandimento della fotografia finisce per deformare l’immagine, riconducendola alla sua grana materica e astratta.

 

Mentre probabilmente sta già pensando al suo film sulla fotografia, nel ’64, Antonioni scrive una frase-manifesto: «sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà. Il cinema astratto avrebbe dunque la sua ragion di essere» (Fare un film è per me vivere, a cura di Carlo di Carlo e Giorgio Tinazzi, Marsilio 1994, pp. 61-2). Un’espressione come cinema astratto è in effetti un ossimoro perché il cinema – come spiegava fra gli altri Pier Paolo Pasolini, nei testi di quegli anni raccolti in Empirismo eretico– ha come sua vocazione, o forse maledizione, quella di avere sempre di fronte una realtà materiale (il famigerato «profilmico») che, in un modo o nell’altro, necessariamente condiziona l’immagine che le si riferisce. Il che non toglie che Antonioni sia l’autore che più ha spinto la sua ricerca in quella direzione; il suo cinema astratto non giunge mai a essere davvero tale, semmai è meta-astratto: come in Blow-Up, mette in scena il processo col quale all’astrazione si giunge (o, piuttosto, vi si precipita). 

 

Il momento decisivo, in questa storia, si colloca nel 1962, negli ultimi cinque minuti e mezzo di quello che forse è il più bel finale della storia del cinema italiano, quello dell’Eclisse: quando la storia, non so se chiamarla d’amore, fra Monica Vitti e Alain Delon, si perde – proprio come si perderà la soluzione del “giallo” inseguito da David Hemmings nel film di quattro anni dopo. Le immagini che mostrano il quartiere romano dell’EUR dove si danno l’ultimo appuntamento i due protagonisti, un appuntamento al quale nessuno dei due si presenta, non è appunto “astratta” ma si svincola definitivamente dalla successione logica della narrazione, si affranca dal suo dover-essere narrativo. Sono Antonioni e – con stile diversissimo dal suo – Federico Fellini a introdurre nel cinema quella che negli stessi anni veniva definita «denarrazione». Come spesso nella storia dell’arte, questa espressione venne usata originariamente in negativo; fu la scrittrice (nonché critica cinematografica) Anna Banti, consorte di Roberto Longhi, a impiegarla nel ’67 sulla rivista «Paragone» per stroncare i tentativi narrativi degli scrittori della Neoavanguardia di quegli anni: «denarratori» perché, appunto svincolando la successione delle “scene” da ogni possibile filo logico-temporale, de-costruivano in primo luogo i presupposti logici causa-effetto sui quali, più o meno consapevolmente, si fonda ogni pratica narrativa. (Con scarto a sua volta tipico, quella taccia ominosa verrà assunta in positivo quando l’anno dopo Vanni Scheiwiller lancerà una collana editoriale intitolata proprio «Denarratori», inaugurata – nonché conclusa… – da due opere in effetti estremistiche come Obsoleto di Vincenzo Agnetti e L’equivalente di Corrado Costa; negli anni Settanta, verosimilmente all’oscuro di questo precedente, s’intitolerà The Untelling– da Damiano Abeni reso appunto come La denarrazione– il più ampio tentativo di narrazione in versi del grande poeta americano di origine canadese Mark Strand: ora in Tutte le poesie, Mondadori 2019, pp. 222-39). 

 

 

Per un esempio eloquente, di quella che si potrebbe definire una “funzione Blow-Up”, si pensi all’oltranza antiromanzesca di un testo di Nanni Balestrini dal titolo Tristano, uscito lo stesso anno del film di Antonioni (nel controverso convegno del Gruppo 63 sul Romanzo sperimentale, tenutosi a Palermo l’anno prima, Balestrini aveva dichiarato sprezzante: «i fili spezzati con la realtà non si riannodano più e basta, non ce n’è più bisogno» – a p. 133 nell’edizione a mia cura pubblicata da L’orma nel 2013 – e qui non importa il fatto che la sua opera letteraria a venire smentirà, persino clamorosamente, un simile assunto). Tornando alle narrazioni o de-narrazioni per immagini (non è un caso, però, che mostri un impianto spiccatamente visivo pure il Tristano di Balestrini…), si pensi ai capolavori di un altro grande autore di quella generazione, Alain Resnais: il quale, con un filo d’ironia forse, una volta ha spiegato le infrazioni al codice narrativo, da lui allora spregiudicatamente operate, ricordando come, subito prima e all’inizio della Seconda guerra mondiale, da adolescente fosse abbonato a riviste di fumetti americane che, per arrivare in Francia, dovevano attraversare l’oceano: un percorso talmente lungo che spesso le spedizioni si accavallavano le une alle altre, e poteva capitare che gli arrivassero in lettura prima le puntate successive e poi le precedenti. 

 

Mi sono ricordato di questo aneddoto quando ho visto la mostra di Marina Ballo Charmet, Sguardo terrestre, curata da Stefano Chiodi al MACRO nel 2013. Nella sala conclusiva e apicale dell’esposizione, infatti, era esposto un trittico (spesso le immagini di Ballo Charmet sono composte in successione orizzontale, mimando un “effetto panoramica”) tratto dalla serie Il Parco del 2006: immagini riprese in un parco parigino e intitolate appunto Paris, Les Buttes Chaumont. Ora, proprio in virtù di quello che potremmo definire il nostro inconscio cinematografico, quando vediamo una successione orizzontale di immagini siamo portati a ricondurla a una sequenza lineare, cioè a un ordine temporale – per noi che leggiamo da sinistra a destra – uniforme: a sinistra il “prima”, a destra il “dopo”.

 

 

Ma Marina Ballo Charmet disattende alla radice il presupposto di tale linearità («la sequenza, la ripetizione di fotografie di uno stesso soggetto, non ha per me un valore cinetico, né suggerisce una lettura da sinistra a destra, ma ha invece a che fare con una sorta di interruzione della narrazione»: Con la coda dell’occhio, p. 28). Le tre immagini – che riprendono persone sdraiate nell’erba a prendere il sole o a leggere il giornale, più lontano dei bambini che giocano coi loro genitori – hanno in comune gli stilemi cui il linguaggio dell’autrice ci ha abituato: il piano della composizione è s-centrato dall’abbassamento della prospettiva (sicché al centro dell’immagine non si trova il suo presunto “soggetto”, quello che ho appena descritto, bensì l’erba che si frappone fra esso e l’occhio della macchina) e la sua superficie è “macchiata” dal fuoco ondivago, che restituisce con precisione determinate parti del piano “allontanandone” altre in tratti più confusi.

 

Ma a rendere totalmente s-paesante l’opera è soprattutto qualcosa che in prima battuta percepiamo, invece, solo per via subliminale. La successione delle tre immagini infatti sembra, ma a ben vedere non è, quella logico-spaziale che risponde alla nostra ipotetica percezione “reale”. Dalla collocazione delle persone nelle tre fotografie, quella che si trova a sinistra (i bambini che giocano) in teoria dovrebbe invece – per riprodurre la “panoramica” del nostro sguardo – stare a destra. 

Viene così messa in discussione l’implicita credenza “narrativa” che, volenti o nolenti, attribuiamo alla fotografia nei confronti della realtà. Marina Ballo Charmet ha realizzato anche dei video, e parlando con Chiodi delle proprie immagini metropolitane ha definito, i suoi, «fermo-immagine del nostro vivere e camminare nella città»: come se ogni immagine servisse a “fermare”, e così appunto de-costruire, l’immaginario, interminabile film della nostra esistenza (la «lingua scritta della realtà», come il Pasolini anni Sessanta definiva appunto il cinema). La disposizione in serie (come, in questo caso, in trittico) delle immagini fisse, in una sorta di “effetto Kuleshov” della nostra attenzione, ci induce ogni volta a metonimicamente narrativizzarle, come appunto quando seguiamo un film. Così che l’infrazione di Ballo Charmet – nei confronti di questa sintassi, incongrua e implicita quanto, per lo più, strettamente vigente – ci turba in profondità. L’illusione di coerenza lineare, decostruita al proprio interno, fa vacillare il nostro senso del tempo, la nostra collocazione nello spazio e dunque, in generale, il nostro rapporto con la realtà.

 

 

Commentando i primi lavori della serie che dà il titolo al suo libro, Con la coda dell’occhio, Chiodi ha definito la fotografia di Ballo Charmet «una fabbrica di nulla» (nella postfazione citata, a p. 162). È un’espressione che mi ha colpito molto perché, proprio come non è astratto il cinema di Antonioni (i cui paesaggi metropolitani, come quelli del finale dell’Eclisse, ricordano inequivocabilmente quelli di Ballo Charmet), non si può definire astratta neppure questa fotografia: la quale, se mette a repentaglio il nostro ordine di lettura del mondo sino a “fabbricare il nulla”, è appunto in virtù dell’infrazione continua che perpetra nei confronti dell’ordine compositivo: come detto, tanto internamente alla singola immagine che nella relazione fra un’immagine e l’altra. 

Negli anni Sessanta sopra evocati si parlava molto, in letteratura, di «lettura subliminale» – chiamata in causa, in particolare, a proposito dell’opera di due narratrici donne, Ivy Compton-Burnett e Nathalie Sarraute –: la scrittura intendeva mostrare al lettore oggetti ed eventi che, di norma, sono collocati sotto la soglia della nostra attenzione (l’ottica fotografica normale di cui parlava Haussmann) e che dunque sta a noi ricostruire a posteriori (con la stessa attitudine analitica del Thomas di Blow-Up...). Questo sguardo, questa particolare impaginazione cognitiva dell’immagine da parte di Marina Ballo Charmet è una visione da lei esplicitamente definita «anti-antropocentrica» (Con la coda dell’occhio, p. 34; non a caso Jean-François Chevrier ha parlato, per certe sue fotografie, di «sguardo del cane»): nella misura in cui, s’intende, consideriamo propriamente anthropos solo l’essere umano adulto – coi sensi e il pensiero ormai codificati e, in qualche misura, standardizzati. 

 

 

Si recupera così una lunga tradizione, ben precedente a quella anni Sessanta che sinora ho richiamato ma che, a ben vedere, ne è la matrice diretta. Nei suoi scritti Marina Ballo Charmet si rifà infatti a precedenti illustri, “bisnonni” come Paul Klee o Matisse: il quale sosteneva che bisogna «guardare tutta la vita con gli occhi dei bambini» (citato in Con la coda dell’occhio, p. 20). Più alla radice, e in senso più tradizionalmente anti-antropocentrico, viene da pensare a uno scrittore leopardiano come Italo Calvino, che nei suoi ultimi testi vagheggia di uscire dalla percezione cognitiva del soggetto per conseguirne una non astratta, ripeto, ma certo estranea alla coscienza individuale, aliena all’identità soggettiva («magari fosse possibile», scriveva nei primi anni Ottanta nell’ultima pagina compiuta delle testamentarie Lezioni americane, «un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…»: Molteplicità, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Mondadori 1995, p. 733). Anche Gilles Deleuze cercava una «scrittura» che «ha fondamentalmente a che fare con la vita», ma non nel senso volgarmente voyeuristico dello show-biz, del biografismo individuale; viceversa «portando la vita allo stato di una potenza non personale» (dalle Conversazioni’77 con Claire Parnet: ombre corte 1998, p. 55): non la vita del singolo, dunque, ma qualcosa che appartiene alla specie – o al general intellect, parafraserebbe qualcuno – e che è dato ritrovare, prima dello sviluppo e appunto dell’individuazione, molto meglio nel bambino che nell’individuo adulto. 

 

Il che ci introduce alla ricerca di Ballo Charmet che in assoluto trovo più affascinante, quella della serie intitolata Primo campo: in cui si riproduce quello che si immagina il primo sguardo da noi portato all’esterno del nostro corpo, e che per oggetto ha il collo della persona – padre o madre che sia – che ci tiene in braccio appena nati. Si tratta naturalmente di un’astrazione, una ricostruzione virtuale; eppure almeno una volta – in un seminario per l’infanzia condotto con Elio Grazioli e Lorena Peccolo – Ballo Charmet ha effettivamente messo una macchina fotografica in mano a dei bambini (ancorché certo non neonati!), avendo così modo di riscontrare come le immagini da loro prodotte – prima appunto dell’uniformazione cognitiva, razionale, di uno sguardo a misura di uomo adulto – ricordino in certa misura, soprattutto per l’ottica iper-ravvicinata, quelle della serie Primo campo (Con la coda dell’occhio, pp. 126 sgg.). 

 

 

Non può che venire in mente Donald Winnicott: secondo il quale il volto della madre, e più in generale dell’essere adulto che accudisce l’infante, per quest’ultimo equivale in effetti a uno specchio. Nel saggio La funzione di specchio della madre e della famiglia nello sviluppo infantile (che è del ’67: in italiano è raccolto nell’antologia Gioco e realtà, Armando 2006, pp. 175 sgg.) lo psicoanalista britannico prende le mosse dal celebre testo di Lacan sullo «stadio dello specchio», ma se ne discosta decisamente per la direzione relazionale che prende (che varrebbe la pena commentare col pensiero radicalmente intersoggettivo di Emmanuel Lévinas sul volto e lo sguardo). Questa idea straordinaria mi ricorda quella di un altro grande scrittore, Carlo Emilio Gadda, che in un frammento gravitante nell’orbita del suo grande romanzo autobiografico, scritto fra anni Trenta e Quaranta ma pubblicato in forma incompiuta solo nel 1963, La cognizione del dolore (si legge alle pp. 527-35 dell’edizione critica a cura di Emilio Manzotti, Einaudi 1987), descrive il rapporto fra il bambino e la madre (cioè quello tra lui e sua madre) come appunto un rispecchiamento mancato. L’odio fra madre e figlio – dal quale provengono le fantasie di matricidio che avvelenano il romanzo – si produce nel momento in cui il bambino non riconosce se stesso nello sguardo della madre: l’uomo adulto ricollegherà il «male invisibile», che è all’origine della propria personalità, precisamente a questo errore di coincidenza. Tale rispecchiamento mancato è definito per contrasto, da Gadda, con un verso della IV Ecloga di Virgilio, «incipe, parve puer, risu cognoscere matrem».

 

Un verso di straordinaria ambivalenza: perché il risus può essere attribuito, anfibologicamente, tanto al bambino che alla madre (nel primo caso è l’espressione che accompagna, nel bambino, il momento in cui riconosce il volto della madre; nel secondo, il segno affettivo dal quale il bambino effettivamente la riconosce); ma l’ambiguità del v. 60 si scioglie, appunto per contrasto (e tormentosa resa filologica del testo virgiliano a parte), ricorrendo ai successivi vv. 62-3 – «Incipe, parve puer; cui non risere parentes / nec deus hunc mensa, dea nec dignata cubili est» –: colui al quale i genitori non hanno sorriso ne avrà la vita devastata, tanto sul piano sociale che su quello specificamente amoroso. (Diagnosi in qualche modo confermata dalle più recenti ricerche di psicologia infantile – quelle delle università di Oslo e di Uppsala pubblicate nel 2015 sul «Journal of vision» e riportate in un articolo di Elena Dusi uscito su «la Repubblica» il 2 luglio di quell’anno, col titolo Il mondo visto dagli occhi dei bimbi. «Così a cinque mesi decifrano un sorriso»: «i bambini hanno una vista molto ridotta e non percepiscono i colori», spiega lo psicologo Svein Magnussen, e «l’espressione più facile da identificare per i neonati è il sorriso».) 

Il frammento dal laboratorio della Cognizione del dolore s’intitola proprio Cui non risere parentes, ed è interessante che ogni volta che evoca questi versi-feticcio di Virgilio Gadda pensi pure alla figura proiettiva di Leopardi e alla sua aneddotica famigliare (ci si metteva pure l’onomastica, a fargli proiettare la figura della propria madre anaffettiva, Adele Lehr, su quella per antonomasia anaffettiva – Gadda la chiama «a-genetica» e «castrante» – del canone letterario italiano, Adelaide Antici). Troppo capzioso, forse, sarebbe ricollegare l’anti-antropocentrismo di Leopardi – dalle Operette morali alla Ginestra– a questo mancato rispecchiamento materno, che su di lui proietta Gadda (eppure com’è noto definisce «matrigna», Leopardi, quella «natura» che nega all’essere umano l’abitarla in armonia).

 

 

Ma colpisce ritrovare nel lavoro di Ballo Charmet questa medesima, duplice e in apparenza divergente, linea di ricerca: lo sguardo de-narrativo, s-centrato e anti-antropocentrico dei suoi paesaggi metropolitani, e quello invece iper-centrato dell’infantile Primo campo (ancorché, con s-centramento “iper-realistico” in effetti questo “manchi” ogni volta il volto, il risus, per concentrarsi sulla regione, del corpo parentale, che immediatamente vi sottostà; in un suo scritto, infatti, Ballo Charmet corregge appunto Winnicott con Resnik: Con la coda dell’occhio, p. 72).

In entrambi i casi, comunque, siamo di fronte a uno sguardo inquieto. Le due classi di immagini non hanno nulla di astratto, s’è detto, e neppure alcunché di doloroso (a differenza che in Leopardi o in Gadda); eppure ci inquietano profondamente entrambe. Se lo fanno è perché ci costringono in tutti e due i casi a fare nostro, a riscoprire nella nostra stessa memoria di osservatori, uno sguardo che rifiuta di assoggettarsi alla nostra tradizione percettiva. Quello di Marina Ballo Charmet è uno sguardo radicalmente insubordinato: ci mette di fronte a un’esigenza di liberazione, una liberazione che molti di noi – io per primo – troviamo inquietante, forse persino angosciosa, ma che in sé non ha nulla di distruttivo. Semplicemente ci trascina in luoghi distanti da quelli cui siamo abituati. 

 

In un suo scritto affascinante, intitolato Il documento di esperienza, Marina riflette su due suoi video, Agente apri e Frammenti di una notte, accomunati dal «mostrare le soglie, il margine fra il sonno e veglia, fra controllo razionale e abbandono» (Con la coda dell’occhio, p. 110) e ambientati rispettivamente in carcere e in ospedale. Quest’ultimo in una sezione problematica come quella dei cosiddetti «post-acuti» dove, per le condizioni molto gravi dei pazienti, i parenti sono ammessi a restare anche di notte a vegliarli: proprio come fanno i figli delle donne carcerate che in Agente apri (video realizzato in collaborazione con Walter Niedermayr), sino all’età di tre anni, possono soggiornare nel «carcere dei bambini», un’area riservata del penitenziario nella quale possono restare a contatto colle madri. «Agente apri» è l’espressione che il bambino rivolge alla guardia carceraria, alla fine del lungo travelling che lo segue mentre accompagna la madre verso il cancello di uscita. Lui potrà varcarlo, lei no. E qui davvero accediamo a un luogo paradossale, dove la liberazione coincide con l’accostarsi il più possibile alla condizione carceraria: un regime radicalmente diverso da quello che ci è abituale.

Non è un caso che nei suoi scritti Marina Ballo Charmet riprenda il concetto foucaultiano di «eterotopia» (Con la coda dell’occhio, pp. 117 sgg.). Luoghi come appunto l’ospedale (La nascita della clinica) o la prigione (Sorvegliare e punire), che Michel Foucault studierà analiticamente negli anni Settanta, sono accomunati – nella sua fondamentale conferenza del 1967, Altri luoghi – dal discostarsi dalle nostre abitudini, dalle sedi che ci sono consuete, dai luoghi in cui ci sentiamo a casa: sono luoghi che ci costringono a ridefinire la nostra identità cognitiva ed esistenziale, cioè appunto il nostro punto di vista. E, se è vero che questo linguaggio fotografico ci interroga così in profondo, non penso sia un caso che la sua matrice concettuale, la sua humus primordiale e diciamo il suo primo campo, sia riconducibile a quel momento della nostra storia e della nostra cultura, fra gli anni Sessanta e i Settanta, che oggi dai più viene stramaledetto: proprio perché ci costringeva a essere liberi. È il medesimo paradosso cui oggi ci mette di fronte il linguaggio di Marina Ballo Charmet. 

 

 

Era un tempo, quello, in cui l’arte che si vedeva, la musica che si ascoltava, le letture che si facevano inducevano le persone a prendere il mare aperto – un’apertura sconosciuta alle generazioni precedenti. Marina usa spesso un’espressione di Salomon Resnik, «l’errare delle immagini». L’errareè strettamente collegato all’errore: e in fondo tanto i suoi paesaggi che i suoi primi campi, secondo la tecnica classica della fotografia, andrebbero appunto rubricati quali “errori”. Anche il fotografo Thomas di Blow-Up commette un errore fatale: cercando di trarre una storia sensata dalle immagini, deve prendere atto che quel senso irrimediabilmente gli sfugge. Ma il suo è un errore vitale: il segno di una libertà e di un’insubordinazione, la presa in carico di una missione di libertà che il nostro tempo pare aver dimenticato.

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Paola Agosti. Elogio della discrezione

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Con la spiazzante saggezza dell’incoscienza, Forrest Gump ripeteva spesso che “la vita è come una scatola di cioccolatini: non sai mai quello che ti capita”. Vero. Lo stesso si potrebbe dire delle evoluzioni artistiche di stili e linguaggi, di scrittori, artisti e fotografi. Ai suoi esordi con la macchina fotografica, Paola Agosti non sapeva cosa le avrebbero riservato i sali d’argento. All’epoca frequentava i teatri d’Italia, come fotografa di scena. Dietro le quinte. Attenta a non disturbare lo spettacolo: a non oscurare l’immagine degli attori. Aveva iniziato al Piccolo di Milano, introdotta da Augusta Conchiglia. 

 

Era la fine degli anni sessanta e Paola Agosti era una giovane ragazza cresciuta a Torino. A casa sua era facile incontrare personalità del mondo politico e della cultura. Il padre Giorgio era stato partigiano e magistrato. Questore di Torino all’indomani della liberazione, poi dirigente d’azienda. La madre, Ninì Castellani Agosti, era la storica traduttrice di Jane Austen in Italia. Tra le più apprezzate, tanto da esserle poi intitolato un prestigioso riconoscimento. Primo Levi era un amico di famiglia. 

Forse è stato proprio nell’ambiente domestico che ha sviluppato il suo sguardo preciso e attento. Capace di cogliere la cronaca dal punto di vista di chi la osserva e di chi la vive, di proiettare chi si ritrova per le mani una sua foto hic et nunc proprio in quella stanza e in quel tempo. Con disinvoltura e senza soggezione, né impazienze.

 

Primo Levi, Canale (Langhe, Piemonte) 1978.


Trovarsi al momento giusto e nel posto giusto. Saper cogliere l’occasione con la dovuta discrezione. Questo è a mio giudizio il fil rouge dell’attività di una donna che oggi festeggia i suoi primi 50 anni con la macchina fotografica. Una carriera caleidoscopica, che come in un’antologia di fiabe e racconti è esposta in mostra a Roma, fino al 7 dicembre alla Galleria s.t. con il titolo: “Cronache e leggende”. Curata da Matteo di Castro, la mostra è una selezione di cinquanta opere. Una per ogni anno di carriera. Ma è solo un’idea. Più propriamente è la raccolta visiva del diario di una ragazza che ancora oggi continua a guardare la scena davanti a sé, muovendo il suo sguardo in più direzioni: le lotte degli operai, delle femministe, degli studenti, ma anche le foto di animali o di oggetti quotidiani. In una scena dominata dallo sguardo e dalla fisicità maschile, la sua fotografia non ha nulla di muscolare, ma un sublime esercizio di discrezione. La sua determinazione appare scandita da un controcanto di compostezza.

 

È nei ritratti che si compie con maggiore evidenza questa sua cifra. Ritratti che non sempre considera tali, ma preferisce chiamare scatti di cronaca. Non ha mai portato nessuno in uno studio di posa, ci tiene a sottolineare. Magari nelle loro case, nei loro studi, a un comizio, o casualmente per strada. La naturalezza del suo approccio è fuori dal comune.

Fu forse senza farsi vedere che Paola Agosti, fermò il viso bianco e tondo di Orson Welles fuori dal Sistina. Siamo a Roma nel 1969. Amalia Rodriguez si esibiva nel teatro romano, racconta, e Orson Welles si era affacciato a vederla durante le prove. Lo vide passare. Sfruttò l’occasione e scattò rapida, fissando per sempre il suo sguardo laterale e assorto. Illuminato per intero come da un riflettore sulla scena, il suo volto spunta da una massa scura, pieno come la luna. 

Da quel giorno in cui ha intercettato il regista di Citizen Kane, Paola Agosti non ha mai smesso di rubare con gli occhi: di cogliere la pausa di artisti, scrittrici, attori, registi e politici. Tra i primi ritratti politici quello di Salvador Allende con il cane (1970). Molti gli scatti fatti a Enrico Berlinguer, quindi quelli a Bruno Trentin. Come la foto che lo ritrae a Torino Mirafiori nel 1973, mentre parla agli operai. Lo scatto ce lo racconta come se fossimo là in mezzo alla folla. Trentin è lontano. Mentre parla con enfasi, con una mano tiene il microfono e con l’altra agita un foglio. Forse sono appunti. Il punto di vista è tra la folla. La figura di Trentin al centro dell’immagine è piccola. In primo piano ci sono le teste dei “compagni” tra cui l’occhio si fa spazio. Lo stesso anno, Paola Agosti è ad Algeri. Alla conferenza dei paesi non allineati sfilano tra gli altri: Yasser Arafat, Muammar Gheddafi, Fidel Castro, Indira Gandhi. 

 

Bruno Trentin, Fiat Mirafiori, Torino, 1973.


Dalla politica all’arte, nel 1971 Andy Warhol è a Roma per una serie di iniziative promosse da Graziella Lonardi Bontempo, mecenate indiscussa della scena artistica romana di quegli anni. Spesso ripreso dal basso, il suo Warhol è freddo come una statua di cera.

Molto diversa da questa è la foto che avrebbe scattato circa un decennio dopo a Buenos Aires a un altro gigante mondiale, questa volta della letteratura. È il 1980 e Paola Agosti è nella capitale argentina. Come ha raccontato di recente in un’intervista rilasciata a Francesca Bolina per le cronache torinesi di Repubblica, cerca Jorge Luis Borges sulla rubrica del telefono. Lo trova. Compone il numero e chiama. Dall’altro lato della cornetta una voce risponde: “Venga. La aspetto tra venti minuti”. Il bibliotecario più famoso d’Argentina, le dedica un intero pomeriggio. Lo fissa con uno scatto dall’alto. Lo scrittore è seduto comodo sulla sua poltrona. Il suo sguardo si gira lateralmente come se cercasse il gatto, senza però muoversi troppo. Inclina appena la testa. Di traverso. Le due figure, il poeta e l’animale, sembrano fluttuare, l’uno alter ego dell’altro. La scena è in penombra. La macchia bianca del gatto che gongola in terra sulla schiena è un colpo di luce. Borges è già cieco, eppure sembra guardarlo con complicità. La composizione è tagliata in due da una linea verticale che corre al centro dell’inquadratura, attraversando il volto, la cravatta, il ginocchio, la gamba e il piede di Borges. Sullo sfondo, oltre la poltrona il buio. La linea della poltrona e del bastone sul lato destro e quella del gatto sul lato sinistro della foto chiudono una piramide magica. La sola illuminata dalla luce. L’immagine sembra ritrarre il confine tra il reale e magico.

 

Jorge Luis Borges. Buenos Aires, 1980


Nel 1984 l’occasione è data dal libro che sta scrivendo Sandra Petrignani: Le signore della scrittura (La Tartaruga). Una serie di interviste a protagoniste della scena letteraria, come Anna Maria Ortese, Maria Bellonci, Elsa Morante, Lalla Romano, e molte altre. A dare corpo a un nuovo filone nel lavoro di Paola Agosti, quello della ritrattistica femminile, si aggiungono figure come Dacia Maraini o Natalia Ginzburg. Antecedente di questo filone era stato lo scatto fortuito rubato con permesso a Venezia nel 1982. Protagonista: la scrittrice Marguerite Yourcenar. Paola Agosti camminava per le calli della laguna. Osserva un’anziana signora mangiare una pizza in un bar. Non riesce a smettere di fissarla fino a quando non riconosce la scrittrice. La avvicina: “Mi scusi, posso fotografarla?” Senza scomporsi troppo la signora accetta. Chiede solo del tempo per tornare in albergo e ricomporsi. Possibilmente senza essere ritratta in strada. La foto è scattata da lontano. Ancora una volta lo sguardo è laterale. Uno scialle copre il capo e la gola di Yourcenar. Immagini di un altro tempo. Sembra quasi una contadina invece che una scrittrice in una delle kermesse più esclusive di sempre. Questo scialle, in contrasto con l’eleganza delle poltrone su cui si siede, la dolcezza del suo sorriso e la sincerità della sua pelle sono la sua bellezza e la sua forza.

 

A metà tra il piano della cronaca e la ritrattistica ci sono due lavori, due album potremmo dire, simili tra loro e distanti al tempo stesso. Sono le due facce dell’Italia del XX secolo. Il primo, alla fine degli anni settanta si chiama Immagini dal mondo dei vinti (Mazzotta 1979). È ispirato alle testimonianze raccolte da Nuto Revelli. Un diario di immagini che raccontano l’Italia immersa nella miseria, quella che fatica ad emergere. Sempre più sradicata dalle sue abitudini e dagli stili di vita. I residui di un’Italia che svuota le sue montagne e le sue campagne per riempire le città. 

 

Orson Welles. Roma, 1969


Poco più di dieci anni dopo, affianca Giovanna Borgese e pubblica Mi pare un secolo (Einaudi, 1992). Il libro nasce sul crinale del secolo e vuole essere un album di storie e ritratti di personaggi illustri. Qui si ritrovano alcuni scatti tra quelli fatti in precedenza e altri fatti proprio per l’occasione. Tra i ritratti un altro celebre regista: Federico Fellini. Ripreso sul suo set, mentre si diverte, scherzando con un cerchio riflettente come se fosse un’aureola. Anche Fellini è ripreso di tre quarti, come se stesse facendo altro che stare in posa.

 

Paola Agosti scatta senza esibirsi, né al suo soggetto, né dentro la foto. Restando sempre dietro le quinte. Perché è da dietro le quinte che si tiene lo spettacolo, che si regge il palcoscenico. È dietro le quinte che si svolge il lavoro senza il quale il pubblico non potrebbe vedere gli attori in scena. 

E chissà se questo modo di guardare lo ha conosciuto a casa da bambina o piuttosto in teatro. Primo Levi era un amico di famiglia. Passava spesso a casa sua a trovare i genitori. Tanto spesso che lo ritrasse molto poco. “Avrò occasione” si ripeteva. Fino a quell’aprile del 1987 quando una telefonata la smentì.

 

50 anni di cronache e leggende– Galleria s.t. Roma. A cura di Matteo di Castro. Fino al 7 dicembre

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Il paese più bello del mondo

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Il paese più bello del mondo insieme al “paese dei mille campanili” sono espressioni ben conosciute per definire l’Italia nelle sue bellezze e nella sua straordinaria varietà.

La prima è anche il titolo del volume di Alberto Saibene (UTET 2019); un libro minuziosamente documentato in cui si ripercorre, a partire dalla genesi del movimento ambientalista nel nostro paese, la storia della nascita del Fai (Fondo ambiente italiano) e del suo progressivo affermarsi fino ai giorni nostri.

Una storia che per gran parte è quella di un’impresa portata avanti da un manipolo di intellettuali sensibili, sognatori quanto lungimiranti e da una ristretta cerchia di influenti personalità della più ricca e illuminata borghesia.

In un caso come nell’altro Saibene ci racconta la storia di un’impresa sognata, voluta e realizzata sostanzialmente da ristrette aristocrazie sociali – nel senso nobile del termine – per le quali la progressiva erosione e distruzione di gran parte di ciò che rendeva il nostro il Paese più bello del mondo, a partire dal secondo dopoguerra, appariva via via inaccettabile.

 

Foto di Dario Fusaro, 2008, © Fai, Fondo ambiente italiano.


Un momento fondamentale per comprendere questo viaggio è il 1984, anno di questo percorso già “maturo”, ma nel quale il Fai – costituito formalmente nove anni prima – e ancora con soli 1500 iscritti si avvia a “diventare grande” nella presenza nella società italiana e nella consapevolezza di tutti. In quell’anno il Fai acquisisce infatti la proprietà di San Fruttuoso, “un luogo di una bellezza incomparabile, perfetta fusione tra arte e natura” secondo le parole di Alberto Saibene. Un momento fondamentale perché quell’acquisizione evidenzia un salto di qualità nella presenza del Fai ma anche perché in questa fusione di cui scrive l’autore sta in fondo la bellezza del paesaggio e dell’ambiente che quel manipolo di volontari e sensibili sognatori si erano prefissi di proteggere e valorizzare nell’interesse di tutti; una bellezza dove geografia e storia erano un tutt’uno, dove l’umano era altrettanto importante del naturale e ad esso strettamente abbracciato. È con l’acquisizione dell’area di San Fruttuoso che quell’idea di bellezza e il ruolo del Fai cominciano a diventare ed essere un patrimonio comune più allargato.

 

Foto di Matteo Girola, 18/5/2017, © Fai, Fondo ambiente italiano.


Di quel manipolo di illuminati, su tutti, nel libro come nella storia, emergono per ruolo e importanza le figure di Antonio Cederna, Elena Croce, Renato Buzzoni, Giulia Maria Crespi, ma sono moltissimi i nomi e le vicende umane che Saibene segue quasi capillarmente nella loro azione sull’origine e l’affermazione del Fai. Lungo questo percorso, lungo, contrastato e contraddittorio, emerge anche il lento affermarsi della consapevolezza della bellezza dell’ambiente e del paesaggio nazionale come patrimonio collettivo.

 Oggi questa consapevolezza sta forse diventando nella coscienza di ognuno, più o meno sopito, più o meno evidente, un diritto che meglio ci definisce nella nostra appartenenza a una compiuta “cittadinanza umana” ancor prima che italiana.

 

Foto di Paolo Barcucci, 2015, © Fai, Fondo ambiente italiano.


Se oggi, retrospettivamente possiamo dire che è andata così, allora la storia del Fai diventa inevitabilmente anche un pezzo della nostra storia oltre che quella delle vicende umane dei “padri fondatori”. Ed è qui che sta forse il merito maggiore del Paese più bello del mondo

Perché se Saibene segue meticolosamente le vicende di un ristretto cenacolo e delle loro relazioni sociali, nel libro, sullo sfondo, appena tratteggiata ma pur densa e evidente nella sua presenza, traspare la società italiana nel suo risveglio affannato e affamato del primo dopoguerra, il suo agitarsi negli anni della vorticosa ricostruzione, per risalire a quelli del primo boom economico, a quelli della ricerca e della conquista del benessere e infine a quelli della nostra attuale modernità. È come una foto panoramica in negativo della società italiana che attraversa cinque decenni.

 

1977, © Fai, Fondo ambiente italiano.


La società italiana cambia e si trasforma radicalmente attraverso profondi mutamenti economici, demografici, ambientali, sociali. A fine anni settanta l’Italia è un paese profondamente diverso da quello di tre decenni precedenti, se ne è andata una generazione – non una qualunque, ma quella che aveva fatto da cerniera tra la modernità e il mondo della tradizione – il tessuto economico, a chiazze, è diventato accentuatamente industriale, la rete autostradale è stata completata, le città enormemente ingrandite, caotiche, con periferie imbruttite, il sud e tutte le aree interne drammaticamente spopolate. Non sembra forse una foto fish eye in negativo che si adatta ancora più o meno perfettamente ai nostri giorni? Nulla è sostanzialmente mutato nell’ambiente e nel paesaggio.

Probabilmente, è invece mutato molto nella consapevolezza comune il valore della bellezza residua presente nel nostro paese. Gli investimenti culturali di successo che negli ultimi lustri hanno visto protagoniste diverse città italiane e distretti territoriali sono elementi evidenti di una mutata condizione e segnano una pagina nuova e attuale del nostro rapporto con il patrimonio culturale – materiale e immateriale – che ci appartiene. 


È probabilmente su questa direzione che il nostro paese – tra i più ricchi, se non il più ricco in patrimonio culturale – potrà guidare con relative certezze almeno parte del proprio futuro.

Di questa consapevolezza e di questo percorso il Fai, i suoi uomini e le sue donne, ne sono stati protagonisti, in qualche modo attori principali.

 

Domani 17 novembre 2019 alla Triennale di Milano, in occasione di Bookcity, Giovanni Agosti, Andrea Carandini e Alberto Saibene presenteranno il libro Il paese più bello del mondo, UTET, 2019.

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Il FAI e la sfida per un'Italia migliore
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Palermo - Milano, Antonino Costa

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La forma dell’Italia come la vedono i fotografi che la vivono e la attraversano. Le città, i paesi, le periferie, la campagna, i luoghi delle aggregazioni, le vie, i negozi e l’ambiente naturale vanno a costituire un patrimonio culturale da osservare, come le relazioni che si stabiliscono tra le persone e gli spazi. Ad ogni fotografo e fotografa chiediamo di esplorare i loro archivi e scegliere dieci foto che rappresentino l’Italia, accompagnate da un unico testo, o da dieci brevissimi testi che fungono da didascalie, in cui ognuno racconta come e perché ha realizzato i suoi scatti. L’insieme delle loro immagini andrà a costruire il mosaico degli sguardi, che via via daranno corpo all’Italia di oggi.

 

Venditori di pesce a Mondello. Palermo, Italia. 2009.


Fotografia tratta dal lavoro Palermo come un’infanzia

 

Nel 2009, molto probabilmente ero nel pieno della mia vita milanese. In quel tempo lavoravo come aiuto operatore sui set cinematografici. Un lavoro duro e molto tecnico. Mio figlio aveva sei anni e mi ero separato dalla madre da circa due anni. In sostanza di quel periodo ricordo che era veramente un casino. Molto raramente tornavo a Palermo, non cosciente, ancora, di quanto mi rigenerassero quei brevi soggiorni nella mia città natale. Viaggio dopo viaggio avevo cominciato a fotografare, con una vecchia Rollei, tutto ciò che mi riportava a quel passato fanciullesco. Nasceva così il lavoro fotografico Palermo come un’infanzia, terminato poi nel 2016… mi pare (anno più anno meno).

Nella foto ritraggo il signor Giuseppe nell’atto di imbustare il pesce “pulito” (in questo caso un polpo). Giuseppe imbusta e basta, fa da aiutante a Nicolino che è il pescivendolo; di lui si scorgono il braccio e i coltelli poggiati sul bancone; coltelli che gli furono lasciati dal padre, anche lui pescivendolo; mestiere che come spesso accade in Sicilia è fatto ad arte e che nel nostro dialetto si dice Rigattèri.

 

Scuola primaria. Milano, Italia. 2018.


Fotografia tratta dal lavoro Barona.

Mi ero stabilito da quelle parti da circa un mese e dopo qualche tempo esplorai la zona delle risaie che qualcuno del luogo mi aveva indicato come una bella passeggiata. Come di solito non portavo la macchina fotografica. E lì che ho visto il palazzo di edilizia popolare che mi ha indotto a cominciare questo lavoro fotografico, ritornai così qualche settimana dopo con la macchina fotografica che riuscii a trovare in prestito. Presi del tempo pure per decidere se usare una pellicola in bianco e nero o a colori, scelsi quest’ultima.

Quando iniziai a scattare c’era il sole basso dell’inverno milanese.

 

Finestra di un palazzo di edilizia popolare. Milano, Italia. 2018.


Fotografia tratta dal lavoro Barona.

 

Quello che mi ha colpito, credo sia stato il silenzio attorno a questo palazzo, dove nei giorni successivi ho provato ad avvicinarmi sempre di più, ammetto con circospezione e cautela, perché in certe passeggiate precedenti di sopralluogo, avevo potuto riscontrare una certa durezza di linguaggio e anche negli sguardi in alcuni inquilini che si trovavano giù nei piazzali circostanti.

 

 

Parco Andrea Campagna. Milano, Italia. 2018.


Fotografia tratta dal lavoro Barona.

 

Nel primo rullino, non ho fatto in tempo a instaurare qualche dialogo con gli abitanti del palazzo. Ho scattato furtivamente. Solitamente cerco, dopo aver preso confidenza con l’ambiente, di fare alcuni ritratti; pochi comunque.

Mi è capitata un’occasione di contatto con le persone con questa fotografia, che ritrae il padre e figlio seduti sulla panchina; poco prima del crepuscolo. Gli ho domandato se potevo fotografarli nella posizione in cui stavano. Non mi hanno chiesto perché. Mi ero comunque presentato come uno che stava fotografando i dintorni. Tutto molto rapidamente: uno scatto, un ringraziamento e un saluto. Non so se guardassero a un futuro migliore, desiderando un trasloco, magari abitavano nel palazzo fatiscente che avevo fotografato nei giorni precedenti, oppure chiacchieravano compiacendosi della loro nuova abitazione che avevano di fronte, alla quale mi sembrava guardassero e che è un palazzo più bello.

 

Tramonto nei pressi di un palazzo di edilizia popolare. Milano, Italia. 2018.


Fotografia tratta dal lavoro Barona.

 

Era febbraio inoltrato quando ho cominciato a scattare, e nel primo rullino di trentasei pose c’è la prima impressione istintiva di ciò che mi aveva interessato della zona della Barona che ho circoscritto con le fotografie di questa serie.

Dopo qualche giorno che gironzolavo attorno al palazzo di edilizia popolare che avevo individuato, ebbi il coraggio (avendo tastato la diffidenza di alcuni inquilini) di spingermi nel portico, proprio sotto le finestre del primo piano.

Il tempo atmosferico cambiò nei giorni seguenti, preparandosi alla nevicata che poi arrivò; riuscii a finire il rullino prima che il paesaggio imbiancasse e non ebbi poi modo di fare altri scatti lì.

 

Piazza Vittorio. Roma, Italia. 2002.


Fotografia tratta da nessun lavoro, ritrovata in un cassetto del mio archivio.

 

Di questa foto non ricordo nulla, o quasi. Ricordo che avevo ancora la Rollei, l’avevo comprata di seconda o forse terza mano. Ricordo che ero a Roma… innamorato della ragazza con la quale l’anno dopo ci feci un figlio e per poi separarci qualche tempo dopo. Non ricordo come mai mi trovassi a Piazza Vittorio, forse ero appena arrivato in città o forse stavo andando in stazione per ritornare a Milano; perché ero andato a trovarla appunto a Roma. Comunque camminavo da solo in quel momento. Avrò guardato verso la piazza e scattato la foto ai ragazzini che giocavano a pallone.

Ho ripensato a questa fotografia solo ultimamente e ho voluto inserirla nella selezione preparata per la mia mostra “Italie”. Non facendo parte di un mio progetto fotografico, che tengo separati in singole cartelle nei cassetti del mio archivio metallico, ci ho messo un po’ di tempo a ritrovarla.

 

Gioco dell'antenna a mare durante i festeggiamenti dei santi patroni Cosma e Damiano a Sferracavallo. Palermo, Italia. 2002.


Fotografia tratta dal lavoro Palermo come un’infanzia

 

Dal giocare per strada con un pallone in una piazza romana a giocare su un’antenna insaponata sospesa sul mare per acchiappare la bandiera posta nella sua punta più esterna ne passa. La foto precedente e questa sono state scattate nel 2002. Lo so solo perché ho datato i negativi. Certamente in quell’anno che era circa il sesto dopo che avevo lasciato Palermo, avevo iniziato a sentire la mancanza della mia terra, vivendo ormai a Milano. Ero però ancora lontano dal pensare a un progetto fotografico (quello che poi scaturì in Palermo come un’infanzia e che è carico di nostalgie e situazioni personali complesse); in quel tempo, nel 2002 intendo, ero spensierato e fotografavo come un turista. Durante uno dei miei soggiorni in Sicilia mi trovai a Sferracavallo, piccola borgata di pescatori vicino a Palermo. Avevo saputo che alla fine di settembre si festeggiano i due santi patroni Cosma e Damiano; due medici romani gemelli che furono decollati, martiri insomma. Arrivai nella borgata e la trovai piena di gente, i festeggiamenti cospicui e coreografici; coi due simulacri dei medici nell’atto di benedire portati a spalla sulla vara dai baldi giovani della relativa confraternita che con sapienti sforzi sapevano simulare una sorta di ballo, di annacamento dei due santi… Essi a quanto pare, uscirono dall’acqua del mare, senza teste «ballando ballando». E fu il miracolo! Che li eresse a santi patroni di Sferracavallo.

 

Giocatori di carte in un bar della periferia. Milano, Italia. 2015.


Fotografia tratta dal progetto Bar, ancora in corso.

 

La periferia sud di Milano, uno dei tanti bar ormai gestiti dai cinesi che hanno imparato a fare il caffè, il caffè ristretto, il caffè macchiato, il cappuccio (cappuccino dalle mie parti), il marocchino e a sfornare ottime brioches congelate. Certo il bar, un tempo, era una connotazione della nostra bella Italia. Da sud a nord andare al bar per noi italiani è in parte un rito. Era in uso a Napoli, ma si faceva anche a Palermo, di pagare due caffè anche se, se ne riceveva uno. Bastava che il cliente ordinasse il caffè sospeso e questo andava a beneficio di uno sconosciuto avventore, bisognoso, che poteva richiederlo in un successivo momento.

Che altro dire di questa foto: ho esposto e messo a fuoco il lampadario che mi colpì subito entrando, come unico elemento originario rimasto in questo bar.

 

Parcheggio sul lungomare di Romagnolo. Palermo, Italia. 2016.


Fotografia tratta dal lavoro Romagnolo: lavoro a cavallo tra Palermo come un’infanzia e Brancaccio.

 

Il ciclo di fotografie riguardanti questo progetto sancisce la fine di Palermo come un’infanzia. Ero andato a fotografare quest’antica spiaggia del capoluogo siciliano, disposta a sud del golfo.

La storia di Romagnolo risale al 1800 quando le nobili famiglie palermitane avevano costruito le loro case di villeggiatura in questa parte di costa cittadina.

Un tempo, quando mio padre era bambino, negli anni ’50 e lui viveva lì, la spiaggia aveva ancora una certa rilevanza, c’erano stabilimenti balneari in funzione. Poi il costante declino e l’abbandono. Negli anni più recenti, dopo incurie, abusivismo e scarichi illeciti nel nostro bel mare, pare sia cominciato (alla maniera e nei tempi palermitani) un piano di rivalutazione dell’area. 

Questa foto risale al 2016: la bandiera nuova di pacca dell’Italia fronteggia quella vecchia e logora, posta a sinistra della composizione, e che tuttavia pur ridotta in brandelli, continua a ostentare un certo vigore e una dinamicità nel movimento impostagli dal vento di Ponente.

 

Fotografia tratta dal lavoro Borgo Nuovo.

 

Ecco siamo alla fine di queste dieci fotografie scelte tra le venticinque che saranno in mostra alla fine di novembre a Bruxelles. La mostra ha come intento di parlare dell’Italia. Certo la mia Italia è Milano e Palermo, a parte una divagazione nella città di Roma.

Volevo terminare questa breve rassegna con la foto del polpo, o, se si preferisce quest’altra descrizione: la foto del braccio del venditore ambulante che lo innalza. È tra le mie foto più recenti, scattata appena un anno fa (da allora non ho ripreso ancora la macchina fotografica in mano… ma neanche ne ho una, come al solito).

Ero andato nel quartiere di Borgo Nuovo che si sviluppa ai piedi del monte Cuccio, stando lì non sembra di essere in una città di mare.

Ho cominciato a fotografare Palermo nel 2001 (con una foto che qui non è presente e non lo sarà neanche a Bruxelles). Mi sono mosso sempre di più nei suoi quartieri popolari del centro e della periferia. Quartieri, specie quelli periferici, che hanno una brutta reputazione. Lasciati per decenni al loro destino, dove l’acculturazione stenta ad attecchire; ma dove anche e per fortuna l’omologazione e la globalizzazione hanno un freno. La gente che le abita, il popolo, mantiene codici di comportamento antichi (a volte pesanti) e parla il dialetto.

A Milano ho cercato e fotografato la mia Palermo.

 

Italie, Italies, Italiës”, la mostra personale del fotografo Antonino Costa, ha aperto il 28 novembre all'Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles e potrà essere visitata sino al 20 dicembre 2019.

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Wo | Man Ray

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Di mostre su Man Ray se ne sono viste molte, anche recentemente, quindi plaudiamo alla bella idea che rende originale e anche questa volta non ripetitiva l’esposizione, Wo | Man Ray, a Camera, Torino (fino al 19 gennaio 2020): l’Uomo Raggio e le sue Donne Raggio, il Fotografo e le sue Donne, non solo modelle ma soprattutto assistenti e allieve. L’idea non è scontata, non è pettegola o furba, come certe biografie in cui di un artista si raccontano solo le avventure e relazioni amorose come un brutto romanzo d’appendice, ma perché qui il rapporto è valorizzato nei suoi apporti all’arte, alla fotografia. Dell’uomo infatti, delle sue vicende si dice solo quel che serve e che non mortifica né lui né la donna, mentre al contrario ecco che proprio della donna viene ad emergere il ruolo attivo, interattivo, creativo. Anche della modella, aspetto a cui si pensa solitamente poco.

 

 

Così Kiki de Montarnasse, la prima in ordine cronologico, Man Ray appena sbarcato a Parigi dagli Stati Uniti nel 1921, diventa una cocreatrice con il Fotografo. Mettiamo l’iniziale maiuscola perché qui si vede bene che Man Ray si autoritrae sempre come fotografo, più che come individuo, insieme all’apparecchio fotografico, intento a maneggiarlo, guardando perlopiù di lato, mai o quasi verso di noi se non per sottolineare ulteriormente la sua identificazione con la macchina. Kiki ha un corpo particolare, si racconta che si vergognasse a posare nuda, e allora sceglie come stare, nega alcune posizioni; d’altro canto è audace, non si risparmia; forse proprio così ha contribuito all’invenzione di queste fotografie, come a quella famosa che la riprende da dietro, piegata, con le mani che coprono le parti intime. E che dire delle sue labbra? Era la moda, quel rossetto che dà una forma così accentuata alle labbra sottili? E gli occhi, quante invenzioni! Aperti, chiusi, sognanti, sorridenti, piangenti, ingranditi fino a sembrare non si sa se fiori o piante carnivore o altro organismo vivente. La più spettacolare per me non è Violon d’Ingres, forse la più famosa, ma Noire et blanche, con quel gioco solo apparentemente di opposizioni, la donna bianca e la maschera nera, che ne fa invece l’una il sogno dell’altra. Così il bianco e nero stesso diventa un rapporto onirico e la fotografia il suo prodotto.

 

 

Quella di Berenice Abbott è forse la sala più interessante e nuova della mostra, il paragone tra i suoi ritratti e quelli di Man Ray è una sorpresa, il fronteggiarsi di due modi opposti di ritrarre, entrambi ai massimi livelli. (E la presenza in mostra del ritratto che di lei fece Walker Evans apre una terza finestra, un terzo polo dialettico, ma lasciamo ad altra occasione la riflessione.) Man Ray pensa alla forma, all’arte, non alla persona; Abbott pensa al contenuto, alla restituzione dell’“uomo o donna nuovi”, alla singolarità dell’individuo speciale, originale, artista. Bellissimo il suo uso dell’asimmetria, dei gesti, del piglio di sfida (Violette Murat), dell’indifferenza (James Joyce). Il doppio ritratto, di fronte e di profilo, di Eugène Atget, il vecchio fotografo da lei riscoperto, è impressionante: senza espressione, era diventato così, era diventato una fotografia, da qualsiasi lato lo si prendesse.

 

 

Lee Miller era inglese e diretta, aristocratica e bellissima, e lo sapeva; si presentò a Man Ray, che non voleva assistenti e men che meno allievi, dicendo appena aperta la porta: “Sono Lee Miller, la vostra prossima allieva”. Non si poteva dirle di no. È diventata una grande fotografa? Meno originale delle altre, mi pare, per quanto comunque brava. Certamente come modella non la dimenticheremo più: il suo profilo solarizzato è un capolavoro, ma soprattutto suo è il busto nudo su cui si proiettano i giochi di luce delle tende, splendidamente commentato da Rosalind Krauss, sulla scorta del mimetismo nevrastenico di Roger Caillois, come l’immagine dello spazio perturbante, cioè vivo, come fosse a sua volta una presenza impalpabile, un fantasma, che non si proietta sopra il corpo che lo occupa ma cerca di possederlo.

 

 

Poi c’è Dora Maar: anche il suo volto solarizzato è indimenticabile, ma molto diverso da quello di Lee Miller, inscenato – come lei effettivamente era, sempre sopra o sotto le righe – nel gesto e nelle stoffe che lo avvolgono, per evidenziare il contrasto tra le sue mani e le altre piccole surreali. Certo, l’invenzione è notevole e lei stessa la riprenderà nelle proprie fotografie. Fu dunque sua o di Man Ray, viene da pensare? Di loro insieme è la risposta qui. Anche la sua sala è una scoperta per l’Italia, che non la conosce molto se non come donna per un certo periodo di Picasso, la “piangente”, come la chiamava esasperato, rendendola famosissima nei numerosi ritratti con le lacrime che scorrono dagli occhi. Come fotografa si inserirà perfettamente nella corrente surrealista, con invenzioni di animali fantastici tanto più conturbanti in quanto in fotografia.

 

 

Varie altre donne si ritrovano nella mostra, elencarle tutte sarebbe troppo lungo qui, ma c’è attraverso di loro la storia in filigrana di quel periodo e contesto storico artistico. C’è Nusch Éluard, moglie del poeta e audace musa del Surrealismo, che restituisce qui il risvolto lesbico e di ménage à trois dei rapporti tra i suoi protagonisti. C’è il famoso album privato di nudi e c’è l’ardito album, del 1929, con poesie di Benjamin Péret e foto sessualmente esplicite del Nostro.

 

 

Nel 1940, allo scoppio della guerra, Man Ray torna negli Stati Uniti, dove conoscerà Juliet Browner, che sarà la sua ultima moglie. La mostra finisce con la serie che ha lei come soggetto, una raccolta di 50 ritratti intitolata Fifty Faces, in cui Man Ray ha di fatto riassunto tutta la sua carriera, tutte le sue invenzioni, da quelle dadà a quelle surrealiste, dalle solarizzazioni ai veli, fino a quelle introdotte nella fotografia di moda, e ai ritocchi a matite colorate e altra tecnica, insomma cinquanta volti di Juliet e al contempo cinquanta facce-sfaccettature di Man Ray stesso. Giusta conclusione del taglio della mostra, che sancisce l’inscindibilità dei rapporti fino a farne un carattere intrinseco della fotografia, una specialità dell’arte.

La mostra è accompagnata da un catalogo, che però non era ancora pronto nei primi giorni dell’apertura e di cui quindi non possiamo rendere conto, ma che sarà senza dubbio a sua volta un volume necessario, dato l’insieme di immagini mai viste insieme, a confronto l’una con l’altra.

 

WO | MAN RAY. Le seduzioni della fotografia, a cura di Walter Guadagnini e Giangavino Pazzola, Camera, Centro italiano per la fotografia, via delle Rosine 18, Torino, da17 ottobre 2019 - 19 gennaio 2020.

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La camera cieca

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Compatto. Almeno virtualmente la si immagini pronunciata, questa parola, con l’accento di Lello Baldini. Suppongo non solo a me, gli ultimi tempi prima di andarsene (con la discrezione che sempre lo aveva contraddistinto), diceva che gli sarebbe piaciuto pubblicare i suoi testi in forma non più scritta, bensì orale. Dev’essere stata verso la fine del 2004, l’ultima volta che ci siamo sentiti per telefono. (Mi piaceva parlare al telefono con Baldini. Non pensavo, le troppe poche volte che è successo, a quanto il motivo – con angoscia già kafkiana – fosse attestato nella sua poesia; si pensi a Mo acsé, in Ciacri, e al formidabile Pronto! Pronto! di Intercity.) «Ma sì, mi piacerebbe fare un compàtto», diceva tutto divertito. Intendeva un compactdisc, cioè il supporto tecnologico sul quale era norma, allora, “pubblicare” una voce. E così quando Simone Casetta, una rivoluzione tecnologica dopo, mi ha parlato per la prima volta del suo progetto – di inscatolare quella voce unica in un compàtto che tale fosse, pure, in quanto oggetto: il box-monolite che ora finalmente vede la luce, cioè, grazie anche alle arti grafiche di Leonardo Sonnoli – mi è subito sembrata, questa sua, la quadratura (è il caso di dire) del cerchio.

Perché compatto, si capisce, non è solo il contenitore, ma anche il contenuto: il corpo fonico e gestuale, cioè, di una poesia che è inseparabile, per la memoria almeno di chi ha avuto la fortuna di conoscerlo, dal sòma del suo artefice. Il suo linguaggio del corpo: l’inflessione, il fraseggio, il ritmo, la dinamica e l’agogica dello strumento vocale. Ma anche la gestualità, la postura, il raggio dello sguardo. Ogni volta che diceva le sue poesie, quel signore altrimenti così compassato, all’improvviso cominciava a emettere – così, come se respirasse – un torrente lavico di parole, un flusso ininterrotto di singulti, soffi, scoppi; fruscii, schiocchi, scivolamenti; languori, berci, almanaccamenti. Tutto un teatro, per voce sola. O il monologo d’un selenita appena sbarcato sulla Terra: cogli occhiali dalla montatura pesante e la bottiglia d’acqua a portata di mano. (E la si ascolti ora, isolata da ogni contingenza esterna, magari tappati nel microcosmo d’una cuffia; così “vicina”, la voce di Baldini, si ha modo d’apprezzarla ancora di più: nella sua matericità di musica concreta, sobbollente e screziatissima, che ci fa percepire nella più ribalda immanenza tutti gli elementi: la ruvidezza terrosa dell’heimat, l’improvviso fiammeggiare rauco, la liquidità dei più fluidi nessi consonantici e, certe rare e indimenticabili volte – si ascolti l’explicit mirabile di Lói–, l’aerea soavità di un dopo-tutto che sa di paradiso: quello, almeno, di cui è lecito fare esperienza sulla terra.)

 

La Cheursa.

 

C’è da sperare che gli sforzi comuni degli aficionados, che dopo anni di stasi si sono affollati in uno scorcio di tempo assai concentrato (Martina Biondi che con Silvio Soldini ha realizzato il bel documentario Treno di parole; Daniele Benati ed Ermanno Cavazzoni che in una collana alquanto selenita a sua volta, la «Compagnia Extra» di Quodlibet, di Baldini hanno proposto una sorprendente Piccola antologia in lingua italiana; e ora l’incrollabilmente tenace Casetta con questo Compatto), riescano finalmente a far conoscere, al pubblico della poesia, quello che è uno dei suoi maggiori autori dell’ultimo mezzo secolo. Un maestro tanto malnoto, ancora, quanto indiscusso. 

L’aneddoto l’ho già raccontato una volta, ma è il caso di ripeterlo. L’ultima volta che lo incontrai di persona, Baldini, fu a Milano: spettatore di una mostra dedicata a uno che aveva conosciuto bene, Vittorio Sereni. Si strinsero attorno a lui, in piccolissima folla, i suoi (allora) giovani ammiratori. Si avvicinava il suo ottantesimo compleanno e si scherzava, lo si prendeva un po’ in giro, anche: arrivederci al Nobel, gli dicemmo ridendo; e lui con noi. Solo con l’esprit de l’escalier ho riflettuto, arrossendo, che quel premio screditato gli svedesi l’hanno dato a scrittori, anche italiani, che a Baldini non avrebbero potuto legare i lacci delle scarpe. La prima volta che l’avevo incontrato, invece, era stato un pomeriggio in cui avrei dovuto presentarlo, in una piccola cittadina nei pressi di Bologna. Non l’avevo mai visto e per un disguido non c’era nessun altro, insieme a me, ad accoglierlo. Così quando quel signore distinto se ne uscì dalla Uno bianca targata Milano, vecchiotta ma in buono stato, mai più avrei pensato che fosse arrivato il grande Baldini! Poco mancò che dovesse esibire, per convincermi, la carta d’identità.

Solo a posteriori, anche in questo caso, mi è venuto di pensare che quel riconoscimento, in tutti i sensi tardivo, in effetti già annunciava l’esperienza unica che di lì a poco si consumò (al «cinema teatro Italia di Castenaso» nella primavera del 2001, come deduco dalla dedica che mi fece, qualche tempo dopo, di un suo libro). Perché ovviamente per me, tutt’altro che fiero civis capitolino, ascoltare i suoi testi in santarcangiolese significa non capire, in sostanza, neppure una delle parole che li compongono. Eppure quando in quella purtroppo unica occasione ho assistito all’esecuzione live dei suoi testi da parte di Baldini, ecco, ho avuto l’illusione euforizzante di capire tutto. Cioè, per essere meno ambivalenti, di capirli nel loro insieme.

 

Non ricordo se nel set di quella famosa sera a Castenaso fosse inclusa pure La chéursa, per esempio. La leggi sulla pagina, cioè nello spazio discreto in fondo alla pagina in cui Baldini confinava le sue magnifiche auto-versioni (una “prossemica tipografica”, ben descritta una volta da Fabio Zinelli, che ha sempre il suo specifico significato nella poesia in dialetto), e ammiri la reversibilità fra cacciato e cacciatore che sarà codificata da Caproni (ma dopo il ’76 della princeps di E’ solitèri) e del resto già c’era, implicita, in Kafka (se non nell’Inferno dantesco, col mal seme d’Adamo trafelato dietro una ’nsegna senza senso). Ma la ascolti, ora, qui nel Compatto. Non so se qualcuno abbia mai calcolato la velocità d’esecuzione dei testi letterari, ma c’è motivo di credere che la performance di Baldini si candiderebbe a qualche primato mondiale: ventotto versi, una pagina e mezza, in quarantacinque secondi! La sostanza rapinosa del testo fonico esprime a meraviglia l’ansia senza nome che lo riempie: anche se non possiamo capire, appunto, il significato delle singole parole – i curtéll, il brètt, la paéura – che quell’ansia esplicitamente dicono.

 

E soliteri.

 

O si prendano le poesie più debitrici nei confronti della grande tematica esistenzialista dell’Assurdo. La scelta out of joint dell’icastico Basta!– fra Pirandello e un Emmanuel Carrère a venire –, prima che nei bafi scoppiettati in clausola, è in quella postura baldanzosa, appunto assurdamente fiera della propria scelta, nella quale all’ultimo verso ci si presenta il personaggio. E così, con analogo finale a sorpresa, nell’emblematico E’ solitèri: che riscrive il calcolo dei dadi che più non torna del grande maestro Montale (la cui lettura, imposta un bel giorno al «Circal de’ giudéizi» santarcangiolese dal piccolo maestro Guerra, Baldini ricorderà sempre come decisiva nella sua iniziazione al moderno). E da un altro Montale, quello del terrore di ubriaco che saluta il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me, proverrà poi la torsione metafisica data all’altro tema ricorrente della solitudine – e si dica pure solipsismo –, in tal modo sottratto al patetismo dell’aneddoto per acquistare un brivido ontologico e quasi gnostico (non compresi in Compatto la tormentosa Nòta della Nàiva e i fulminanti Mo acsè e Cucù di Ciacri– e chissà che la scelta di Baldini, di aggirare in questa sede i capitoli in tal senso più esposti, non sia dettata dalla volontà di almeno in parte smarcarsi, da questa marca culturale così connotata; non può in ogni caso esserci il capolavoro che è Pronto! Pronto!– questa giurerei di averla sentita, quella sera a Castenaso –: assenti come purtroppo sono da Compatto tutti i testi di Intercity, col grosso delle registrazioni realizzate prima del 2003).

 

Questa formidabile capacità di trasmettere con assoluta esattezza – anche all’uditorio meno romagnolo immaginabile – la sostanza psichica delle sue parole, ben prima che si potesse capire il loro significato razionale, era certo frutto della speciale teatralità di Baldini, col tempo consumata sino al virtuosismo. Che si valeva altresì della mimica, della gestualità, dell’espressività del suo volto e dell’insieme della sua figura fisica. Penso al rituale della sua richiesta al pubblico, ogni volta, se volesse ascoltare le poesie prima in dialetto oppure in italiano – con la risposta che invariabilmente optava per la prima soluzione –: perfetto equivalente “teatrale”, appunto, di quella “prossemica tipografica”, fra testo e auto-traduzione, di cui sopra.

Ma la circostanza – da Baldini ben calcolata – di essere privati qui nel Compatto di quei tratti prossemici, e di essere così tenuti a concentrarci – con provocatoria pervicacia cancellato, altresì, «lo scritto del morto orale», come chiamava il testo stampato uno che se ne intendeva, Carmelo Bene – su quel carnevale soprasegmentale che è la materia esclusivamente fonica della sua poesia, ci fa toccare con mano un arcano che riguarda la poesia nel suo complesso; e che la speciale condizione in cui ci mette la sua poesia clamorosamente evidenzia. 

 

Lello Baldini, ph Simone Casetta, tutti i diritti riservati.


Appartiene infatti nello specifico alla poesia un’intonazione trascendentale, diciamo: non solo nell’accezione orale, canora, del termine. Che veicola non l’atto del dire, bensì la potenza del voler dire. Nell’«esitazione prolungata tra suono e senso», di cui consiste secondo Paul Valéry la poesia, quello che essa trasmette ogni volta è il senso, non il significato: appunto al di là della comprensione, o della comprensibilità, dei suoi singoli termini. Il senso della poesia è (nell’accezione geometrica, di moto a luogo, assai appropriata all’autore di Intercity) il suo vettore (si ascolti l’altro apologo post-kafkiano che è E pòunt); oltre che, come detto – nell’accezione anglosassone del «sensuous thought», come lo chiamava T.S. Eliot –, il suo ineludibile sòma. (Un esempio e contrario lo si può fare ricordando un celebre saggio di Gianfranco Contini sul sonetto dantesco Tanto gentile e tanto onesta pare, in apparenza il massimo della trasparenza elocutiva e lessicale, nel quale il grande critico mostrava viceversa come ogni singola parola significhi qualcosa di diverso dall’accezione denotativa dell’italiano standard di oggi.)

Quanto vado dicendo, è il caso di precisare, non è che una variazione su certi spunti di un vecchio, bellissimo libro di Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte: un cui paralipomeno decisivo è il celebre saggio, dello stesso filosofo, su Pascoli e il pensiero della voce, in cui l’esemplificazione passa per la poesia, e il pensiero, di un grande conterraneo del Nostro. (Un omaggio di Baldini: E’ temporèl.) Scrivere poesia significa sempre – secondo Pascoli cultore, come si sa, tanto delle onomatopee della natura che dei certami in composizione latina – scrivere in «lingua morta», cioè «una lingua che più non si sa»: nel senso – spiega Agamben, proseguendo a sua volta decisive analisi di Contini – che nella poesia la parola «non è più mero suono […], ma non è ancora significato»: è «segno come puro voler-dire e intenzione di significare, prima e al di là di ogni concreto avvento di significato».

 

La cambra scheura.

 

Poche esperienze poetiche meglio di quella di Baldini illustrano questa epifania della voce sola, «insignificante volontà di significare», un istante prima che essa «trapassi (cioè, muoia) nel significato». I soffi di nomi propri che si affollano nell’Enciclopedia Santarcangiolese dei Morti (nella straziante visita al cimitero della poesia che dà il titolo a Furistír, o in quell’altro catalogo di zénta ch’i i è mórt da mò, che l’è ormai tótt pòrbia ’d fasùl, «tutta polvere di fagioli», che è la splendida I nóm: dove a scatenare questa vorticosa Totentantzè giusto l’esitazione di chi parla sui nomi propri, la riduzione di tutta quella folla sommersa a una teoria di Cós; e si cerchi, in Ciacri, Ormai: dove appare tormentoso il tirasègn, versione romagnola dello Spopolatoio beckettiano) sono i contrassegni terrestri di quei Mórt che, nel folgorante componimento-chiave di Ad nòta, n dì gnént: ma solo perché i sa tótt. “Morta”, questa lingua che più non si sa, sia perché storicamente destinata a sparire (e Baldini ne registra senza felibrismi, senza filologismi nostalgici, l’imbastardimento inarrestabile, la progressiva erosione da parte dell’italiano), sia perché in effetti alberga in sé una negatività che non è solo quella della contingenza storica.  

Aveva dunque ragione Dante Isella (nel capitolo fondativo della critica baldiniana che fu la sua introduzione alla Nàiva, quando uscì nella “bianca” Einaudi), a diffidare dalle interpretazioni della Santarcangelo di Baldini come una Spoon River romagnola («nulla qui che si abbeveri al filo di una in qualche modo consolante memoria, nessuna tenerezza di ricordi e tanto meno il rimpianto di “una volta”»). Ogni ipotesi di bozzettismo è fugata dall’assolutezza “cosmica” (di matrice a sua volta pascoliana, magari: si pensi al Ciocco, o al Bolide, nei Canti di Castelvecchio) che ha il “senso della fine” in Baldini: la féin de mònd che è la nevicata della Nàiva, l’interrogativo propriamente metafisico di Mètt: quando davvero sarà venuta la féin du mond, dove andrà il tempo?

 

I mort.

 

Che questa parola estrema ci giunga ora dalla sua sede più propria – dalla scatola nera del Compatto, cioè – non pare allora davvero un caso. Il luogo dal quale ci parla il morto orale (a un caso risponde invece, ma è un caso eloquente, che proprio 47 siano le poesie raccolte nel Compatto: simbologia popolare citata in quell’altra meravigliosa pièce de résistance che è Chi parla?, straordinario componimento conclusivo di Ciacri; anche se a quanto pare «il morto che parla», stando all’interpretazione più filologica della Smorfia, sarebbe da considerarsi, semmai, il 48…) è la camera oscura del suono, cioè del senso. 

Ed è infatti nella poesia di Baldini, questo luogo, assolutamente topico. Giusto alle prime mosse della raccolta d’esordio, in Cut, chi dice “io” si nasconde in un béus (un «buco») dove, non solo nella situazione contingente del gioco a nascondersi, u n mu n tróva piò niseun; il béus, in Ad nòta, è il cino– golfo mistico e caverna platonica, luogo infero e magico come, in una bella pagina della narrativa recente, il cineclub in cui sprofondiamo all’inizio di Sogni e favole di Emanuele Trevi – incistato nelle pieghe del paese; e metalinguisticamente è una Ciavga, una «fogna», quella abietta e insieme protettiva del dialetto: una tomba, a voler esser brutalmente chiari, u i sta i mórt

 

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Anche in quell’altro episodio araldico di E’ solitèri che è I nóttal i «pipistrelli», questi alieni aligeri notturni così inquietanti col loro comunicare solo per céul, «sibili» (come i fischi della struggente Giuseppina di Kafka: strabiliante virtuosa del canto la quale, però, altro non è che un topo), si sono introdotti indiscreti in uno spazio separato, e sino ad allora protetto, che è la cambra (quella della poesia omonima, in Ciacri, dove ancora una volta u n vén niseun). E in quel componimento straordinario che è Murgantòuna– pochi episodi come questo, nella nostra poesia moderna, hanno saputo inscenare senza sublimazioni l’agone esilarante e spaventoso che è l’accoppiamento sessuale – quel mumént che è cmè un lèmp, che è di nuovo la féin de mònd, si produce in una cambra d’albérgh, a Roma, ad nòta

A voler citare tre soli versi – la poesia più breve che abbia scritto – in cui c’è tutto Baldini, non avrei dubbi. Sono quelli della Cambra schéura di Furistír: a cèud la pórta, e a rógg. Dop a stagh mèi («chiudo la porta, e urlo. Dopo sto meglio»).

 

Lo spazio chiuso della coscienza alienata è la tana dello strambo, del disadattato, colui che è forestiero in ogni luogo. È la sede tormentosa di quello che strologa, che strilla, che non smette mai di rivolgere i suoi torrenziali ciacri, le sue «chiacchiere», a interlocutori sempre muti, invariabilmente assenti (perché, come ha scritto Pier Vincenzo Mengaldo, la sua è una «solitudine totale», assoluta in quanto costitutiva). E infatti questa poesia, che ha scelto di valersi dello strumento in teoria più colloquiale e ferialmente comunicativo, in realtà ci mostra ogni volta come – ha scritto Clelia Martignoni – «nonostante l’infittirsi graduale del dialogato, la vera comunicazione sia rara o piena di equivoci o fallimentare» (versione solo in apparenza più dolce, di questo tòpos, è Durméi, in Ciacri: ma «dormire», in Baldini come nella scena canonica dell’Amleto, è sempre un traslato del morire). 

La cambra in cui si rifugiano i personaggi di Baldini è dunque una tana. Anzi, è proprio la Tana per antonomasia, quella di Kafka: archetipo enigmatico dei «luoghi imprecisati», formicolanti rumori o voci, nei quali si svolgono i monologhi di Beckett o Manganelli. Una cambra che è schéura perché ci si può rinchiudere dentro, e così fuggire al «rumore» (tutt’altro da quello «dolce» di Sandro Penna) della vita – il malàn che, nella sua biografia, il poeta ha dovuto subire a Milano… –: proiettando sulle sue pareti, ogni volta da capo, i propri film solipsistici.


Più alla radice, lo schéur di tanti episodi di Baldini è l’aere perso dell’aldilà. Certe volte l’oscurità – come nella cambra d’albergh di Murgantòuna, o nello scompartimento di In treno– favorisce quell’abbandono di sé che consente d’inamurès o, sia detto senza ingentilimenti superflui, lo ferm voler del dantesco «miglior fabbro», l’Arnaut Daniel provenzale che dins cambra, come si ricorderà, celebrava i riti di carn e ongla– paraphernalia corruschi del brutto voler leopardiano. Ma il più delle volte quella tenebra, semplicemente, è il luogo dell’ottundimento e della regressione. In Smurté! («Spegnete!») è la luce ad accecare, sicché ci si vorrebbe rinchiudere di nuovo nella protezione del buio: tanto, a n’è d’andè invéll («Non devo andare da nessuna parte»). A inforcare gli «occhiali» (come in una certa indimenticabile pagina di Anna Maria Ortese), I ucèl, ci si accorge che l’è ’nca piò schéur: «è anche più buio».

Ha scritto Daniele Benati che nel mondo di Baldini «la vita che scorre nelle situazioni più semplici e comuni si trasforma in una dimensione che somiglia all’aldilà di Dante». Davvero, nello specifico, viene da pensare al Purgatorio: come lo intendeva almeno quello che di Baldini – proprio Benati ce lo ha mostrato nel modo più convincente – è stato un sicuro punto di riferimento, Beckett. Che nella sua pubblicazione d’esordio, dedicata al Work in progress del maestro Joyce, evocava uno spazio in cui a differenza che in Dante – dove comunque è previsto un termine, seppur remotissimo, del viaggio di espiazione – il movimento è circolare, vichianamente ciclico e senza fine, perciò destituito di senso (cioè, si ripete, tanto di significato che di vettore). 

 

È un mondo di ombre, di trapassati e figuranti, quello in cui ci aggiriamo: come il cafè di Dino nel flash terribile di Furistír che proprio Òmbri s’intitola. In quello spazio circoscritto vagano figure senza contorni, zénta ch’i dizcòrr («gente che parla»), voci anonime senza volto; chi dice io allora volge lo sguardo all’esterno, occhieggia dalla finestra: ma, anche da lì, a vèggh dagli ómbri. È il mondo di quell’altro splendido capitolo di Ad nòta– purtroppo non compreso, qui, nel Compatto– che è I través: dove ci si dirige tutti verso la Véa Cóvva, «la Via Cupa»; dove, come nella visione desolata di Finale di partita, l’è tótt culòur dla zèndra («è tutto color cenere»); e dove le figure dei puràz, dei «poveracci», sono solo dei barbài, quanto mai danteschi fiambi: cmè ch’us vàid / d’instèda, se catràm, dalòngh, ch’al trema, / l’è dagli òmbri, l’è gnént («come se ne vedono / d’estate, sul catrame, lontano, che tremano, / sono ombre, sono niente»). A un certo punto chi dice io a quegli òmbri si rivolge, con topica ancora dantesca, e disperato gli chiede: «Cs’ét fat, / tè, te tu mond? («Cos’hai fatto, / tu, nella vita?»). Ma come sempre non c’è risposta. 

 

Viene in mente la clausola lancinante delle Vite brevi di idioti, di un ammiratore di Baldini come Cavazzoni: un vecchio smemorato, condotto in un ufficio, cerca invano la porta d’uscita: «Questo è un labirinto!», si lamenta. Gli chiedono: «cosa ha fatto nella vita?», e lui: «Nella vita? – e piange – cosa ho fatto? Ho fatto poco. Lo giuro [...] Non ho avuto tempo. È stato così breve». Poi si guarda attorno e chiede, non sa a chi: «Dove vanno?», «Dove andate?». Tasta i muri: «Non c’è più la maniglia?» (si vada a cercare, in Ciacri, Adès: «mo cs’èll ch’a faz, a piànz?»). 

Non ci può essere risposta, in effetti: perché quei puràz, quegli òmbri – l’abbiamo capito, alla fine – siamo tutti noi.

 

Il Compatto di Raffaello Baldini lo si può acquistare qui:

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Bergamo

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La forma dell’Italia come la vedono i fotografi che la vivono e la attraversano. Le città, i paesi, le periferie, la campagna, i luoghi delle aggregazioni, le vie, i negozi e l’ambiente naturale vanno a costituire un patrimonio culturale da osservare, come le relazioni che si stabiliscono tra le persone e gli spazi. Ad ogni fotografo e fotografa chiediamo di esplorare i loro archivi e scegliere dieci foto che rappresentino l’Italia, accompagnate da un unico testo, o da dieci brevissimi testi che fungono da didascalie, in cui ognuno racconta come e perché ha realizzato i suoi scatti. L’insieme delle loro immagini andrà a costruire il mosaico degli sguardi, che via via daranno corpo all’Italia di oggi.


Ho fotografato Bergamo verso la fine del 2017, per una nuova guida all’architettura della città. Ho scelto dieci fotografie scattate in quel periodo, che ripropongono nella loro verticalità, la divisione tra alto e basso, tipica del tessuto urbano di Bergamo.

 

Enrico Bedolo, Bergamo, 2017 #1

Enrico Bedolo, Bergamo, 2017 #2

 

Enrico Bedolo, Bergamo, 2017 #3


Il percorso inizia dall’alto, dalla città antica e scende nella parte bassa, sino alla periferia. Ho osservato le zone residenziali, commerciali e industriali, mediante un processo di allontanamento fisico e visivo, per cercare di trovare la forma enigmatica delle cose, una sorta di elemento primordiale che potrebbe guidarci nella scoperta degli spazi che ci circondano. 

 

Enrico Bedolo, Bergamo, 2017 #4

 

Enrico Bedolo, Bergamo, 2017 #5

 

Enrico Bedolo, Bergamo, 2017 #6


Tradurre in fotografia un paesaggio urbano, ovvero il risultato talvolta contraddittorio, di un insieme di intenzioni e di atti umani, si rivela sempre una sfida ardua. Dentro al grande mosaico cittadino, il senso di totalità deriva da ciò che è il suo frammento: tessere talvolta centrali e riconoscibili, insieme ad altre più effimere, marginali, ancora da decifrare. 

 

Enrico Bedolo, Bergamo, 2017 #7

 

Enrico Bedolo, Bergamo, 2017 #8

 

Enrico Bedolo, Bergamo, 2017 #9


Un insieme di segni che definiscono anche i limiti dello spazio urbano. E l’idea di limite, qui declinata come confine tra alto e basso, richiede ogni volta di adottare una nuova sintassi, fino alle più minute variazioni, così da esplorare anche i limiti dell’atto visivo. 

 

L’immensa superficie del reale si frantuma nell’esasperazione di un immenso dettaglio e dà vita a una sorta di spazio impossibile, lo spazio del limite fra visibile e invisibile che la fotografia può rivelare. 

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Mauro Masera e la fotografia industriale

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Che Mauro Masera (1934-1992) avesse negli occhi la tela di Tintoretto, quando, nel 1960, ha scattato la sua foto più famosa – e tra le sue più belle – è assai probabile. Basta guardare le due immagini accostate per coglierne l'evidenza. D'altra parte il cosiddetto Ritrovamento del corpo di San Marco, dipinto dal Robusti a Venezia, tra il 1562 e il 1566, per la Scuola Grande di San Marco, si conserva a Brera e chissà quante volte il milanesissimo Masera lo avrà visto e rivisto. Perché essere un buon fotografo di design, anzi, uno dei migliori, significa conoscere le immagini a fondo, possederne sì la sintassi, ma anche studiarne costantemente la storia. E poi c'è la luce, che in una foto è tutto (come dice la parola stessa) ma che molto fa in ugual misura nel lumeggiante quadro di Tintoretto: i giochi di luce che filtrano dal basso verso l'alto a rischiare gli archi e a delineare i profili delle cose e dei corpi sono infatti coprotagonisti dell'uno e dell'altra, tanto quanto lo sono le scene rappresentate. Anche nella carica empatica vi è analogia, salvaguardate le differenze, ovviamente, d'ambito storico-culturale, di tecnica e di destino, religioso l'uno, laicissimo l'altro: un pathos epico-drammatico anima infatti la tela di Robusti, mentre un'allure da cave esistenzialista connota invece i personaggi della foto di Masera, ma entrambe le atmosfere appaiono come sospese nel tempo, rese eterne dalla loro efficacia comunicativa.

E le relazioni incrociate tra il quadro e la foto non sono finite qui. Per la mise en scène della fotografia è stato scelto infatti il portico di San Luca a Bologna, che alla poltrona dà il nome. Tanto per cominciare, San Luca, come già il San Marco tintorettiano, è un apostolo, ma soprattutto il portico della chiesa bolognese ha le modanature e l'enfilade delle archeggiature molto simili a quelle riconoscibili nell'opera del Robusti, come balza subito agli occhi. Nella fotografia di Masera compaiono poi quattro personaggi, rispettivamente: Dino Gavina, Achille e Pier Giacomo Castiglioni e Michele Provinciali. Tutti hanno a che fare con l'oggetto fotografato: la poltrona Sanluca, appunto. Di questa, infatti, Dino Gavina è stato il produttore, Achille e Pier Giacomo Castiglioni ne sono stati i designer e Michele Provinciali l'art director. È molto probabile che nella scelta della citazione iconografica ci sia stato lo zampino di Provinciali, che, laureatosi in storia dell'arte ad Urbino (con il grande Pasquale Rotondi), per un po', in quella facoltà, la medesima disciplina l’aveva pure insegnata. Ma tant'è. Spesso le opere notevoli sono frutto di sinergie mentali e di sintonie d’intenti. Senza dubbio, però, l’angolo di visuale, ovvero il punto di osservazione della scena, in quel suo audace sotto-in-su, è opera di Masera, che nei suoi scatti raramente sceglieva la complanarità tra obiettivo e soggetto ritratto. Differiscono invece gli andamenti dei portici: diretto verso sinistra nel quadro, verso destra nella foto, al punto, se accostati, da apparire speculari. Analoga è invece la zona di luce sul fondo: un geniale espediente impiegato da entrambi gli artisti per conferire maggiore profondità alla scena, che si apre così verso l'infinito. E poi c'è la gestualità: teatrale ed enfatica la tintorettiana (per la quale il maestro veneziano va giustamente famoso); alla Samuel Beckett, invece, quella dei protagonisti della foto di Masera, che sembrano essere anch'essi in attesa di un qualche Godot. La loro gestualità bloccata, quasi raggelata, mi rammenta infatti quella degli attori diretti da Walter Pagliaro al Piccolo Teatro di Milano, quando, nel 1978, curò la sua indimenticata regia dell'opera beckettiana, con le scene e i costumi di Enrico Job (che ha giocato "a rifare Beckett al quadrato fin nella pietrificazione del paesaggio,‘still life’ di arredi cimiteriali come in un graffito di Klee.", Enrico Groppali, Sipario, gennaio 1978). 

Questa foto di Mauro Masera, nel suo longhiano bianco-e-nero, è, insomma, anche un concentrato di milanesità, dal quale trapela l'air du temps che si respirava nella città meneghina negli anni sessanta-settanta, quella specialissima temperie culturale di cui il nostro, insieme ai personaggi da lui ritratti nella foto, fu uno degli interpreti di maggiore spicco.

Curioso poi lo 'scambio di luogo' avvenuto tra le due opere, perché, mentre il quadro dell'artista veneziano, come già detto, si conserva a Milano, la foto del fotografo milanese è invece oggi custodita a Venezia. 

 

Tintoretto, Ritrovamento del corpo di San Marco, olio su tela, 1562 e il 1566, Milano, Pinacoteca di Brera. Dino Gavina, Achille e Pier Giacomo Castiglioni e Michele Provinciali fotografati accanto alla poltrona Sanluca sotto il portico di San Luca a Bologna, 1960. © Mauro Masera. Università IUAV di Venezia, Archivio Progetti.


Infatti, da due anni, l'intero archivio professionale di Mauro Masera è stato donato dai suoi eredi all’Archivio Progetti dell’Università IUAV di Venezia. Risale invece allo scorso dicembre l'uscita del volume a lui dedicato: Mauro Masera, fotografo del design italiano, edito da Safarà e realizzato in collaborazione con il medesimo Archivio Progetti dello IUAV (pp. 140, € 18,00). Con il progetto grafico di Marco Fornasier, ne sono autori Alberto Bassi e Carlo Masera, già curatori della rassegna espositiva allestita a Venezia, ai Tolentini, nel 2017 che presentò per la prima volta al pubblico le opere del maestro. 

 

Mauro Masera è nato a Milano, dove ha trascorso tutta la propria carriera di fotografo, iniziata quando aveva soltanto 23 anni. Conseguito infatti nel 1955 il diploma di perito ottico al locale Istituto Tecnico Galileo Galilei, dopo un breve tirocinio in Svizzera presso l'azienda Wild Heebrugg, che lo ha avvicinato alla fotografia, rientrato in patria, ha definitivamente scelto la fotografia industriale come proprio campo d'azione lavorativa. Suoi still life (tecnica nella quale eccelse) sono per le maggiori aziende italiane design, tra le quali: Alessi, Arflex, Cassina, C&B (poi B&B), De Padova, Fontana Arte, Gavina, Kartell, Tecno, Tisettanta, Zanotta, etc. 

Ha inoltre lavorato con i più grandi art director e designer, da Erberto Carboni a Pino Tovaglia, al già ricordato Michele Provinciali, da Giulio Confalonieri a Giancarlo Iliprandi, da G&R Associati a Mauro Panzeri, da Bob e Ornella Noorda ad Achille e Pier Giacomo Castiglioni, da Marco Zanuso ad Alessandro Mendini. 

Ha poi collaborato con le principali riviste di interior design, quali Abitare, Ottagono, Schöner Wohnen e con altre di graphic design, come, ad esempio, Imago (house organ della azienda fotolitografica milanese Bassoli, uscita dal 1960 al 1971). In veste di saggista, ha scritto per Il diaframma. Fotografia italiana (AIFP). Una breve esperienza di insegnamento, lo ha visto anche docente di fotografia presso la milanesissima Umanitaria.

 

 

Giacomo Balla, Le mani del violinista, 1912, olio su tela, Londra, The Estorick Collection of Modern Italian Art; Idem, Dinamismo di un cane al guinzaglio, 1912, olio su tela, Buffalo, Albright-Knox Art Gallery.


Mauro Masera, fotografia del divano D70, di Osvaldo Borsani per Tecno, 1980, © Mauro Masera, Università IUAV di Venezia, Archivio Progetti.


A proposito di Milano, quale corrente artistica è più milanese del Futurismo? Ed ecco allora Masera, in un'altra sua famosa foto (essa pure bellissima), rendere omaggio al tema del dinamismo, in particolare al dinamismo così come lo intese e lo rese nelle sue opere Giacomo Balla. Vi ritrae infatti il divano D70 di Tecno, disegnato da Osvaldo Borsani, con lo schienale che 'vibra dinamicamente', rendendo visibili, in un unico fotogramma, le sue possibili inclinazioni, così come 'vibrano dinamicamente' le mani del violinista di Balla e le zampette del suo cagnolino, anch'esse sinteticamente riassunte in una sola immagine.

Questa ‘fotografia del movimento’ (così come si definiscono quelle di Muybridge) è ottenuta con la tecnica dell’open flash che impiega un flash stroboscopico, il quale, emettendo una serie di lampi a determinati intervalli di tempo, tra loro molto ravvicinati, permette di registrare e di 'fermare' contemporaneamente l’evoluzione del movimento medesimo. 

Nel caso del D70, si tratta delle posizioni del suo schienale, colte nell'atto di sollevarsi e/o di abbassarsi, infatti il D70 può essere trasformato in letto a una piazza e mezza – tra l'altro piuttosto comodo – ma può anche essere completamente richiuso, sollevando verticalmente sia la seduta sia lo schienale, così da avere un ingombro ridotto, utile per le carenze di spazio qualora dovesse essere temporaneamente riposto in attesa di un suo successivo utilizzo. E la fotografia di Masera chiarisce efficacemente queste possibilità più di mille parole, mi vien da dire: in photo veritas

Una sua versione stilizzata a silhouette è stata impiegata da Fornasier per la copertina del volume dello IUAV. 

 

Mauro Masera, fotografia del divano Lombrico di Marco Zanuso per C&B, art director Enrico Trabacchi, 1967, © Mauro Masera Università IUAV di Venezia, Archivio Progetti.


C'è anche un'altra opera di Masera connotata da un dinamismo di reminiscenza futurista e in parte connesso alle ricerche dell'Arte Programmata e Cinetica, che proprio a Milano, tra la seconda metà degli anni cinquanta e gli anni sessanta, metteva a segno una stagione straordinaria (alla quale aderì anche il nostro, come confermano le sue fotografie artistiche del 1957, intitolate Pendoli luminosi, prossime anche allo Spazialismo di Lucio Fontana che aveva da poco messo a punto i suoi 'ambienti spaziali' con luci al neon). È l'autoritratto che egli si è scattato nel 1968, poi inserito nel calendario dell'agenzia Photo Center, da lui fondata nel 1968 insieme ad altri colleghi suoi concittadini. Un dettaglio di questa foto è stato scelto come sovraccoperta del libro dello IUAV, mentre nella sua interezza era già stata utilizzata quale manifesto della mostra veneziana. Vi si vede un Masera giovane, com'era a quel tempo, sorridente e atletico, nell'atto di fare il salto della cavallina oltre un divano, che, nella fattispecie, è il Lombrico, disegnato da Marco Zanuso per C&B nel 1967. Si tratta di un divano realizzato in gommapiuma, un ritrovato della chimica (poliuretano espanso elastico) allora all'avanguardia, sperimentato per la prima volta nel 1948 nel campo dell'arredo proprio da Zanuso per Arflex (Pirelli) e da allora in poi ampiamente utilizzato dai designer e da tutte le aziende di imbottiti, tanto da aver in breve soppiantato i materiali di imbottitura naturali in uso fino a quel momento. La sicurezza con la quale, nella foto, Masera salta, testimonia dell'affidabilità di questo materiale, ci racconta della sua elasticità e della sua morbidezza più di qualsivoglia ragguaglio chimico-fisico, senza annoiarci con la pedanteria che in esso sarebbe insita, istruendoci invece nel merito mentre ci fa divertire, e lo fa con quella tipica grazia e con quel tocco da maestro che erano propri del fotografo milanese a cui il volume dello IUAV rende finalmente merito. 

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Kenro Izu, Requiem for Pompei

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Kenro Izu Pompei, Casa di Arianna, 2016 Stampa inkjet 61x76 cm © Kenro Izu Courtesy Fondazione di Modena - Fondazione Modena Arti Visive.


«Quando vidi quell’albero, che si ergeva sul tempio con una tale autorevolezza, fui travolto da pensieri che si spingevano ben oltre le semplici nozioni di vita o di morte. Mi resi conto in quel momento che quell’albero poteva avere una risposta. E iniziai a interrogarmi sulla mia stessa esistenza.» (Kenro Izu)

L’albero in questione appare in un’immagine che l’autore scatta in Cambogia, ad Angkor, nel 1993 dove si vede un gigantesco tronco senza più le fronde le cui radici scivolano lungo le pareti del tempio rimanendo ad esso avvinghiate. Tutto è qui rappresentato: la vita da quelle radici superbe e la morte che si può identificare nel morbido buio che fuoriesce dalle aperture del tempio. Altro non esiste. 

Andare oltre la nozione di vita o di morte vuol dire dunque spingersi in un ambiente misterioso, dal quale il fotografo giapponese è da sempre attratto, nella spiritualità di luoghi imponenti dove le antiche architetture, modellate dal passare del tempo, restituiscono un’aura alla Storia e alla sua grandezza rispetto al presente, ma in cui si trova anche la ricerca di un profondo dove l’atto di avventurarsi mette inevitabilmente in contatto l’individuo con l’enigma dell’esistenza.

 

Nato a Osaka nel 1949, Kenru Izu si forma alla Art at Nippon University di Tokyo. All’inizio degli anni Settanta si trasferisce a New York dove la fotografia è nei musei ed è considerata una forma d’arte, cosa che non avviene in Giappone. Ben presto apre un proprio studio specializzandosi in still life e utilizzando macchine fotografiche e tecniche di stampa considerate, in un’epoca di avanguardie artistiche, antiche. Ma Kenru Izo non se ne cura, la sua ricerca ha radici profonde. Il suo primo approccio con la fotografia avviene quando, lavorando nel campo medico, fotografa al microscopio i microorganismi. Si può facilmente immaginare che già all’epoca il giovane fotografo giapponese potesse essere affascinato da forme invisibili a occhio nudo eppure esistenti.

 

Kenro Izu Pompei, Tempio di Apollo, 2016 Stampa al platino 42,5x55 cm © Kenro Izu Courtesy Fondazione di Modena - Fondazione Modena Arti Visive.


Fin da bambino Izu sogna di vedere le antiche pietre del mondo come quelle di Stonehenge, Bogotà, Angkor, luoghi in cui la stratificazione delle culture ha prodotto un fascino ancestrale incommensurabile. In questi suoi viaggi Izu intuisce che queste architetture vanno ben oltre la storia che rappresentano, possiedono un lato magico che mette in comunicazione l’essere umano con altri mondi paralleli, nonostante essi si siano in un certo qual modo estinti. 

Nel 1979 intraprende il primo di quattro viaggi in Egitto, dove si reca per fotografare le Piramidi, ne resta folgorato. La sua passione per queste vestigia storiche assume un senso che travalica l’essere umano, qualcosa cui l’individuo appartiene ma al tempo stesso non governa, come se la costruzione di questi monumenti fosse stata resa possibile solo grazie a una sorta di intervento divino. 

A questo primo viaggio molti ne seguiranno, con inalterato stupore l’uomo Izu, “rappresentante” del genere umano, non ci mostra mai una semplice documentazione ma, volendo ascoltare, ci offre un silenzioso “contatto” con quegli altri mondi.

 

Sacred Places, di cui fanno parte, oltre alle fotografie delle Piramidi d’Egitto, anche quelle delle Piramidi dei Maya, di Stonehenge e di molti altri siti archeologici situati in svariate parti del mondo, dal Messico al sud est asiatico, diventa il progetto più importante e tutt’ora in corso, della sua vita. L’intenzione dell’autore è quella di entrare nel luogo attraverso l’immagine e per far questo utilizza il banco ottico che riproduce accuratamente ogni particolare così come la stampa al palladio che restituisce la materia di ogni cosa. 

 

Kenro Izu Pompei, Anfiteatro, 2016 Stampa inkjet 61x76 cm © Kenro Izu Courtesy Fondazione di Modena - Fondazione Modena Arti Visive.


In questi suoi pellegrinaggi, la fotografia diventa un atto di riflessione, di osservazione paziente e lenta, dove a poco a poco gli uomini diventano parte integrante del paesaggio, corpi della natura. Kenro Izu pur appartenendo al tempo contemporaneo, passa attraverso questi luoghi sacri ricavandone una visione che rimane fedele ai luoghi stessi. Nelle immagini, appare un ritratto in cui l’anima rimane inalterata, qualsiasi sia la forma che il fotografo disegna attraverso la luce. 

Molti autori, nel momento in cui scattano, sono spesso alla ricerca inconscia della bella fotografia. Una costruzione mentale che li induce a osservare il soggetto da un punto di vista principalmente estetico, (nel senso di estetizzante). L’intento di Kenro Izu è invece quello di catturare lo spirito del soggetto. Secondo la sensibilità dell’artista giapponese spirito equivale a vita. Per questo tanto i fiori o la frutta dei suoi still life quanto i paesaggi, le architetture e il corpo umano sono per lui tutti soggetti che racchiudono un alito di spiritualità riconducibile ad una sacralità arcaica. 

 

Kenro Izu Pompei, Terme Stabiane, 2016 Stampa al platino 42,5x55 cm © Kenro Izu Courtesy Fondazione di Modena - Fondazione Modena Arti Visive.

 

Al contempo la sua è una fotografia che rivela come la complessa bellezza della vita possa tramutarsi in decadimento e di come questo non smetta comunque di essere “bello”. Un approccio che emerge anche nell’atto del guardare affidato al fruitore, il quale soltanto attraverso una altrettanto lunga e paziente osservazione delle immagini può comprendere la totalità empatica che ha guidato la mano dell’autore, molto lontana dalla rapidità con cui tanta fotografia digitale contemporanea, fatta per essere consumata, si è affermata in tempi recenti.

Questo è infatti ciò che traspare dalle immagini di Izu: una identità che perdura nel tempo senza alterarsi poiché non è invenzione dell’uomo, del suo pensiero, ma un’opera divina e pertanto che lo trascende.

 

Kenro Izu Pompei, Terme del Foro, 2016 Stampa al platino 55x42,5 cm © Kenro Izu Courtesy Fondazione di Modena - Fondazione Modena Arti Visive.


Requiem for Pompei, lavoro iniziato nel 2015 in collaborazione con Fondazione Fotografia Modena e con il Parco Archeologico di Pompei, ruota attorno alla vicenda apocalittica accaduta alla città, su cui il vulcano ha eruttato la sua lava incandescente pietrificando ogni cosa e dove la vita si è fermata lasciando il campo alla morte. 

I calchi, riproduzioni in vetroresina realizzati nel secolo scorso, che l’autore posiziona in armonia con le linee e i reperti del luogo, compaiono negli ambienti come fossero anime alla ricerca del proprio corpo. Senza più un senso di vita divengono tutt’uno con ciò che sta loro intorno. Non più individui che lì hanno vissuto, ma parte integrante del paesaggio. Ravvisiamo in questo la volontà dell’autore di sublimare il luogo attraverso la rappresentazione scenica della morte, che fa dialogare – in modo diverso dalla pura e semplice cronaca – gli ambienti e le figure. 

 

L’uomo disteso a terra, con il braccio destro piegato sotto la testa e le gambe un po’ ritratte, una postura molto frequente quando si dorme, il bambino supino o la donna seduta rannicchiata, vengono “sistemati” da Izu lungo le stradine, nelle case, al cospetto di colonne, mosaici e affreschi conservati nelle abitazioni nobili come la Casa del Poeta Tragico o la Villa dei Misteri o ancora la Casa del Fauno dove il corpo dell’uomo addormentato affronta arreso, nella sua nudità, quello di una improvvisa amata che lo osserva dal muro, sensuale nel biancore puro del suo corpo. 

È una vista conturbante, che scuote i sensi di chi guarda, li eccita, come accade nel film di Rossellini “Viaggio in Italia” in cui la coppia protagonista in visita agli scavi di Pompei (siamo agli inizi degli anni Cinquanta) assiste eccezionalmente al procedimento che permette agli archeologi di rinvenire, attraverso l’iniezione di gesso in una cavità posta nel terreno, il corpo di due persone. Forse moglie e marito – spiega l’accompagnatore –, producendo così in Katherine Joyce (interpretata da Ingrid Bergman), che vive assieme al marito un profondo malessere legato alla loro relazione, uno sconvolgimento tale da farla allontanare piangendo. 

Tale partecipazione emotiva riguarda la vicinanza tra l’uomo antico e l’uomo contemporaneo che può vedere l’emergere di corpi che si sono consumati nel tempo ma la cui forma esiste ancora in quel vuoto protetto dal terreno, intenti in azioni totalmente replicabili ancora oggi. 

Nel film come nelle immagini di Izu, l’incontro con l’improvvisa concretezza della morte altera il percorso della ragione, confuso dall’instabilità del sentimento. Ciò apre la percezione dell’uomo ad una dimensione diversa, in cui il sacro torna a far parte della materia riconducendo il corpo privo di vita all’unione indissolubile con il proprio spirito.

 

Kenro Izu Pompei, Casa del Menandro, 2016 Stampa inkjet 61x76 cm © Kenro Izu Courtesy Fondazione di Modena - Fondazione Modena Arti Visive. 


La fotografia può avere il potere di evocare, “non è una mera forma di arte– puntualizza l’autore – bensì un percorso di ricerca costante nella vita, per trovare il significato più recondito dell’esistenza stessa. Per questo considero ogni fotografia come la mia orma lasciata su un sentiero, talvolta sono orme nette e profonde, altre volte indefinite e superficiali.

 

Il percorso fotografico di Izu dunque è come un sentiero che si allarga e si restringe ma rimane sempre se stesso. Ogni volta offre un punto di vista diverso focalizzandosi ora sul paesaggio ora sull’uomo, come nei due capitoli sull’India Where Prayer Echoes e Eternal Light of India in cui il luogo della preghiera e il volto dell’uomo si sovrappongono. Sono tutte serie di immagini che rappresentano lo sviluppo naturale di Secret Places. “È un progetto sulla vita– dice ancora Izu – sul fatto che tutto è all’interno di un unico grande ciclo”.

 

In occasione dell’esposizione “Requiem for Pompei” in corso a Modena fino al 13 aprile 2020, la già ampia bibliografia di Kenro Izu si arricchisce di una nuova monografia (catalogo della mostra) dall’omonimo titolo, dedicata proprio a questo segmento di lavoro e pubblicata per i tipi di Skira.

 

Kenro Izu Pompei, Casa degli Amorini Dorati, 2016 Stampa al platino 42,5x55 cm © Kenro Izu Courtesy Fondazione di Modena - Fondazione Modena Arti Visive.

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La “rappresentazione” del sacro
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ABC

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La serie fotografica dal titolo ABC è costituita da un alfabeto di insegne pubblicitarie, disseminate nelle zone periferiche di alcune città del Nord Italia, in particolare di Milano.

 

È un’indagine sui luoghi di confine e di transito, fra la campagna e la città, lungo i viadotti e le tangenziali. Le immagini nascono quasi spontaneamente, talvolta per un insieme di coincidenze, come se avvenisse un incontro tra una causalità esterna e una finalità interna, capace di generare un forte valore simbolico e metaforico.

 

L'incontro tra il testo delle insegne e lo spazio urbano, in bilico tra banalità e stereotipo, dà forma a un'archeologia del marketing, di cui le immagini sono le rovine di un passato chesopravvive con insistenza al logorio del tempo.

 

Ho avviato la serie ABC insieme ad un altro progetto intitolato ADE, dedicato ai fiori e alle piante cresciute spontaneamente nelle aiuole o nei parchi attorno a Milano e in aree fortemente cementificate. ABC, tutt'ora in corso, ne è l’altro volto, il reperto archeologico che si affianca al mondo vegetale, raffigurato come un agglomerato di fossili viventi.

 

Sara Rossi, A (Auto), Milano, 2015.

 

Sara Rossi, B (Bar), Verona, 2014.

 

Sara Rossi, H (Hotel), Periferia nord/ovest Milano (verso Rho), 2015.

 

Sara Rossi, I (.it), Paderno Dugnano (Milano), 2015.

 

Sara Rossi, M (Mario), Cinisello Balsamo (Milano), 2015.

Sara Rossi, O (Ora), Strada statale per Lecco prima di Merate, 2015.

 

Sara Rossi, P (Perchè), Periferia sud Milano , 2016.

 

Sara Rossi, R (Ratto), Periferia nord/ovest Milano, 2015.

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La versione del fotografo: Salvatore Piermarini

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Il perduto incanto

Gli occhi luminosi dei bambini sardi, le luci notturne infinite di una immensa New York, i tanti lavoratori, i passanti ritratti in giro per il mondo, oppure gli artisti, gli intellettuali, le città, i paesi: a scorrere è la “vita” nella fotografia e nella prosa di Salvatore Piermarini. 

Nel Perduto incanto. Indagini sulla fotografia (Rubbettino, 2019), l’autore rivela che fotografare è stata la strada per ricercare un unico e continuo dialogo col mondo e l’umano. Dunque, grazie alla macchina fotografica, il cosmopolita Piermarini, attraverso lo sguardo, e poi la liturgia dell’analogico, è riuscito ad abitare ogni luogo in cui è approdato, a orientarsi fin da subito, ovunque. 

 

Aquila, 2010.


Il perduto incantoè la traccia profonda di questo passaggio: un ibrido, uno zibaldone, una breve storia della fotografia, nonché un quaderno intimo che diviene trattato di estetica, e tanto altro ancora. Piermarini, vien fatto di pensare, in questo suo percorso, è prima di tutto un uomo libero, e libero perché in grado di ri-guardare autenticamente, di conoscere per riuscire a comprendere. La disciplina e l’etica della fotografia di cui è testimone lo hanno portato a raccontare, avendo sempre cura e rispetto di ciò che aveva davanti agli occhi.

 

 

Leggendo i suoi scritti, quindi, torna alla mente il Merleau-Ponty dell’Occhio e lo spirito e il suo invito a saper vedere come reale apertura al mondo. E tuttavia apertura fatta di sogno, risonanza, di mestiere, comunque di scelta che vada inesorabilmente in direzione contraria alla proliferazione indiscriminata delle immagini, del rumore di fondo dei server e della troppa facilità del collezionista, con cui si distrugge, secondo l’autore, l’incanto di quella che è stata la grande vicenda fotografica tra ‘800 e ‘900.

 

 

Apocalissi

In questo lungo viaggio, è come se Piermarini scorgesse, seguendo il suo amato Baudrillard, nella frenesia schizofrenica della società occidentale odierna, una inarrestabile mortificazione. Sappiamo che l’immagine, agli albori, è il calco del defunto, dunque ombra, specchio, imitazione e mimesi. Ma forse il punto per l’autore è che la vita stessa, come in preda a un ipnotico gioco di prestigio, finisce per plasmarsi a immagine del calco. Non più la rappresentazione della realtà, bensì la realtà di sole immagini, trasforma il mondo in un balbettìo tautologico insignificante, conducendo Salvatore Piermarini verso il De Martino dell’Apocalisse culturale, e a ritroso al Carlo Levi di Paura della libertà

 

Massimo Troisi, 1988.


Ecco perché egli ricorda, portando alla mente Bergson, che il pensiero visivo è ricerca nella ripetizione del reale che si fa differenza. Sicché la sua fotografia sembra voler accogliere il reale nel suo intimo, e per questo non risulta mai predatoria né angosciata, perché il suo punctum, l’aspetto emotivo, è nella relazione instaurata. Nel ripristino di fili spezzati, di discorsi persi e taciuti, vi è la capacità di stabilire un contatto e di essere accolto. 

 

Dario Fo, Roma.

 

C’è inoltre in Piermarini quella consapevolezza e coscienza politica che se i sentimenti morali sono radicati nel passato, e la civiltà industriale distrugge e attenta continuamente alla memoria, occorre esservi presente con lo sguardo, ritessere come sorta di pietas. D’altronde è l’autore stesso a ricordare che l’ospitalità, l’amicizia, sono già linguaggio, discorso, processo. E infatti Il Perduto incantoè anche un libro d’amore, che riporta gli incontri e i sodalizi stretti con Vito Teti, Sandro Onofri, Bruna Trincas, Cesare Tacchi, le sorelle Annechini, e tanti altri compagni di viaggio. 

È inoltre un libro di cinema e letteratura, capace di intrecciare i percorsi artistici di Cortázar e Coppola, di Calvino, Antonioni e Kubrick. Ed è fitto di brani, di recensioni e attenzioni ai lavori di nuove generazioni di fotografi come Alberto Gangemi e Giulio Rimondi, nonché di confronto a distanza con maestri quali Mulas e Dondero.

 

Giulia Tarei, 2009.


Luoghi

Tornando alla fotografia, se l’autore stesso scrive che il ritratto è un corpo a corpo, che “fare un ritratto presume sempre il consenso e l’assenso del soggetto fotografato”, non meno attenzione egli ha dedicato allo spazio, al corpo delle cose. Così, dopo il sisma del 24 agosto 2016, in un reportage da fermo per Doppiozero, Sulle tracce della faglia, è riuscito a raccontare i Sibillini, la loro essenza, per giunta a farlo senza mostrare rovine né macerie o disperazione. Dal Pizzo del diavolo dei Sibillini al corpo martoriato dell’Aquila (L’Aquila Magnitudo 0, Quodlibet 2012), oltre che nei volti, è nello spazio che Piermarini intuisce e sviluppa la ricerca di quel senso dei luoghi per altri versi indagato da Wim Wenders e dal già citato Teti. Paesaggi e città, forme e simboli, vengono ritratti con la consapevolezza che decifrare lo spazio prodotto dall’uomo nel rapporto con la natura vuol dire riportare in superficie e decodificare, attraverso la realtà, qualcosa che si approssima alla verità. 

Essere innamorati “delle infinite arguzie del mondo”, certo, e non per fermarsi al pittoresco, bensì perché la realtà, egli scrive, “(…) con seria e inossidabile verità ci riporta con i piedi per terra (…) basta la pura e dura verità ad incantarci e disincantarci nuovamente”, questa la sua versione del fotografo. 

E allora Il perduto incantoè sì la declinazione della fotografia sotto forma di disciplina e mestiere da applicare al visibile e all’invisibile, al buio e alla luce, per distinguere il vero dal falso, ma è anche parallelamente ribadire il primato della vita intrisa delle più nobili facoltà dell’umano. L’attuale riproducibilità, invece, l’inarrestabile dinamismo tecnologico, sovrastano l’occhio e il pensiero visivo, e l’eccessiva mediazione falsifica la realtà sospingendola verso il reality. Per cui l’invito è a “andare sui posti e faticare per raggiungerli”, coltivare la memoria, agire per corrispondenze e metafore, e farlo come rivolta dell’occhio e scelta consapevole affinché si onori lo “spettacolo dell’immaginazione” e il “teatro dell’immaginario”.

 

Toronto, 1990.


Immagini

Nonostante la fotografia abbia accompagnato e documentato l’evoluzione della civiltà industriale di massa, è pur vero che esiste un’antica tradizione di detrattori dell’immagine, di sospettosi iconoclasti della tradizione occidentale, da Platone a Feuerbach, che si uniscono a loro modo al giudaismo, all’Islam, al protestantesimo, e che portano Hans Belting ad ammettere che “nei mass media gli stereotipi prospettici si dimostrano una ricetta longeva al fine di far aprire le illusioni come delle verità documentarie”. 

 

Sardegna.


D’altra parte, la capacità di produrre immagini viene esaltata, tra gli altri, dalla sensibilità di Bachelard, il quale associa l’immagine stessa alla liberazione profonda data dall’immaginazione, a un abbandono poetico della concretezza per l’assoluto. Egli si riferisce però all’icona in grado di generare il nuovo che apre al mondo. Quel che accade con i mass-media è diverso. Stando solo al recente passato, è l’incontro tra media e massa, e la conseguente messa in campo di immaginari illusionistici e illusori, funzionali al modello economico finanz-capitalistico (dalla carta stampata all’etere, dal tubo catodico allo smartphone), l’impasse odierno a cui arriviamo seguendo Il perduto incanto. 

Rispetto a ciò, sembra dire Piermarini con le parole di Susan Sontag: occorre “un’ecologia non soltanto delle cose reali, ma anche delle immagini stesse”; un invito del tutto simile a ciò che Franco Fortini si augurava decenni fa per l’uso e la misura delle parole. E d’altronde lo stesso Barthes ricorda che non è l’immagine ad essere diabolica o immorale, ma è la generalizzazione, l’indistinto, a derealizzare il mondo.

 

New York.


Bilanci

A molti di questi dubbi, raccogliendo l’auspicio dell’autore della Camera chiara a scrivere una storia di sguardi, nel suo Storia dello sguardo (Il Saggiatore, 2017), l’irlandese Mark Cousins risponde che se da un lato il sovraccarico visivo sminuisce qualsiasi evento e apre a una vera e propria Babele (Vabele è il termine coniato per unirlo al virtuale), dall’altro il bilancio degli strumenti sviluppati in merito al potenziale creativo espresso nelle arti visive risulta complessivamente positivo. 

 

Marais, Parigi, 1971.


Dunque, assodato che le rappresentazioni visive proliferano a dismisura e sfociano nei selfie, e che il social network più diffuso è proprio Instagram, nondimeno la bilancia delle innovazioni sarebbe positiva per le possibilità che i vari dispositivi offrono nel campo della memoria, della comunicazione (si pensi solo a Skype per i migranti), della denuncia, della protesta civile e dell’attivismo politico. 

Ciò che, per esempio, il mondo ha visto dell’uccisione di John Kennedy a Dallas, potremmo aggiungere su questa linea, dovuto alla 8 millimetri del sarto ebreo di origine ucraina Abraham Zapruder, e ciò che sappiamo delle manifestazioni di Piazza Tahrir, che nel 2011 hanno portato alla caduta di Mubarak, o i filmati degli smartphone siriani e cileni odierni, evidenzierebbero prospettive e aspetti di parziale, ma generale progresso. 

Beninteso, Cousins si dice consapevole che il risultato non può che dirsi ambivalente, e  finisce per ammettere che le attuali “mancanze dello sguardo” restano il sostanziale prezzo da pagare come contropartita. 

 

New York City, 1987.


È chiaro che questi elementi non sfuggono nemmeno all’attenzione del fotoreporter romano, che rilancia con i brutali video delle esecuzioni di Gheddafi e Bin Laden, a cui potremmo aggiungere la panottica distruzione filmata dell’intero convoglio del generale iraniano Soleimani: quasi uno spot, una risposta ai dati, alle previsioni, ai sondaggi, per rilanciare l’immagine e la campagna elettorale trumpiana all’interno degli Stati Uniti. 

Ebbene, non tutto deve essere mostrato, è la risposta conclusiva di Piermarini. Il medium è il messaggio, potremmo semplificare con McLuhan, ma il processo è parte determinante e integrante del fine. Guardare risponde all’etica, alla disciplina dell’occhio, all’onestà dello sguardo, e la sfida del Perduto incanto in questi termini è più che mai aperta e attuale. La posta in gioco rimane la medesima: saper vedere per restare umani. Cercare, nella verità, di essere il più vicini possibile a ciò che è giusto.

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Franco Vaccari

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Franco Vaccari (Modena, 1936) nutre profondo interesse per la dimensione onirica, fin dall’infanzia. Dal 1975 il sogno entra anche nella sua ricerca artistica. Diventa una sorta di correlativo oggettivo di un dispositivo concettuale. Attraverso cinque Esposizioni in tempo reale– oltre a una vasta produzione di opere e annotazioni su quaderni, dove fotografia e pittura convivono per rappresentare sogni notturni, soggetti e forme suggeriti dai meccanismi dell’inconscio o da un’alterità misteriosa – Vaccari indaga e rende visibile il profondo legame tra il mondo dei sogni e il suo ruolo di artista, inteso come innescatore di processi: «il ruolo di "controllore a distanza" si dissolve a sua volta in quanto il sogno funziona da attivatore di realtà, cioè da pretesto per dirottare una situazione apparentemente definita verso esiti imprevisti, verso il reale inaspettato».

 

Nella mostra Migrazione del reale, allestita alla Galleria P420 di Bologna, il reale inaspettato è un asteroide interstellare, che giunge da una ineffabile lontananza e incombe in uno spazio siderale, avvicinandosi sempre più alla nostra coscienza. Questo asteroide è “realmente” il primo oggetto interstellare a incrociare i piani orbitali dei pianeti del sistema solare, per poi dirigersi nuovamente nello spazio profondo. Vaccari lo ha percepito come esistenza reale, come un sogno premonitore. E lo ha messo in relazione con appunti segnici e letterali, collegamenti e interpretazioni dei suoi sogni notturni, con le immagini che sono giunte da un’altra dimensione. Abbiamo posto alcune domande all’artista, come se fossimo giunti in un luogo arcaico, dedicato all’attività oracolare, come a Dodona o a Delfi, attendendo una visione o un ulteriore enigma da risolvere, come al cospetto di Pizia, di Cassandra o di una Sibilla, di fronte a una divinazione per ispirazione del nume o intuitiva, affidandoci all’oniromanzia.

 

Franco Vaccari, I sogni, spazio privato in spazio pubblico 1975.


Mauro Zanchi: Da dove provengono i sogni?

Franco Vaccari: Su che cosa siano i sogni e quale sia la loro funzione ci sono opinioni tra loro diversissime. Però hanno sempre colpito l’uomo dai tempi più antichi, per la forza delle immagini e per la superiore estraneità rispetto al nostro vissuto. Riescono a dare importanza a tanti aspetti del nostro vissuto, pur essendo apparentemente così estranei. Siccome ero un sognatore piuttosto accanito, ho pensato di non disperdere questo patrimonio onirico, che mi sembrava una sorta di ricchezza in potenza, non sapendo come avrei potuto utilizzarla. Scrivendo dei testi che si riferissero ai sogni, quando mi colpiva qualche immagine particolare, provavo anche a disegnarla. Non mi interessano gli aspetti dello straordinario e dell'eccezionale nel mondo onirico, nemmeno la dimensione surreale o straniante, e neppure quella psicanalitica. Mi affascina la dimensione reale del sogno. Mi sembra che il mondo reale si sia svuotato di realtà. Immagino che gli aspetti più misteriosi e rivelatori del reale siano migrati verso la dimensione del sogno.

 

Franco Vaccari, Messaggero che arriva per primo da lontano, 2020, Video installazione, courtesy of the artist, Bologna, credit Esom Kornmesser, USA.


Hai vissuto anche sogni preveggenti, o visioni simili a quelle che sono state descritte da antropologi venuti in contatto con sciamani di altre culture?

Sì, io ho fatto anche quei sogni che tu chiami “preveggenti”. Non sono stati esposti in questa mostra, per il semplice fatto che costituiscono un nucleo che non andrebbe disperso in mezzo ad altre immagini, ma potrebbero essere l’argomento di un’altra mostra, dove si potrebbe concentrare l’attenzione proprio su questo aspetto dei sogni.

 

Cosa evochi in Migrazione del reale e attraverso l’installazione video, che ha per soggetto un asteroide interstellare, proveniente da un luogo indefinito o indeterminato?

La notizia dell’apparizione di questo asteroide, nel campo di osservazione dei nostri mezzi di indagine dello spazio, è recente. L’asteroide ha suscitato molte curiosità, per la forma e per la provenienza, che pare essere extragalattica. È quindi un’apparizione momentanea, prima di sparire di nuovo nell’universo. Quello che mi ha colpito è il fatto che sia stato scoperto dall’osservatorio delle Hawaii e che le popolazioni di quell’arcipelago, dopo aver visto le immagini di questo asteroide, lo abbiano battezzato col nome “Oumuamua”, che nella lingua locale sembra che voglia dire “Messaggero che arriva per primo da lontano” o “Visitatore che giunge da un luogo indefinito”. Siccome stavo preparando la mostra alla Galleria P420 sul tema dei sogni, ho trovato che il nome dato a questo asteroide – che mi aveva colpito per la sua immagine e per la forma, assolutamente imprevista per un corpo che viene dallo spazio celeste – andasse perfettamente d’accordo con il tema delle mie opere, che era il tema del sogno. I sogni sono immagini, che sembrano provenire da chissà quale spazio, non soltanto interiore. Quindi ho unito – anche se i due soggetti sembrano apparentemente distanti – lo spazio dedicato alla mia opera con quello dedicato a questo asteroide. 

 

Franco Vaccari, Migrazione del reale, 2020, Installation view, courtesy of the artist, P420 Bologna, ph Carlo Favero.


Alcuni sogni che hai vissuto ti hanno portato intuizioni, che sono poi entrate nelle opere della tua ricerca?

Beh, ci sono dei sogni che mi hanno comunicato intuizioni, quelle che possono essere verità particolari. Per esempio, c’è quello dove ci sono pugni, che tengono stretta l’asta di certe bandiere. Lo trovo uno dei miei sogni più significativi, dove si vedono mani che tentano di tenere in pugno la sabbia e oggetti raccolti. Ci sono anche dei tumuli di sepoltura, che tentano di resistere all’azione del vento e, invece, vengono dispersi dal vento. I pugni che tentano di tener stretta la sabbia o questi oggetti che sono stati raccolti in realtà vengono svuotati dall’azione del vento. Il vento chiaramente rappresenta, secondo me, il tempo. E la parte veramente interessante, anomala, rispetto ad altri sogni, è che c’è qualcosa che viene da lontano, come il corpo celeste, l’asteroide. Qui si ode una voce fuori campo. Dice qualcosa che mi ha molto colpito: “Non bisogna resistere all’azione del vento, perché è uno sforzo inutile destinato al fallimento. Invece bisogna fare come le bandiere, che si dispiegano e prendono vita nel vento”.

È inutile opporsi all’azione livellante del tempo, ma bisogna approfittare del tempo per dispiegare la propria natura. E trovo che sia un consiglio veramente meraviglioso.

 

In una delle opere esposte alla Galleria P420 c’è anche un riferimento all’opera d’arte che è entrata in un tuo sogno: un segno di Capogrossi. Ci puoi parlare del sottile rapporto fra sogno, opere d’arte di altri artisti, cose viste, segni, figure, idee, concetti, che entrano nell’immaginario?

Nel sogno subentrano tantissime cose. Quando ho dovuto rendere l’immagine che vedevo sulle superfici delle uova, mi è venuto in mente Capogrossi. Ma, in realtà, forse l’immagine più precisa erano i cromosomi, nel momento in cui si suddividono, dando luogo ai corpi, allo sviluppo. Nel mio sogno c’era qualcosa che mi ricordava l’inizio dello sviluppo dei corpi. Allora questa danza dei cromosomi mi è sembrata abbastanza simile alla danza dei segni misteriosi presenti nelle opere di Capogrossi, che non sono solo decorativi, ma vogliono probabilmente dire anche qualcos’altro e hanno radici più profonde.

 

Franco Vaccari, Migrazione del reale, 2020, Installation view, courtesy of the artist, P420 Bologna, ph Carlo Favero.


Ora ti pongo una domanda che si sposta verso il futuro. Come immagini ulteriori possibilità del medium della fotografia e della fotografia contemporanea ibridata con altri media o questioni?

La fotografia è in un momento il cui argomento è in eclisse, per quanto mi riguarda. Noi vediamo tante immagini e le immagini fotografiche sono un po’ sommerse da questa quantità. Qui, proprio poco fa, nella galleria è venuto in visita Erik Kessels, che è diventato famoso per aver fatto delle mostre dove vengono esposte caterve di immagini, milioni di fotografie, che lui non so in che modo riesca a stampare in brevissimo tempo. Allora la fotografia in questo senso perde buona parte dell’interesse. Tu immagina quella che era la magia dell’apparizione dell’immagine fotografica ai primordi della sua invenzione. Oggi è estremamente banalizzata. Però, secondo me, la fotografia subisce un po’ un processo di normalizzazione, dove lo stupore passa quasi totalmente, come per la luce nel telefono.  Anche le telefonate nel loro apparire potevano essere oggetto di mostre. L’apparizione della voce di un corpo, di un essere, che per noi poteva significare tanto, ma a distanza enorme, doveva essere fonte di una meraviglia incredibile. Però adesso con la telefonata chi è che riesce a emozionarsi più sentendo una voce? Anche se ci sono situazioni in cui questo ancora si verifica, come per esempio è accaduto a Rigopiano qualche tempo fa, dove una valanga di neve ha sepolto un albergo. Ci sono state telefonate da parte di persone, che poi sono morte, che da sotto la neve si erano messe in contatto con i loro cari o con quelli che avrebbero forse potuto andare a salvarli. 

 

Franco Vaccari, I sogni, spazio privato in spazio pubblico 1975.


Un altro aspetto molto importante della tua ricerca è stato l’inconscio tecnologico. Ha lasciato il segno negli anni ’70 e nei decenni successivi. Adesso, a distanza di anni, che cosa trovi di pulsante e vitale in questa tua intuizione?

Adesso siamo nel momento in cui si sta preparando una rivoluzione tecnologica incredibile, della quale non sappiamo lontanamente quali potranno essere gli sviluppi e gli approdi. È la comunicazione dovuta all’Intelligenza Artificiale. Quando i mezzi tecnologici avranno a disposizione gli strumenti dell’Intelligenza Artificiale, soprattutto quelli nati dalla meccanica quantistica, in cui gli scambi di informazione e di operazioni para-mentali subiranno un’accelerazione tale da ridicolizzare il funzionamento del nostro sistema nervoso. Quindi lì ne succederanno di tutti i colori. 

 

Franco Vaccari, Migrazione del reale, 2020, Installation view, courtesy of the artist, P420 Bologna, ph Carlo Favero.


Quindi come immagini tu l’utilizzo di una macchina fotografica quantistica? Che immagini potrà realizzare?

Ah, non so. Dicono, per esempio – è una notizia apparsa in questo ultimo periodo – che l’immagine più importante del 2019 sia la fotografia del buco nero. Non è stata ottenuta attraverso un apparato, che con lo schiacciamento di un bottone restituisce un’immagine, ma è nata dalla sovrapposizione e dall’interferenza di una quantità di immagini ottenuta con dei mezzi incredibili, in cui l’intero apparato di recezione è stato il globo terrestre. Queste informazioni, che sono state raccolte con un apparato che era diffuso sul globo terrestre, hanno portato alla produzione di un’immagine che non poteva essere ottenuta attraverso l’uso di un mezzo classico. Quindi, non riesco proprio a figurarmi cosa ci mostrerà la macchina fotografica quantistica, nel momento in cui il passato, il presente e il futuro potranno essere colti nello stesso istante.

 

Franco Vaccari, Migrazione del reale, 2020, Installation view, courtesy of the artist, P420 Bologna, ph Carlo Favero.


Ammettiamo che sia ora possibile mettere in commercio la macchina quantistica, e che inneschi una nuova rivoluzione fotografica. Se porta con sé tutte le questioni dello spazio-tempo e le scoperte della fisica quantistica, sarà possibile secondo te fare fotografie anche di qualcosa che accadrà in futuro? La fotografia non sarà più un documento, uno scatto di qualcosa che viene colto in un determinato momento presente, ma potrà essere una previsione, un istante del futuro?

FV: Ah beh, sarà l’eclisse del mito di Cartier-Bresson.

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Robert Smithson: “Let Asphalt Flow!”

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Qui, nei paraggi di Roma, sembra estate sebbene il calendario segni 15 ottobre 1969. In cima a questa collina abbandonata fa caldo a causa delle macchine di cottura con le loro materie prime, i gas caldi e un fumo nero che incenerisce il cielo. La puzza di catrame è forte quanto il rumore prodotto dalla macinazione.

Non si vede un granché da questo pendio brullo – un vero e proprio nonsite. Lontana è la Roma che ho visitato nel 1961, la Roma storica, la Roma dei monumenti dove storia ed eternità si rincorrono in un gorgo senza fine.

L’idea di venire fin qui è stata del gallerista Fabio Sargentini, quando ha realizzato che dentro le mura cittadine non avremmo mai trovato uno spazio adatto alla mia idea, neanche nel suo garage, una galleria d’arte underground che ha chiamato L’Attico. 

Il mio intervento si è chiarito poco a poco: all’inizio c’era giusto un’immagine, una colata di lava, un fluido viscoso e nero che scivola verso il basso. Qualcosa che cade e la cui conformazione finale è data solo dalla forza di gravità, in assenza di qualsiasi intervento umano. Una scultura che si fa da sola o meglio che è fatta dal – e assieme al – paesaggio. Ridotto al minimo è il mio intervento; rispetto a Robert Morris e Richard Serra, a interessarmi è il processo di produzione più che la forma finale. Che il processo faccia il suo corso!, mi dico e così suggerisco ai quattro testimoni romani – di più non ne volevo. Per gli altri ci saranno il film Rundown e le fotografie.

 

Qui a Cava di Selce (come si chiama questa frazione nel nord-est di Roma vicino via Laurentina), mi limiterò ad alzare il cassone ribaltabile del camion con una leva che aprirà il portellone posteriore. Quindici quintali di catrame bollente si verseranno e spargeranno lentamente giù per la collina, seguendo la pendenza e le anfrattuosità del terreno. Una scia nera di cui non potremo far altro che seguire la metamorfosi qui dall’alto, allo stesso modo in cui si assiste a un naufragio coi piedi saldi sulla terraferma o, meglio, a un’eruzione vulcanica. In una terra come quella italiana piena di vulcani ancora in attività, creare un’eruzione artificiale mi sembra una buona idea. Per questo a L’Attico ho portato, assieme agli specchi, della cenere vulcanica.

Il blob bituminoso sarà preso in una metamorfosi incessante finché, seccandosi, non resterà che una impronta dell’erosione per così dire, un fossile dei tempi a venire. Mi diverte pensare a quegli archeologi del futuro che si romperanno la testa sull’inusuale quantità di asfalto trovata in questa zona, unica traccia superstite del mio intervento o forse di tutta la mia opera.

Asphalt Rundown, questo il nome, è il primo di una serie che continuerò appena tornerò negli Stati Uniti e che vorrei chiamare “pouring”.

 

Robert Smithson, Asphalt rundown, Archivio lattico, Fabrio Sargentini.


Da questa periferia urbana la Città eterna è invisibile, quasi scomparsa a causa di un’improvvisa calamità. Ricordo come fosse ieri che nel 1961, quasi dieci anni fa, ero venuto in visita a Roma per tre mesi. Era estate e c’era un’atmosfera torrida da città decadente, da fine impero – “Rome is still falling” scrivevo; ma anche: “I am a modern artist dying of Modernism”.

L’arte europea era per me l’antecedente del modernismo. Pensavo alla storia dell’arte in modo schematico ed eurocentrico. Di Roma avevo un’immagine archetipica, come se fosse la radice – o meglio l’ombelico – della civiltà europea, il mundus che si è spalancato nel terreno per metterci in contatto con un abisso sotterraneo e ctonio. 

Mi piacevano le catacombe, i dipinti di Botticelli, gli affreschi di Pietro Cavallini a Santa Cecilia, con quegli angeli che, grazie alle loro ali screziate, diventavano creature fantastiche provenienti da un altro pianeta. M’interessava il modo in cui la religione ha influenzato l’arte nella civilizzazione occidentale.

Così ho trascorso quell’estate a fare il periplo di chiese e monumenti – una vera e propria cura d’intossicazione! Al punto che, preso a fare i conti col passato, di arte contemporanea ne ho vista ben poca, anche se tutti mi dicevano che il centro di Roma pullulava di gallerie e giovani artisti. A La Salita c’era persino una collettiva del Gruppo Zero. In questi giorni mi parlano di un nuovo movimento, l’arte povera; alcuni protagonisti espongono con me alla collettiva di Harald Szeemann a Londra, Live in Your Head: When Attitudes Become Form.

 

Sempre a Roma ho tenuto la prima mostra personale della mia carriera, nella galleria di George Lester, un americano trapiantato a Roma: ventiquattro opere tra collage, tempere e olii su carta. “Mostri goyeschi” li ha chiamati un giornalista italiano – e forse ci ha visto giusto. Mi ha fatto capire che, in fondo, non era la religione a preoccuparmi. Non era attraverso il cristianesimo che potevo risolvere i miei problemi col modernismo. Mi sono messo a raffigurare santi accanto a distributori di benzina, Giovanni Battista accanto a King Kong. Finché nel 1965, appena ho colto la lezione, ho cominciato a fare arte di testa mia.

E da allora – e Asphalt Rundown ne sarà una prova – la geologia ha cominciato a interessarmi più della teologia. 

 

Robert Smithso a Roma.,


Difficile dire da dove mi sia venuta l’idea del “pouring”; non saprei neanche dire se si tratta di scultura, opera site-specific, land art, earthwork. Tutti nomi, tutti fallaci. Di sicuro non sarà una performance. 

Qui in Italia, c’è da giurarci, non ci sarà mai una Land art: il paesaggio è troppo antropizzato, privo di quelle distese a vista d’occhio del paesaggio americano. Eppure in questa cava abbandonata potrei essere nel New Jersey, a due passi da Passaic dove sono nato. Due luoghi agli antipodi ma tangenti, entrambi paesaggi entropici, entrambi paesaggi di rovine. Che Passaic sia la nuova Città eterna? 

Quelle di Passaic sono rovine all’inverso, lontane da quelle romantiche, in cui le costruzioni industriali vanno in rovina prima di essere terminate, si manifestano come rovine già in fase costruttiva. Diverse le vestigia romane, uniche nel loro genere: si presentano come tagli geologici e stratigrafici di epoche diverse, tutte leggibili in verticale. 

A proposito, il prossimo anno vorrei scrivere una storia in cui fotografie di pietre e fossili si alternano a un testo sulle ere geologiche. Sarà disposto in verticale, come se ogni paragrafo costituisse una discesa negli strati della Terra.

Nelle rovine di Roma, dicevo, niente è andato distrutto, tutto si è preservato sotto lo strato successivo. Qui il tempo si mostra e si lascia leggere nella sua complessità, nella sua vertigine. Quando ero a Roma nel 1961, oltre a leggere Il Pasto nudo di William Burroughs, T.S. Eliot o Ezra Pound nel fresco delle chiese barocche, ero affascinato dalle riflessioni di Freud in Il disagio della civiltà. In quelle pagine Roma si faceva immagine della mente, l’archeologia dell’inconscio, la geologia – aggiungo io – dei processi psichici.

 

Sleeping venus, Giorgione, 1964.


Ricordo bene l’impressione che suscitò su di me la scultura di Michelangelo: quelle figure prese in un turbine di dissoluzione e corruzione, quella massa quasi informe che resiste all’elevazione verticale della salvezza. Ne ho parlato con Peter Hutchinson, uno dei pochi artisti americani ad aver colto nel manierismo un linguaggio contemporaneo, molto più contemporaneo di tante opere d’arte esposte oggi nelle gallerie.

Nelle sculture e nelle architetture di Michelangelo, io e Peter ritroviamo una sorta di manierismo astratto. L’astrazione è, prima di tutto, materia grigia, cosa mentale; la sua materialità è inorganica, lontana dall’antropomorfismo nascosto dei pittori dell’Espressionismo astratto, che si tratti di Pollock, de Kooning o Newman – “one paints with the brain, not with the hand”. Per questo con Asphalt Rundown non ho alcuna intenzione di fare un Pollock en plein air

Per me il manierismo ha a che vedere meno col barocco che con l’astrazione, anzi per me il manierismo non è neanche un movimento storico ma una soluzione ai problemi irrisolti del modernismo, uno dei tanti. Così pensavo quando scrivevo What Really Spoils Michelangelo’s Sculpture, il mio primo articolo dedicato a un artista non contemporaneo che volevo pubblicare su “Art Magazine”.

I Prigioni di Michelangelo hanno una massa tale che sembrano in bilico, in procinto di cadere dal piedistallo come macigni da una montagna in frana. Un’idea di caduta propria alla storia della scultura, sin dal corpo senza vita di Cristo che posa sulle ginocchia della madre nelle Deposizioni. A volte immagino che, della scultura, non resti altro che il cadere, altro che il collasso, altro che un gesto di de-creazione. Asphalt Rundown sarà anche questo.

Inforco gli occhiali da sole e mi affaccio dal bordo della collina. Mi rendo conto che sono attratto da tutto ciò che va verso il basso, che va nel senso contrario dell’elevazione della scultura classica – o di Manhattan, ma questa è un’altra storia. Un’adesione incondizionata alla gravitas portata a un punto di non-ritorno, a un punto irreversibile, quello dell’entropia.

Asphalt Rundown sarà una scultura che cade; l’ultimo capitolo di una storia della scultura cominciata con le Deposizioni; il mio omaggio estremo all’arte di Michelangelo.

 

Christ series in limbo, 1961,


Ora, queste idee datano al 1966. Alcuni giorni fa, giunto a Roma, riflettevo non tanto al primo viaggio italiano quanto a quello recente in Inghilterra. A settembre infatti ero a Londra per installare Chalk-Mirror Displacement in Live in Your Head: When Attitudes Become Form. Solo Szeemann poteva tenere miracolosamente insieme arte povera, minimal art, land art, installation art, arte concettuale; per lui siamo tutti “artisti dell’attitudine”. Qui a Roma ho portato opere simili, fatte di terra vulcanica e specchi, legate al viaggio nello Yucatan.

Prima di Londra con mia moglie Nancy Holt abbiamo viaggiato nel sud dell’Inghilterra visitando, oltre a cave e miniere, siti preistorici, Stonehenge incluso, che si è per così dire sedimentato nella mia mente. Altro che reperti archeologici! La storia della scultura e il rapporto dell’uomo col paesaggio ne escono stravolti. Ne devo parlare assolutamente con Carl Andre. Ricordo che già qualcuno aveva paragonato la scultura minimalista esposta al Jewish Museum coi megaliti arcaici – sempre di Primary Structures si tratta in fondo.

Che il minimalismo abbia a che vedere più con la preistoria che col modernismo americano? Con un tempo profondo, incommensurabile, stratigrafico, lontano dalla contemporaneità cui la critica mainstream vuole assoggettarci? Asphalt Rundown preistorica?

“Time as ideology has produced many uncertain ‘art histories’ with the help of the mass-media. Art histories may be measured in time by books (years), by magazines (months), by newspapers (weeks and days), by radio and TV (days and hours). And at the gallery proper – instants!” (Smithson, Quasi-Infinities and the Waning of Space, 1966).

 

Robert Smithson, A pentre-ifan.


In quell’annus mirabilis che è stato il 1966, mentre lavoravo su Michelangelo, m’interessavo anche di geologia. Mi chiedevo come tenere assieme la massa scolpita dallo scultore e la materia terrestre studiata dai geologi. Rispetto al viaggio romano del 1961, sentivo il tempo profondo divaricarsi sotto ai miei piedi e il modernismo trasformarsi in un battito di ciglia, in uno sbadiglio della Terra, in una sgualcitura del tempo. Prima o poi anche le architetture più colossali franeranno sotto il peso del tempo – basta fare un giro al centro di Roma per rendersene conto.

Che le parole resistano meglio all’usura del tempo? Che la parole siano dure come pietre? Che, in altri termini, vi sia un’analogia tra geologia e linguaggio, tra scultura e scrittura? Sempre più la scrittura mi appare come un affare di stratificazione, lontana dalla pagina su cui s’imprime l’inchiostro, piatta come la “flatness” decantata dalla pittura modernista. E se le parole hanno uno spessore, la pagina è come uno di quei mappamondi in rilievo, uno spazio da esplorare e cartografare.

Colui che scrive procede come un collezionista di minerali e di rocce. Mette le parole una accanto all’altra, provando combinazioni diverse con fare empirico. Scrivere un testo è come fare una scultura. In finale, la scrittura si avvicina alla scultura piuttosto che al disegno. No, la scrittura non era un ideogramma che (almeno nelle nostre lingue occidentali) ha perso la sua figuratività per cristallizzarsi nella forma fissa, fissata dalla lettera. La scrittura, al contrario, è un assemblage di parole-mattoncini con un loro peso specifico.

 

Così le parole, che fuoriescono come una valanga dalla nostra bocca, franano, vengono eruttate dalla cavità orale come dal cratere di un vulcano. Quando sono catapultate possono ferire come lapilli nel corso di un’eruzione. Chi lo ha detto che il linguaggio viene dal canto degli uccelli? Per me viene da sottoterra, una voce degli abissi che soffia e genera terremoti, smottamenti che hanno ripercussioni sul piano fisico quanto psicologico, di questo ne sono convinto.

Asphalt Rundown sarà una parola che frana, che si sfracella giù per la collina: una parola fatta di asfalto emessa dalla bocca del camion. Sarà un grido inarticolato, il vagito originario di una lingua che non sappiamo ancora interpretare, perché ne abbiamo perso le tracce o perché non è stata ancora inventata.

 

Robert Smithson, A heap of language, 1966.


“One cannot avoid muddy thinking when it comes to earth projects, or what I will call ‘abstract geology’. One’s mind and the earth are in a constant state of erosion, mental rivers wear away abstract banks, brain waves undermine cliffs of thought, ideas decompose into stones of unknowing, and conceptual crystallizations break apart into deposits of gritty reason. Vast moving faculties occur in this geological miasma, and they move in the most physical way. This movement seems motionless, yet it crushes the landscape of logic under glacial reveries. This slow flowage makes one conscious of the turbidity of thinking. Slump, debris slides, avalanches all take place within the cracking limits of the brain. The entire body is pulled into the cerebral sediment where particles and fragments make themselves known as solid consciousness. A bleached and fractured world surrounds the artist” (Smithson, A Sedimentation of the Mind: Earth Projects, 1968).

“Matter” e “mind”: ne discuto coi miei amici romani. Pare che, in Italia, “mind” non sia facile da tradurre: spirito, mente, coscienza, pensiero. Comunque, per dirlo in una parola, sono alla ricerca di una forma di geologia astratta, di un inconscio geologico, di una corrispondenza tra geologia e processi psichici.

 

Ai piedi della collina il fotografo Claudio Abate è pronto a documentare Asphalt Rundown. Realizzerà un’affiche della mostra, un’immagine in cui la frontalità e la verticalità del magma oscuro che scende predomineranno, anche a costo di scontornarla un po’. Sarà soffusa di un’aria misteriosa se non minacciosa, come in un film noir: il protagonista aziona la leva del rimorchio del camion e poi scappa, lasciando la portiera aperta, trasformando questo squallido paesaggio nella scena di un delitto senza corpo, in un luogo disertato più che deserto.

 

Robert Smithson, Asphalt rundown, 1969, courtesy Archivio lattico, Fabio Sargentini.


L’affiche, così mi ha promesso Sargentini, sarà pronta prima che parta. La metterò sulla parete del mio appartamento newyorkese e la farò vedere di sicuro a Richard Serra e Walter de Maria.

Sarà simile all’affiche di un film di science-fiction, uno di quelli girati in Italia che mi hanno colpito, come La Decima vittima (1965) di Elio Petri. Un film pop di quelli che se ne vedono pochi in giro; difficile pensare che sia stato realizzato a Roma, dove la fantascienza è tenuta in così scarsa considerazione. Pare che in Italia sia stato molto criticato, bah! Io e Dan Graham ne siamo rimasti entusiasti e ne ho pure scritto in Entropy and the New Monuments (1966) riguardo alle sculture di Sol LeWitt.

Senza dimenticare Mario Bava: il design interno e l’arredamento delle navicelle spaziali in Terrore nello spazio (1965) ricorda tante mostre minimaliste cui ho partecipato. Per non citare quei film di serie B a piccolo budget in cui più palese è l’artificialità dell’ambientazione. Qui, come dicevo a Lawrence Alloway, “le convenzioni crollano mentre si guarda l’attore titubante nel suo costume extraterrestre sul minuscolo plateau coperto di nebbia”.

Dicevo che a Roma ho frequentato poco la scena artistica contemporanea; ma col cinema science-fiction ho sentito subito un’affinità. La SF funziona bene in una città dove il passato ha lasciato una quantità così impressionante di rovine. Anziché relegarla a quel momento passato – come un cristallo di tempo –, le rovine la proiettano all’altra sponda del tempo, nella dimensione altrettanto incommensurabile del futuro.

Roma invasa dagli ultracorpi, da una presenza aliena quale Asphalt Rundown.

 

Mario Bava, Terrore nello spazio, 1965.

 

Mario Bava, Terrore nello spazio, 1965.


Ecco, ci siamo quasi, il cassone del camion è pieno d’asfalto bollente che, una volta tirata la leva del camion, scivolerà attraverso il portellone riversandosi giù per la collina. A quel punto non si potrà più tornare indietro. La leva del camion è il mio bottone rosso. È l’immagine dell’entropia che si può redimere solo filmandola e proiettandola al contrario.

Ora, se devo essere sincero, la mia idea originaria era un’altra. Avete presente Viaggio in Italia di Roberto Rossellini? Quella scena in cui il film diventa astratto, quando Ingrid Bergman visita la Solfatara e, d’un colpo, viene inghiottita dal fumo. Lo schermo si fa bianco come la calce. Il film diventa astratto per pochi minuti. Solo le voci che provengono da questa coltre indicano che là dentro c’è ancora l’attrice e la guida locale.

Asphalt Rundown me l’ero immaginato lì, alla Solfatara, in mezzo al fervido fango, in mezzo ai miasmi, non lontano dalla città morta di Pompei. Quando ad aprile scorso Sargentini è venuto a New York, gli avevo accennato di Ercolano, l’antica città romana ai piedi del vulcano, e di Ansedonia vicino le fonti d’acqua termale e solforosa. “Qui a Roma avevo in mente un luogo particolare da cercare. Avevo un’idea generale di ciò che cercavo, qualcosa di equivalente alla mia immagine mentale. Ma il risultato poi dipendeva dal luogo concreto” (Smithson, Tempo concreto, dicembre 1969).

Ad ogni modo i paraggi di Roma vanno bene. Anche ai margini della Città eterna c’è porosità e c’è entropia, una messa in scacco del tempo cronologico, della teologia della Storia che si esercita a distinguere passato-presente-futuro.

 

Chissà cosa ne penseranno i miei amici di Asphalt Rundown. Per Nancy è un modo di rendere visibile l’entropia, per Carl Andre un “angolo dell’inferno”. Quando mi chiedono il senso di quest’intervento io taglio corto: “You see, it’s ultimately what’s done after the truck pulls away”. E quando il camion si allontana quello che resta non è altro che il collasso, un’immagine in negativo.

Asphalt Rundown sarà un’immagine della sedimentazione della mente o un mindscape. Sarà un tentativo di mimare i processi geologici. Ma anche d’ibridare un tempo precedente la presenza dell’uomo sulla Terra e un futuro post-umano, geologia e science-fiction – un’attrazione reciproca tanto più forte quanto più la loro unione è, in finale, impossibile.

A proposito, non è paradossale pensare a un tempo della pre-istoria, cioè a un tempo prima del tempo? Non è la spia della nostra difficoltà a relazionarci col tempo profondo? Cosa ne è del tempo se non c’è storia, o cosa ne è del tempo se non c’è l’uomo? (ma le due chiedono la stessa cosa?).

Asphalt Rundown mi permetterà di veder meglio, forse di esorcizzare, la preoccupazione per la temporalità che mi ossessiona. Il momento è giunto, comincio a tirare la leva del camion – “Let Asphalt Flow!”

 

Nota

Il titolo – “Let Asphalt Flow” – riprende un appunto di mano di Robert Smithson datato 5 ottobre 1969 su Asphalt Rundown. Il testo s’ispira liberamente, oltre che agli scritti dell’artista, a diversi studiosi di Smithson: Larisa Dryansky, Sébastien Marot, Valérie Mavridorakis, Alexander Nagel, Jennifer L. Roberts, Maria Stavrinaki, Gilles Tiberghien, Philip Ursprung.

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Roma, 15 ottobre 1969
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Franco Vaccari. Migrazione del reale onirico

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Franco Vaccari (Modena, 1936) nutre profondo interesse per la dimensione onirica, fin dall’infanzia. Dal 1975 il sogno entra anche nella sua ricerca artistica. Diventa una sorta di correlativo oggettivo di un dispositivo concettuale. Attraverso cinque Esposizioni in tempo reale– oltre a una vasta produzione di opere e annotazioni su quaderni, dove fotografia e pittura convivono per rappresentare sogni notturni, soggetti e forme suggeriti dai meccanismi dell’inconscio o da un’alterità misteriosa – Vaccari indaga e rende visibile il profondo legame tra il mondo dei sogni e il suo ruolo di artista, inteso come innescatore di processi: «il ruolo di "controllore a distanza" si dissolve a sua volta in quanto il sogno funziona da attivatore di realtà, cioè da pretesto per dirottare una situazione apparentemente definita verso esiti imprevisti, verso il reale inaspettato».

 

Nella mostra Migrazione del reale, allestita alla Galleria P420 di Bologna, il reale inaspettato è un asteroide interstellare, che giunge da una ineffabile lontananza e incombe in uno spazio siderale, avvicinandosi sempre più alla nostra coscienza. Questo asteroide è “realmente” il primo oggetto interstellare a incrociare i piani orbitali dei pianeti del sistema solare, per poi dirigersi nuovamente nello spazio profondo. Vaccari lo ha percepito come esistenza reale, come un sogno premonitore. E lo ha messo in relazione con appunti segnici e letterali, collegamenti e interpretazioni dei suoi sogni notturni, con le immagini che sono giunte da un’altra dimensione. Abbiamo posto alcune domande all’artista, come se fossimo giunti in un luogo arcaico, dedicato all’attività oracolare, come a Dodona o a Delfi, attendendo una visione o un ulteriore enigma da risolvere, come al cospetto di Pizia, di Cassandra o di una Sibilla, di fronte a una divinazione per ispirazione del nume o intuitiva, affidandoci all’oniromanzia.

 

Franco Vaccari, I sogni, spazio privato in spazio pubblico 1975.


Mauro Zanchi: Da dove provengono i sogni?

Franco Vaccari: Su che cosa siano i sogni e quale sia la loro funzione ci sono opinioni tra loro diversissime. Però hanno sempre colpito l’uomo dai tempi più antichi, per la forza delle immagini e per la superiore estraneità rispetto al nostro vissuto. Riescono a dare importanza a tanti aspetti del nostro vissuto, pur essendo apparentemente così estranei. Siccome ero un sognatore piuttosto accanito, ho pensato di non disperdere questo patrimonio onirico, che mi sembrava una sorta di ricchezza in potenza, non sapendo come avrei potuto utilizzarla. Scrivendo dei testi che si riferissero ai sogni, quando mi colpiva qualche immagine particolare, provavo anche a disegnarla. Non mi interessano gli aspetti dello straordinario e dell'eccezionale nel mondo onirico, nemmeno la dimensione surreale o straniante, e neppure quella psicanalitica. Mi affascina la dimensione reale del sogno. Mi sembra che il mondo reale si sia svuotato di realtà. Immagino che gli aspetti più misteriosi e rivelatori del reale siano migrati verso la dimensione del sogno.

 

Franco Vaccari, Messaggero che arriva per primo da lontano, 2020, Video installazione, courtesy of the artist, Bologna, credit Esom Kornmesser, USA.


Hai vissuto anche sogni preveggenti, o visioni simili a quelle che sono state descritte da antropologi venuti in contatto con sciamani di altre culture?

Sì, io ho fatto anche quei sogni che tu chiami “preveggenti”. Non sono stati esposti in questa mostra, per il semplice fatto che costituiscono un nucleo che non andrebbe disperso in mezzo ad altre immagini, ma potrebbero essere l’argomento di un’altra mostra, dove si potrebbe concentrare l’attenzione proprio su questo aspetto dei sogni.

 

Cosa evochi in Migrazione del reale e attraverso l’installazione video, che ha per soggetto un asteroide interstellare, proveniente da un luogo indefinito o indeterminato?

La notizia dell’apparizione di questo asteroide, nel campo di osservazione dei nostri mezzi di indagine dello spazio, è recente. L’asteroide ha suscitato molte curiosità, per la forma e per la provenienza, che pare essere extragalattica. È quindi un’apparizione momentanea, prima di sparire di nuovo nell’universo. Quello che mi ha colpito è il fatto che sia stato scoperto dall’osservatorio delle Hawaii e che le popolazioni di quell’arcipelago, dopo aver visto le immagini di questo asteroide, lo abbiano battezzato col nome “Oumuamua”, che nella lingua locale sembra che voglia dire “Messaggero che arriva per primo da lontano” o “Visitatore che giunge da un luogo indefinito”. Siccome stavo preparando la mostra alla Galleria P420 sul tema dei sogni, ho trovato che il nome dato a questo asteroide – che mi aveva colpito per la sua immagine e per la forma, assolutamente imprevista per un corpo che viene dallo spazio celeste – andasse perfettamente d’accordo con il tema delle mie opere, che era il tema del sogno. I sogni sono immagini, che sembrano provenire da chissà quale spazio, non soltanto interiore. Quindi ho unito – anche se i due soggetti sembrano apparentemente distanti – lo spazio dedicato alla mia opera con quello dedicato a questo asteroide. 

 

Franco Vaccari, Migrazione del reale, 2020, Installation view, courtesy of the artist, P420 Bologna, ph Carlo Favero.


Alcuni sogni che hai vissuto ti hanno portato intuizioni, che sono poi entrate nelle opere della tua ricerca?

Beh, ci sono dei sogni che mi hanno comunicato intuizioni, quelle che possono essere verità particolari. Per esempio, c’è quello dove ci sono pugni, che tengono stretta l’asta di certe bandiere. Lo trovo uno dei miei sogni più significativi, dove si vedono mani che tentano di tenere in pugno la sabbia e oggetti raccolti. Ci sono anche dei tumuli di sepoltura, che tentano di resistere all’azione del vento e, invece, vengono dispersi dal vento. I pugni che tentano di tener stretta la sabbia o questi oggetti che sono stati raccolti in realtà vengono svuotati dall’azione del vento. Il vento chiaramente rappresenta, secondo me, il tempo. E la parte veramente interessante, anomala, rispetto ad altri sogni, è che c’è qualcosa che viene da lontano, come il corpo celeste, l’asteroide. Qui si ode una voce fuori campo. Dice qualcosa che mi ha molto colpito: “Non bisogna resistere all’azione del vento, perché è uno sforzo inutile destinato al fallimento. Invece bisogna fare come le bandiere, che si dispiegano e prendono vita nel vento”.

È inutile opporsi all’azione livellante del tempo, ma bisogna approfittare del tempo per dispiegare la propria natura. E trovo che sia un consiglio veramente meraviglioso.

 

In una delle opere esposte alla Galleria P420 c’è anche un riferimento all’opera d’arte che è entrata in un tuo sogno: un segno di Capogrossi. Ci puoi parlare del sottile rapporto fra sogno, opere d’arte di altri artisti, cose viste, segni, figure, idee, concetti, che entrano nell’immaginario?

Nel sogno subentrano tantissime cose. Quando ho dovuto rendere l’immagine che vedevo sulle superfici delle uova, mi è venuto in mente Capogrossi. Ma, in realtà, forse l’immagine più precisa erano i cromosomi, nel momento in cui si suddividono, dando luogo ai corpi, allo sviluppo. Nel mio sogno c’era qualcosa che mi ricordava l’inizio dello sviluppo dei corpi. Allora questa danza dei cromosomi mi è sembrata abbastanza simile alla danza dei segni misteriosi presenti nelle opere di Capogrossi, che non sono solo decorativi, ma vogliono probabilmente dire anche qualcos’altro e hanno radici più profonde.

 

Franco Vaccari, Migrazione del reale, 2020, Installation view, courtesy of the artist, P420 Bologna, ph Carlo Favero.


Ora ti pongo una domanda che si sposta verso il futuro. Come immagini ulteriori possibilità del medium della fotografia e della fotografia contemporanea ibridata con altri media o questioni?

La fotografia è in un momento il cui argomento è in eclisse, per quanto mi riguarda. Noi vediamo tante immagini e le immagini fotografiche sono un po’ sommerse da questa quantità. Qui, proprio poco fa, nella galleria è venuto in visita Erik Kessels, che è diventato famoso per aver fatto delle mostre dove vengono esposte caterve di immagini, milioni di fotografie, che lui non so in che modo riesca a stampare in brevissimo tempo. Allora la fotografia in questo senso perde buona parte dell’interesse. Tu immagina quella che era la magia dell’apparizione dell’immagine fotografica ai primordi della sua invenzione. Oggi è estremamente banalizzata. Però, secondo me, la fotografia subisce un po’ un processo di normalizzazione, dove lo stupore passa quasi totalmente, come per la luce nel telefono.  Anche le telefonate nel loro apparire potevano essere oggetto di mostre. L’apparizione della voce di un corpo, di un essere, che per noi poteva significare tanto, ma a distanza enorme, doveva essere fonte di una meraviglia incredibile. Però adesso con la telefonata chi è che riesce a emozionarsi più sentendo una voce? Anche se ci sono situazioni in cui questo ancora si verifica, come per esempio è accaduto a Rigopiano qualche tempo fa, dove una valanga di neve ha sepolto un albergo. Ci sono state telefonate da parte di persone, che poi sono morte, che da sotto la neve si erano messe in contatto con i loro cari o con quelli che avrebbero forse potuto andare a salvarli. 

 

Franco Vaccari, I sogni, spazio privato in spazio pubblico 1975.


Un altro aspetto molto importante della tua ricerca è stato l’inconscio tecnologico. Ha lasciato il segno negli anni ’70 e nei decenni successivi. Adesso, a distanza di anni, che cosa trovi di pulsante e vitale in questa tua intuizione?

Adesso siamo nel momento in cui si sta preparando una rivoluzione tecnologica incredibile, della quale non sappiamo lontanamente quali potranno essere gli sviluppi e gli approdi. È la comunicazione dovuta all’Intelligenza Artificiale. Quando i mezzi tecnologici avranno a disposizione gli strumenti dell’Intelligenza Artificiale, soprattutto quelli nati dalla meccanica quantistica, in cui gli scambi di informazione e di operazioni para-mentali subiranno un’accelerazione tale da ridicolizzare il funzionamento del nostro sistema nervoso. Quindi lì ne succederanno di tutti i colori. 

 

Franco Vaccari, Migrazione del reale, 2020, Installation view, courtesy of the artist, P420 Bologna, ph Carlo Favero.


Quindi come immagini tu l’utilizzo di una macchina fotografica quantistica? Che immagini potrà realizzare?

Ah, non so. Dicono, per esempio – è una notizia apparsa in questo ultimo periodo – che l’immagine più importante del 2019 sia la fotografia del buco nero. Non è stata ottenuta attraverso un apparato, che con lo schiacciamento di un bottone restituisce un’immagine, ma è nata dalla sovrapposizione e dall’interferenza di una quantità di immagini ottenuta con dei mezzi incredibili, in cui l’intero apparato di recezione è stato il globo terrestre. Queste informazioni, che sono state raccolte con un apparato che era diffuso sul globo terrestre, hanno portato alla produzione di un’immagine che non poteva essere ottenuta attraverso l’uso di un mezzo classico. Quindi, non riesco proprio a figurarmi cosa ci mostrerà la macchina fotografica quantistica, nel momento in cui il passato, il presente e il futuro potranno essere colti nello stesso istante.

 

Franco Vaccari, Migrazione del reale, 2020, Installation view, courtesy of the artist, P420 Bologna, ph Carlo Favero.


Ammettiamo che sia ora possibile mettere in commercio la macchina quantistica, e che inneschi una nuova rivoluzione fotografica. Se porta con sé tutte le questioni dello spazio-tempo e le scoperte della fisica quantistica, sarà possibile secondo te fare fotografie anche di qualcosa che accadrà in futuro? La fotografia non sarà più un documento, uno scatto di qualcosa che viene colto in un determinato momento presente, ma potrà essere una previsione, un istante del futuro?

FV: Ah beh, sarà l’eclisse del mito di Cartier-Bresson.

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La fotografia ha 180 anni!

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Il libro illustrato dall’incisione al digitale

Il Mart di Rovereto ha inaugurato lo scorso 22 febbraio La fotografia ha 180 anni, una mostra che racconta la storia del libro illustrato, dall’incisione al digitale, attraverso una collezione privata di volumi che il “fotografo innocente” Italo Zannier ha sviluppato nel corso della sua vita. Zannier, storico e studioso, è stato anche il primo docente universitario di Storia della Fotografia in Italia.

In Verso l’invisibile: la fotografia, tra eventi, invenzioni e scoperte nel XIX secolo (2016) l’autore scrive che l’ingresso nella contemporaneità è avvenuto nel momento in cui l’uomo ha cominciato a riprodurre la realtà attraverso la fotografia. Questo mezzo, nato per riprodurre ciò che è visibile, è poi sconfinato nel campo di ciò che l’occhio nudo non è in grado di percepire (virus, raggi X, proiettili). Lo studio documentato Verso l’invisibile misura l’avanzamento della fotografia in parallelo a scoperte scientifiche e tecniche, con esperimenti, esplorazioni, innovazioni, fenomeni e personaggi oggi trascurati. 

Dopo la “camera ottica” di Gian Battista della Porta e la héliographie (1826) di Joseph Nicèphore Niépce, è nel 1839 – cent’ottanta anni fa – che nasce il dagherrotipo. Vi fanno seguito lo sviluppo di fotoeliografie, calcotipi, zincografie, la scoperta dei raggi X (1895). La tecnica giunge, nell’arco di un secolo, allo sviluppo di una fotografia che non necessita più di un supporto cartaceo: è quella per cui Zannier inventa il neologismo “fotofanie”. 

 

Incisione da eliografia di Joseph Nicèphore Niépce, 1826.

 

Pont de Rialto a Venise, Incisione tratta da dagherrotipo.


“La photos-grafia,” scrive Zannier “in quanto tale affine al disegno, preoccupò subito specialmente gli incisori e i litografi (l’invenzione di Niépce infatti nasceva dal desiderio di semplificare la litografia, inventata da Alois Senefelder nel 1789 circa) … Ovviamente tremarono i pittori per il loro tradizionale mestiere”.

La fotografia è il mezzo che ha sancito la vittoria, il dominio dell’occhio, ma è anche compagna della Modernità, in cui ha strutturato un nuovo linguaggio che necessita di una neo-alfabetizzazione.

La fotografia ha 180 anni illustra passaggi cruciali della fotografia attraverso una selezione di volumi. “L’editoria”, continua Zannier nel catalogo della mostra “si è necessariamente impadronita della fotografia – e dei fotografi, però sempre meno, considerati come Autori intellettuali, esclusi quelli in “odore” di pittorialismo! – e non solo dell’imprenditoria giornalistica ed editoriale (stampa e internet), ma del Libro-Libro, che è sempre di più costruito con e per le immagini fotografiche, senza le quali non si vende!”.

Le immagini nei libri, una volta presenti come didascalie del testo, diventano le protagoniste di libri in cui l’immagine diviene frase. Abbiamo posto alcune domande a Italo Zannier, partendo dagli esemplari presenti nelle teche della sezione della mostra dedicata al libro illustrato, dall’incisione al digitale, e che si compone dei cinque capitoli: Dalla mano alla macchina; La letteratura dell’immagine; Una nuova idea di realtà e la fotografia politica; La scienza e l’immagine;Senza parole.

 

Mauro Zanchi e Sara Benaglia: Nelle prime bacheche sono esposti libri che rendono visibile un percorso dell’immagine, ovvero il rapporto tra fotografia e divulgazione attraverso la stampa. Quali libri ha scelto per mostrare questo percorso?

 

Italo Zannier: La prima parte della mostra è un attraversamento dell’immagine, dal “fatto a mano” al fatto a macchina. Abbiamo scelto una serie di volumi dalla mia biblioteca di Lignano Pineta. Un esempio è il volume di Bartolomeo Pinelli, che era un personaggio protagonista alla fine del Settecento e del primo Ottocento. È un libro sulla Storia di Roma Antica, un album con incisioni di grande finezza e abilità.

 

 

 Questo dà l’idea di come la fotografia ancora non c’entra, ma è illustrazione fatta a mano. Nelle teche ci sono esempi e documenti che mostrano l’evoluzione dei libri dal XIX secolo a oggi, passando in rassegna litografia, fotolitografia, eliogravure, zincografia, rotocalco, offset, etc. Le prime fotografie “vere”, ossia realizzate con una camera ottica, sono i dagherrotipi di Daguerre. Per rendere visibili queste immagini, che erano uniche, il grande editore francese Noel Marie Paymal Lerebours pensò di ricopiare il dagherrotipo. La realizzazione era affidata a incisori di grande abilità. Per esempio, la serie di Venezia edita da Lerebours era realizzata da incisori che avevano copiato a ricalco le fotografie, quindi con il rigore assoluto della prospettiva fotografica e con dettagli che prima di allora non erano così precisi e lenticolari.

 

Frederic Goupil Fesquet, Voyage D’Horace Vernet en Orient, Challemel, Paris, 1843.


Voyage D’Horace Vernet enOrient è un libro di grande rarità. È uscito nel 1841 e non riproduce dagherrotipi, perché non era facile, ma immagini fatte da Frédéric Goupil-Fesquet sull’Egitto e sul viaggio in oriente, intrapreso insieme a Horace Vernet. Dopo la stampa litografica in bianco-nero, le immagini venivano colorate a mano con pigmenti mischiati con bianco d’uovo, libro per libro. Non era possibile stamparne molte copie, perché erano colorate a mano. 

 

 

La Esposizione di Londra. Raccolta di tutte le notizie relative alla grande mostra cosmopolita dell’industria umana (1852) contiene il riassunto di tutte le invenzioni e gli oggetti presentati all’Expo di Londra nel 1851. È in questa mostra perché è illustrato da litografie. In quel momento non era ancora possibile stampare le fotografie. Spesso i cataloghi avevano fotografie incollate, come un altro rarissimo volume in mostra, incunabolo della fotografia. È un catalogo della Biennale di Venezia del 1887, che riporta alcune opere lì esposte. E queste sono fotografie vere, incollate, perché era l’unico modo per mostrarle. Nel 1894 il Catalogue illustré dePeinture et Sculpture del Salon di Parigi è realizzato a mano. Una serie di pittori, incisori, disegnatori – a volte abilissimi, ovviamente – ha ricopiato quadri e sculture, riproducendoli in litografie per fare un catalogo. Alessandro Pavia pubblica il volume I Mille per il generale Giuseppe Garibaldi (1867) con tutte le fotografie dei patrioti che andarono a combattere in Sicilia. Pavia, fotografo e patriota, in un lavoro faticoso e con molta spesa raccolse in sette anni in album le effigi di tutti i componenti della schiera dei Mille.

 

Garibaldi, I mille per il generale, L. Lavagnino, Genova, 1876.

 

Garibaldi, I mille per il generale, L. Lavagnino, Genova, 1876.


Che cosa hanno spostato ulteriormente, nell’evoluzione dello sguardo, i libri fotografici rispetto ai codici miniati, ai libri con xilografie, incisioni e disegni?

 

Nella seconda metà dell’Ottocento, in particolare nel 1851, con il perfezionamento della tecnologia della fotografia, questo mezzo è ritenuto inevitabile per raccontare e descrivere quella realtà sembiante che la fotografia rappresenta rispetto al disegno. Se andiamo indietro a confrontare i disegni delle piramidi rispetto alle fotografie, la dimensione anche fisica della grandezza è diversa rispetto alla realtà. 

 

Ci potrebbe parlare dei libri di viaggio e di fotogiornalismo presenti in mostra?

C’è un notevole album di Felix Beato. Partito da Venezia in direzione dell’Asia Orientale, Felix seguiva le battaglie dei francesi e degli inglesi, in qualità di fotografo di guerra. Va in Cina e documenta la campagna militare nel suo svolgimento ai Forti Taku. Lo realizza fotografando, camminando in avanti, tra fotografie con i morti, poi arriva in fondo e fa il controcampo. Il primo controcampo lo ha fatto Felix Beato ai Forti Taku. Realizza due album grandi: uno sul paesaggio giapponese e uno sui tipi locali e sui i mestieri. E lì si avvia la cosiddetta scuola di Yokohama. Il libro in mostra, del 1890 circa, è di un discendente di Beato (alcune erano lastre anche sue) e riporta fotografie originali incollate, che testimoniano anche il lavoro delle donne dagli anni Ottanta alla fine del XIX secolo.

 

Felix Beato, Album giapponese 1890, Copertina in lacca intarsiata in avorio e altri materiali, 50 fotografie originali colorate a mano.

 

Felix Beato, Album giapponese 1890, 50 fotografie originali colorate a mano.


In mostra c’è La Battaglia di Mukden. Guerra russo giapponese (1915), narrata da Luigi Barzini, un libro contenente 52 incisioni, tratte da istantanee prese sul luogo dall’autore, 15 piante e una grande carta a colori. Luigi Barzini era un giornalista, inviato speciale del Corriere della sera. Era nato per il viaggio. Quello con il principe Borghese e con l’automobile Itala, da Pechino a Parigi, è stato un mitico attraversamento dell’Asia e dell’Europa. Meno conosciuti sono gli altri suoi reportage. Per esempio le fotografie non sono sempre efficaci, ma certamente di rilevanza storica. Barzini fotografava con apparecchi tecnicamente modesti, soprattutto per quanto riguarda la velocità. E non tutti hanno apprezzato questi risultati, perché c’era già un’idea estetizzante della fotografia pittorialista, della fotografia più bressoniana, della fotografia istantanea. Allora si lamentavano che queste fotografie erano un po’ mosse. C’era un cannone che sparava: per forza la fotografia era mossa! Anche oggi c’è questa idea per cui la fotografia debba essere assolutamente nitida, assolutamente istantanea. Ma non sono d’accordo. Per me la fotografia, come qualsiasi immagine, deve essere emozionante.

 

Quale è un libro della sua collezione che l’ha sorpresa?

 

Il libro Souvenir de Moscou (1917 ca.) per me è stato una sorpresa, perché l’ho comperato senza sapere molto. Le immagini in esso contenute sono fotografie vere, incollate, come si faceva allora con gli album, e dipinte a mano. Questo è un album realizzato prima della Rivoluzione di Ottobre, per cui sfogliandolo si può scoprire come era Mosca al tempo dello Zar. 

 

Souvenir di Moscou, 1917, Copertina.

 

Souvenir di Moscou, 1917, Fotografie originali colorate a mano.

 

Souvenir di Moscou, 1917, Fotografie originali colorate a mano.


A livello concettuale, ci è sembrato interessante il libro sui corpi tatuati. Sembra l’opera di un artista contemporaneo.Tra le particolarità del libro vi è il fatto che tutti i soggetti fotografati sono bendati.

 

Il tatuaggio dei domiciliati coatti in Favignana (1903) è una raccolta di fotografie realizzate dal Dott. Emanuele Mirabella, il quale era direttore anche del carcere. Il volume ha una introduzione di Cesare Lombroso. Accompagna le fotografie un testo, interessante anche dal punto di vista criminologico, in cui Mirabella legge i valori sentimentali dei tatuaggi. 

 

 

Che funzione aveva quel libro che è costituito da montaggi di tanti corpi nudi, in posizioni diverse, da gesti e pose, incorniciati nella stessa pagina?

 

Le Nu Esthétique. L’homme, la femme, l’enfant. Album de documents artistiques d’aprés nature (1902) di Èmile Bayard è una collezione di immagini di nudi che veniva venduta ai pittori, che invece di avere la modella avevano la fotografia. Io ho trovato questi album interessanti, più che per la fotografia in sé stessa, per l’idea che avviava a quello che sarebbe stato poi il Surrealismo, gli anni di Apollinaire, di Man Ray, di Breton. È interessante anche questa dissacrazione dell’immagine. Questo fa parte di una letteratura nuova: la letteratura dell’immagine. 

 

Emile Bayard, Le Nu Esthétique. L’homme, la femme, l’enfant. Album de documents artistiques d’aprés nature, preface J. L. Gerome, E. Bernard, Paris, 1902.

 

Emile Bayard, Le Nu Esthétique. L’homme, la femme, l’enfant. Album de documents artistiques d’aprés nature, preface J. L. Gerome, E. Bernard, Paris, 1902.


A quando risale il primo libro con fotografie a colori? 

 

Colour Photography and Other Recent Developments of the Art of the Cameraè stato realizzato nel 1908, ovvero un anno dopo la commercializzazione della fotografia a colori. Il primo a fare fotografie a colori in America è Alfred Stieglitz, che è il padre della fotografia moderna. In questo libro le fotografie venivano stampate a parte, con passaggi di colori, di inchiostri. Queste sono le prime fotografie a colori della storia della fotografia.

StieglitzMemorial Portfolio 1864-1946 è stato pubblicato da Twice a Year Press nel 1947. Alla fine di una antologia critica, Dorothy Norman pubblica 18 riproduzioni di fotografie di Stieglitz, presenti nella sua collezione. Il libro illustrato diventa una parte fondamentale dell’editoria moderna. 

 

Dorothy Norman ed. Stieglitz memorial portfolio 1864 - 1964, 18 reproductions of photographs by Alfredo Stieglitz, tributes in memoriam twice a year press, New York, 1947.


Quale è il fotolibro (costituito esclusivamente con le immagini) più interessante della sua collezione?

 

Per me il maestro del fotolibro è William Klein. Abbandonò il cinema per la fotografia e realizzò un libro su New York nel 1956, pubblicato dall’illuminato Giangiacomo Feltrinelli, che fece una edizione meravigliosa stampata in rotocalco, dal titolo New York. Non c’è una parola. Tutto il libro è un mosaico di immagini forti in bianco e nero. Notturni fatti in condizioni incredibili, sfocate, mosse, sgranate, storte. È il più bel libro su New York che si possa immaginare. Non è una guida, ma è un romanzo drammatico sulla città.

Ha fatto Tokyo, Mosca. Poi ha fatto Roma. Roma, contesto anche di Pasolini. Anche questo libro è composto solo da immagini. Al di là della fotografia unica, il racconto è fatto dallo stesso autore, per immagini. 

 

William Klein, Rome, Atelier du livre, Paris, 1959.

 

William Klein, Rome, Atelier du livre, Paris, 1959.


Ci sono anche libri interessanti nell’accezione di opere artistiche o che sanno colpire l’immaginazione dei bambini?

 

Un volume interessante in mostra è Index Book (1967) di Andy Warhol, che contiene oggetti (e suoni). Warhol ha voluto copiare i libri per i bambini. C’è questa naïvité del libro, che era una tecnica conosciuta. Ecco la grande ironia concettuale di Warhol.

Pensando al tempo moderno, segnato dal passaggio dalla foto chimica alla foto elettronica, uno degli esempi interessanti è il libro Immagini da Computer (1984). È un piccolo fascicolo, accompagnato da immagini realizzate da computer, le quali sono apparentemente analoghe alla fotografia, fatte con la pellicola tradizionale, ma sono via via diverse. Per concludere, The Sense and Perception. Self Owner’s Manual (2018) di Mirè, un libro che un bambino deve avere il piacere di leggere e seguire. È in inglese, e le fotografie in esso contenute assumono la forma di fumetti. È accompagnato da un disco, per cui quando un bambino apre e sfoglia il libro, vede immediatamente le persone che si animano, escono dal libro e parlano. E c’è la musica, e i personaggi si muovono e corrono. È un punto di passaggio che ho voluto avere in mostra per concludere questo percorso, proprio per segnare questo ponte tra due epoche, tra due momenti. 

 

La fotografia ha 180 anni!

MART di Rovereto

22.02 – 31.05.2020

Da un’idea di Vittorio Sgarbi e Italo Zannier

Coordinamento curatoriale Denis Isaia

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Visus versus virus

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Non esiste una singola immagine che possa dare volto alla pandemia. Ci vorrebbe forse un vuoto, un buco, un taglio. Qualcosa che laceri e poi lasci la sua traccia come una ferita.  Eppure il “panorama scheletrico del mondo”, la sua attuale topografia, ha una forma precisa. 

Ho chiesto ad alcune fotografi e fotografe cosa stavano pensando, guardando, facendo in questo momento. Ho proposto loro di realizzare un trittico di fotografie, nell’intento di dare vita a una micronarrazione, una propria storia al tempo del virus. I loro nomi non accompagnano le immagini, ma sono posti in calce all’intera sequenza, per rafforzare l’idea di un insieme di sguardi che dialogano e generano a loro volta nuovi percorsi. Questo vale soprattutto per chi guarda: creare all’interno delle immagini diversi sentieri costruiti accostando fotografie, trovando simmetrie o contrasti suscitati da una personale sensibilità. 

 

Un po’ come è sempre avvenuto, si potrebbe dire. Anche se la domanda che ci si pone dinnanzi alle immagini è diversa: che senso ha questo tempo? Alcuni fotografi non hanno risposto all’invito, altri hanno proseguito con le proprie ricerche, altri ancora hanno deciso di interrompere l’inattività e riprendere a fotografare. Ciò che invece ha accomunato tutti è il fatto che la pandemia ha reso più urgenti i dubbi e gli interrogativi che stanno alla base di ogni attività creativa. Come si può dare corpo a un pensiero, che senso si vuole attribuire ad una immagine, quale forma donare al proprio sguardo. 

Le immagini di questi otto fotografi non sono che variazioni su una materia comune che viene modulata in maniera diversa. Ognuno dei soggetti rappresentati esprime un differente livello di intensità, desiderio e attitudine alla resilienza. Diversi ed eterogenei, invitano a una svolta critica nei nostri modi di pensare. Ci incoraggiano a tenere conto di questa diversità. Ed anche se non ci sono certezze, ma solo interrogativi, il cambiamento e la possibilità della trasformazione risiedono proprio nel bisogno di interrogarsi sul senso di ciò che viene rappresentato.  Forse in questo momento le fotografie possono davvero raccogliere la sfida di mostrare i percorsi seppur contraddittori del cambiamento. Ogni sguardo ha saputo divenire il volto di questo virus, ha provato a dare forma alla sua invisibilità, ogni immagine documenta lo scarto che le singole visioni hanno saputo generare rispetto alla medesima realtà. 

 

I soggetti che appaiono nelle immagini talvolta sono echi della stessa voce, talvolta si contraddicono, ma sempre dialogano. Esistono grazie ad un insieme di incontri e di risonanze. Ed investono lo spettatore della responsabilità di rimescolare le loro proposte, come una strategia adottata contro la monotonia di un tempo capace di inglobare qualsiasi cosa nella sua immobilità. Insieme riflessive e riflettenti, queste immagini interrogano chi guarda, entrano in relazione con le nostre attese, smuovono la nostra forza interiore e ci incoraggiano a pensare al futuro. La fotografia è relazionale e può operare attraverso riaggiustamenti e domande reciproche.  Il mosaico delle fotografie qui proposto, come fosse una sola grande immagine, rappresenta l’evoluzione della pandemia. 

 

Il primo trittico è composto dalle fotografie realizzate su frames di video girati in varie parti del mondo. La mascherina assurge a simbolo di protesta, è un accessorio per nascondere parte del volto ma è anche un bavaglio riferito alla situazione politica cinese. Seguono poi le narrazioni all’interno delle case, il momento in cui la reclusione era condizione di sopravvivenza. In queste fotografie gli oggetti ed i gesti che scandiscono la giornata diventano protagonisti assoluti delle immagini. Anche quelli ritenuti più banali. La quotidianità talvolta esasperata ci impone di osservare il contorno del nostro volto senza una forma definita, ci porta a prediligere non tanto una superficie, ma il volume che questa evoca, ciò che si trova dietro il nostro sguardo. Al centro della sequenza, uno specchio, in cui non è possibile vedersi o vedere, segna il tempo come una sorta di orologio biologico, che orienta il cambiamento anche nello spazio. Le fasi della pandemia sono come fasi lunari.

 

Gli altri trittici sono dedicati all’esterno, allo stare di nuovo fuori casa. Si può vedere lo spazio della strada. Si intuisce che le auto sono ferme, eppure un palloncino, lì accanto, evoca la dimensione giocosa dello stare insieme. Poi la notte. Sognare di uscire. E poi uscire. Le finestre sono altri specchi che portano dentro l’interno una porzione di “fuori”. Gli alberi, il cielo notturno e una luce tra le fronde segnano il passaggio ad un'altra possibilità dell’esistenza. Ed infine la città. L’ultimo trittico mostra una flebile speranza. Se nella prima foto altre finestre guardano verso un muro, nell’ultima immagine le finestre guardano verso di noi, e verso la luce del sole che inonda la parete.  Il tavolo da ping-pong, come un totem solitario, attende che qualcuno di nuovo torni a giocare. Gli alberi, che escono dalla fotografia e si spingono verso l’alto, non fanno che lasciarci nuovamente desiderare uno spazio da immaginare.

 

 

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Da casa | Prosdocimo Terrassan © 2020

 

Feeding geographies | Francesca Cirilli © 2020

 

Between Shades&Sheets  |Sina Niemeyer © 2020

 

#nostalghia |Giovanna Gammarota © 2020

 

Tre immagini dello specchio |Enrico Bedolo © 2020

 

H_ccasioni |Giampiero Vietti © 2020

 

Sonar |Sara Rossi © 2020

 

Nei pressi dell’abitazione |Anna Positano © 2020

 

 

 
 

 

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