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Conversazione con Giulia Niccolai

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“Trasformare questa mia difficile vita in fiaba” è il titolo dato allamia tesi, tratto da un passo di Esoterico biliardo in cui si chiede, a proposito delle visioni avute in meditazione: «forse il dono di leggere e trasformare questa mia difficile vita in fiaba?». 

Sì, ne parlo anche in Foto & Frisbee, a p. 78, cito Kazantzakis  – il suo libro più noto è Zorba il greco – ma in El Greco e lo sguardo cretese, scrive: «Esiste qualcosa di più vero della verità? Sì, la favola; è la favola che dà un senso immortale all’effimera verità». Le trame delle favole raccontano sempre una serie di passaggi e di avvenimenti per i quali raggiungere la verità diviene una conquista. Si arriva alla verità dopo una lunga serie di vicissitudini che hanno o sembrano avere lo scopo di allontanarcene. Giorgio Celli, poeta, scrittore, entomologo dell’Università di Bologna, ha scritto: «Ogni vita nel suo inseguirsi e nel suo raggiungersi aspira al compimento di una favola». Questa dinamica ha a che fare col destino. Nel libro cinese degli esagrammi, I Ching, nel quale ogni esagramma è associato a un numero e ogni numero è associato a una situazione, consultandolo (e se ci si crede), il numero che viene da consultare, ha a che fare con qualcosa che ci riguarda in modo particolare, in quel momento. Il numero 50 ha titolo Il crogiolo (pura alchimia), e dice: «Quando si riesce ad assegnare alla propria vita e al destino le loro giuste proporzioni, consolidiamo il destino, e ne risulta allora la compenetrazione della vita col destino». Mi capitò proprio questo che però sottintende (almeno nel mio caso), una grande sofferenza, si tratta di una prova durissima: la discesa agli inferi. Dante stesso l’ha confessato di sé, così come diversi altri scrittori ne hanno parlato, perché scrivono, raccontano, ma sicuramente succede a contadini, persone apparentemente semplici, a impiegati o scienziati ecc. che però lo tengono per sé. Secondo la mia esperienza, la cosa è successa perché non ho tradito me stessa, non ho mai imbastito o architettato cose… falsità ecc. per raggiungere quelle mete che mi ero prefissa, comunque, la discesa agli inferi è un’esperienza tremenda della quale senti di non poter parlare con nessuno perché, sai, sai con assoluta certezza, che nessuno potrebbe aiutarti, non sai cosa ti stia capitando, ma sai che solo qualcuno a cui è già capitato potrebbe capirti, ma a chi è capitata una cosa simile? Ci si sente come in un aereo che abbia perso i controlli e che precipita a vite sempre più velocemente per sfracellarsi a terra. Non riesci in alcun modo a fermare o frenare una simile dinamica, mossa da una sua forza sconosciuta che nel mio caso è durata per ben due anni. In più, all’esterno, nella vita di ogni giorno, qualsiasi cosa facessi, venivo fraintesa, insultata, umiliata…

 

Pensa davvero, quindi, che la sua vita abbia avuto un intreccio fiabesco? E come riesce tutti i giorni a trasformare la sua vita in una fiaba?

Il concetto dell’intreccio fiabesco mi è venuto come conseguenza della discesa agli inferi! Dopo che quell’inferno, sperimentato da viva (dunque un correlativo della purificazione talmente duro da essere definito “infernale” e non “purgatoriale”) è finalmente terminato, e io ho trovato la strada del Cammino spirituale buddhista, ho lentamente iniziato a pensare e provare emozioni in modo più vasto e aperto verso gli altri. Ne parlo già nel mio libro in prosa del 2001, Esoterico biliardo, nel quale ricordo di essermi sentita una nave – e tale mi visualizzavo – erano in ferro e ruggine certi lastroni che si staccavano dallo scafo e “spanciavano” con fracasso in mare… durante un ritiro di quel mio primo viaggio in India. Fulcanelli, autore che ha scritto molto di esoterismo, cita il concetto della “nave”, la nave è tale perché si trova nell’oceano dove può capitare che non veda per lungo tempo alcun punto di riferimento; si tratta di una nave, proprio per questa ragione: sei alla mercé dell’acqua e del vento, non esiste l’elemento terra, quello sul quale poggi i piedi! Dunque una nave si viene a trovare in un altro spazio/tempo, dove sei costretto a capire l’essenza delle cose in maniera più ampia di quanto non avessi fatto prima. In maniera meno centrata sull’Ego. Lo dico perché sono convinta che se non avessi trovato un cammino spirituale al quale ho potuto aderire con tutta me stessa, non sarei sopravvissuta. Avendo invece trovato la continuazione del mio procedere nel cammino spirituale buddhista, tutto ciò che ho vissuto prima, ha poi avuto le qualità propedeutiche delle vicende delle fiabe. Di conseguenza ciò che succede dopo, e cioè la “compenetrazione della vita col destino” effettivamente avvenuta, non può che essere “fiaba che dà un senso immortale all’effimera verità”. E se Kazantzakis l’ha scritto, non può che averlo vissuto lui stesso, in prima persona. Lo stesso è vero per un altro grande scrittore: Giorgio Manganelli, che nel suo libro, Discorso dell’ombra e dello stemma consiglia la sconfitta con queste parole: «E questo, questo appunto è il gran gioco, ove chi perde vince. Ma il difficile è perdere. Estremamente difficile e necessario. L’inferno è vincere».

 


Nella tesi si è seguito il filo biografico, partiamo quindi dall’inizio, infanzia e genitori. Potrebbe tracciare dei brevi ritratti di sua madre e di suo padre?

Ho sempre scritto pochissimo di loro perché sono avvenute esperienze, anche gravi, con conseguenze che sono poi durate tutta la vita e che mi hanno impedito di continuare a provare per loro un vero amore filiale. So che devo loro la vita e un aiuto finanziario che mi ha reso libera, ma ciò a livello profondo, e per onestà da parte mia, nel confessarlo, non mi impedisce di aver molto sofferto come loro figlia. Per cominciare mia madre era americana, un’americana che non ha mai voluto imparare l’italiano e che durante la Seconda guerra mondiale (essendo gli Stati Uniti una nazione nemica dell’Italia), ha fatto sì che la mia maestra delle elementari di Menaggio, sul lago di Como, dove eravamo sfollate, mi abbia fatto il vuoto attorno in classe, dalla seconda alla quinta, ripetendo sempre questa frase quando mi interrogava: “Ma tanto non saprai rispondere perché sei anglosassone”. Il 25 aprile, quando i partigiani scesero in paese, la raparono in piazza assieme ad altre donne notoriamente fasciste. Non provai alcun senso di vendetta per fortuna mia, ma era un giorno di gran vento e tutti quei ricci, che vorticavano come mulinelli, mi fecero provare il senso fisico della nausea. Nel gennaio, sempre del 1945, mia madre stava andando a Bellagio con la sua migliore amica e il battello sul quale si trovavano venne mitragliato. La grande amica di mia madre morì e mia madre venne ferita al braccio destro che non riuscì più ad aprirsi e a piegarsi come prima. Anche la sua mente non fu più la stessa e nel 1946, un anno più tardi, quando lei e io, a 11 anni, andammo negli Stati Uniti per la prima volta dopo la guerra, con un Constellation da Parigi, mi trovai a dover organizzare molte cose, strada facendo, perché lei era troppo “persa” per farlo. Questa responsabilità per me, che a causa della guerra non conoscevo ancora nemmeno il telefono, fu troppo e comunque dovetti poi sempre fare ogni cosa per lei, come una sorella piuttosto che una figlia. Quanto a mio padre, ingegnere elettrotecnico (che lavorava per la SIRTI della Pirelli), con il quale c’era stato vero affetto e complicità, quando gli chiesi se non fosse il caso che mia madre vedesse un medico per i suoi problemi nervosi, anche se non l’aveva mai fatto prima, mi diede una sberla. Non poteva ammettere che ci fosse qualcosa che non funzionasse in lei mentalmente. Il suo comportamento mi lasciò senza parole. A 14 anni mi accorsi che mio zio, fratello di mio padre, di 15 anni più giovane di lui, era omosessuale. Ne parlai con mia madre che fu della mia stessa idea. Mio padre venne a saperlo solo quando aveva 65 anni, a causa di un piccolo scandalo che riguardava mio zio, avvocato, e un suo compagno nella Società farmaceutica dove lavoravano.  Mio padre ne fu talmente scandalizzato che si rifiutò di vederlo per il resto della sua vita. Mio padre aveva 41 anni quando nacqui e mia madre 36. In rapporto ai genitori degli altri compagni di classe, erano quasi dei nonni, e questa differenza di mentalità delle diverse generazioni, certo non aiutò le cose tra noi, anche se, nel mio caso, come genitori, mi avevano sempre lasciato molta libertà.

 

Lei ha esordito come fotografa, come si è avvicinata alla fotografia?

Il merito è di mia madre che si era portata da Milano a Menaggio una pila di Life Magazine alla quale era abbonata. Life era una rivista senza uguali in Europa che dava grande importanza alla fotografia, mentre da noi il vero interesse per la fotografia si manifestò solo dopo la Seconda guerra mondiale. Probabilmente in terza elementare, a 8 anni, cominciai a sfogliare le copie di Life, ne rimasi affascinata e fu come seguire una grande scuola di fotografia. Sapevo parlare l’inglese ma imparai anche a leggerlo (malgrado le difficoltà dello spelling) e comunque come prova della concentrazione e della passione che ci mettevo. A 10 anni ero già sicura che volevo fare la fotografa. Il farlo mi permise poi di stare fuori casa per molto tempo alla volta. Appena finito il liceo, una Società importante mi diede il compito di fare per loro il libro strenna, Borghi e Città d’Italia, quattro regioni per volta, foto e testo, non dei comuni più importanti, ad esempio in Toscana, non Firenze, bensì Arezzo, e fu così che in cinque o sei anni visitai e conobbi in buona parte, tutta l’Italia, facendomi anche le ossa per poi lavorare all’estero.

 

Invece il passaggio fotografia-scrittura avviene più avanti, dopo i reportage in America.

Esatto, avevo avuto delle grandi e importanti avventure in Egitto per due mesi, dicembre ‘59 e gennaio ’60 e poi negli Stati Uniti dove rimasi un anno, dal marzo 1960 a quello del ’61. A Natale venne a trovarmi il mio compagno di sei o sette anni, Jacques Mc Morrow, sempre vissuto in Italia ma nato in Costa Rica, sangue misto (era ciò che ci legava profondamente), e poiché mi capitò di dirgli che a Milano non mi sarei mai sposata perché, senza prendere in considerazione il matrimonio in chiesa, io comunque non ammettevo di sposarmi con la famiglia, le famiglie presenti… decidemmo di colpo, di sposarci a New York. Mi pareva un impegno meno gravoso, quasi come se fosse un’“altra” a sposarsi… testimone fu Auro Rosselli, inviato del Giorno (a New York lavoravo con diversi giornalisti italiani, compreso Furio Colombo della Olivetti), mio marito tornò a Milano dopo l’Epifania, io rimasi lì ancora tre mesi per lavoro, tornai a marzo, lo dicemmo alle famiglie che furono entrambe contente (si conoscevano dai tempi della guerra sul lago di Como) e mio padre fece trascrivere il matrimonio in Italia, cosa alla quale io non avrei mai pensato. Mio marito aveva già avuto un calcolo al rene diversi anni prima, ma iniziò ad ammalarsi di reni policistici nel ’64, allora non esistevano ancora né il trapianto né la dialisi e il suo carattere era totalmente cambiato, tesissimo, irraggiungibile (per nervosismo, aveva un piccolo incidente d’auto alla settimana andando in ufficio)… io cercai di sapere dal suo medico la gravità della  malattia, ma allora i medici non  dicevano  niente, se avevi il cancro, lo dicevano a un familiare, mai all’interessato. Non ce la facevo più e lo lasciai, questa, ovviamente, fu l’azione più negativa della mia vita, per la quale mi sono poi sentita in colpa fino alla scorsa estate quando feci un ritiro durante il quale, l’ultima notte, un sogno (sicuramente mandatomi dal Lama), mi fece capire, con certezza, con assoluta convinzione che la ragione per la quale scappai, abbandonandolo  – Jacques morì un anno più tardi, il 6 del 6 del ’66 –  era perché non tolleravo la parola “moglie”, essere la “moglie” di qualcuno era inaccettabile per me, essere “moglie” come mia madre lo era  di mio padre, essere in questo, come lei, era per me una prigione. Mi è costato molto confessare tutto ciò così direttamente, mentre nei miei libri ho sempre solo accennato a questi fatti, ma avendolo potuto capire, con questo inaudito dettaglio solo a 82 anni, impegnata nel cammino spirituale da più di 30 anni, mi pare importante venire a conoscenza del fatto che, per chi, come me, ha avuto per più di 50 anni la fissazione della scrittura, una parola, una singola parola:“moglie”, “wife”, possa avere avuto un tale impensabile, spropositato significato.  Ma anche ciò che può significare a proposito del rapporto con mia madre. Immagino anche che chi mi leggerà, potrà non capirmi, non riuscirà a credermi… Ho poi convissuto con altri due compagni, per 11 anni, sia con l’uno che con l’altro, prima di divenire monaca, e ovviamente senza mai risposarmi. Mio padre era mancato nel ’63, un mio carissimo amico, di un anno più giovane di me, nel ’65, in un incidente d’auto, mio marito nel ’66. Questi lutti mi fecero capire che non ero più quella di prima, non potevo più pensare di girare il mondo, l’avventura non c’entrava più con me, non mi sarei più potuta divertire, sentendomi meravigliosamente libera come nella vita da fotografa. Ciò mi rattristava profondamente, ma non potevo pensare di essere quella di prima. C’era poi anche da dire che le macchine fotografiche, che mi portavo dietro, pesavano più di 10 chili, riuscivo a vedere il mondo solo “incorniciato” nel rettangolino del visore della Leica…la cosa era divenuta un’ossessione, i settimanali davano la piega che volevano alle storie che raccontavo, travisandole, distorcendole… e, per fortuna, anche la letteratura era un mio desiderio da quando avevo 10 anni… Secondo il Buddhismo una cosa la si capisce solo quando ci si è meritati di capirla.

 

Nel ’66 esce il suo primo romanzo, Il grande angolo, quanto c’è di Giulia Niccolai nella protagonista Ita?

Assolutamente tutto. Ita in latino significa “andata” (Ite, missa est), Ita, la fotografa, non c’è più, se ne è andata, ha cominciato a scrivere … Ita è il nome di una ragazza che conoscevo al Jamaica, molto bella e che mi era anche molto simpatica. Il mio secondo nome è Margherita, per queste diverse ragioni lo scelsi e lo racconto anche nel testo, Foto & Frisbee, dove ricordo i miei anni  come fotografa  nei fatti personali e storici di quegli anni Cinquanta e Sessanta e non come pensieri o stati d’animo che sono l’essenza della scrittura originale di Il grande angolo… testo, quest’ultimo che, guarda caso, viene ripubblicato nel 2014,  grazie all’interessamento di Cecilia Bello Minciacchi, nella collana à rebours che dirige per la casa editrice Oèdipus di Salerno. Cecilia mi chiese di scrivere un pezzo su come vedo ora Il grande angolo, scritto negli anni Sessanta, e questa mia immersione nel commento alla prima edizione, nonché il lavoro che stavo facendo su Foto & Frisbee, pubblicato anch’esso da Oèdipus nel 2016, è sicuramente la causa di una rivelazione che ebbi su una corriera che da Roma mi stava portando a Napoli dove, a Ischia avrei poi incontrato Milli Graffi e Giovanni Anceschi per una cura alle vie respiratorie che facemmo tutti e tre. A Roma, a un festival della poesia dove ero appena stata, le ultime tre poesie che avevo letto e che ricopio, riguardano tutte Omero:

 

Lo strumento (con sopra disegnato
un omino supino, le ginocchia
piegate, tre pulsanti sopra e tre sotto),
per alzare o abbassare il mio letto
d’ospedale in tre diversi punti,
è costruito dalla società Hill-Rom
(Zingari della collina?)
e ha nome…
ha nome
AvantGuard.
(Dentro mi risuona una risata irresistibile).
È questa la versione contemporanea
degli dei che comunicano coi personaggi
epici? Quelli di Omero, per fare un esempio?

 

In terza media, fissando
le macchie d’inchiostro
e i buchi dei tarli del mio
vecchio banco di legno,
mi chiedevo: ma come può
Ulisse aver vissuto così
intensamente, così compiutamente
e noi qui, ora, così… così
comuni, ordinari, “predestinati”?

 

Mi sbagliavo. Non è questione
di tempo. Di duemila anni di
differenza, né di quei particolari
e spesso magici eventi esterni.
Audacia, sofferenza, pazienza
e poi anni di lavoro in miniera
per prendere coscienza di tutto ciò
che si è fatto (di giusto e di sbagliato)
e del perché…
e finalmente, quasi alla fine
vieni accontentato.
Capisci la metafora che Omero
ci ha dato. Il modello epico.
Sempre possibile. Mai cambiato.

 

Solo da quando
ho ritrovato
me stessa tredicenne,
ho anche capito
che l’Odissea
è il libro più importante
della mia vita.

 

Sempre mentre ero a Roma avevo ricevuto una telefonata da Franca Mulligan dal Connecticut, dove vive parte dell’anno, che mi raccontava del fatto che il nostro comune Maestro, Thamthog Rinpoche, aveva dormito da lei dopo essere giunto negli Stati Uniti dall’India, per proseguire il giorno successivo a Ithaca nello stato di New York, dove c’è la più importante Università del Buddismo Tibetano degli Stati Uniti. Solo su quella corriera, forse cullata dal ritmo del motore e del movimento, mi resi conto della coincidenza, che non mi aveva mai sfiorato, tra il nome Ita e l’isola di Itaca, con quella “ca” finale che è anche la prima lettera dell’alfabeto tibetano “ka”! Dunque Ita era sì andata, ma era anche tornata!! (Tornata al Buddhismo essendo io ormai certa di essere già stata discepola dei Lama tibetani in vite precedenti). Ecco, questo tipo di epifanie che riescono a collegare tempi lontanissimi tra loro, spazi immensi, si vivono come doni inimmaginabili, coincidenze talmente preziose da trasformare la vita in fiaba!

 

Continuiamo con gli anni vissuti a Mulino di Bazzano, cosa accadeva in quella cucina-fabbrica di idee e di poesia?

Era il ’68, con molti altri del Gruppo ’63, Spatola era venuto a Roma a un incontro di Quindici, vi era rimasto e stava da me perché ci eravamo messi assieme. Ma non voleva vivere in città. Desiderava un luogo isolato, in campagna, vivere una situazione scelta da lui, l’ideale per la sua poesia e per mandare avanti la piccola casa editrice che aveva fondato con i fratelli per pubblicare testi sperimentali e la fondazione di una rivista che fu poi Tam Tam. Voleva che questo luogo fosse in Emilia, per essere vicino a suo figlio che stava a Bologna. La madre e la zia di Corrado Costa ci affittarono una deliziosa casa contadina nella corte dove abitavano anche loro, appunto a Mulino di Bazzano, a una trentina di chilometri sia da Parma che da Reggio. Con la poesia concreta e visiva, Adriano era in contatto già da anni con coloro che le praticavano in tutto il mondo: Stati Uniti, Sud America, Giappone, Europa. L’aspetto fondamentale di questa poesia è che supera le barriere linguistiche e ci si capisce quasi sempre! Lavorando in questo campo, rivista e casa editrice cominciarono a essere conosciute da piccoli gruppi ovunque. Mettemmo in piedi un laboratorio per stampare in proprio e alle macchine da stampa lavorarono una serie di amici e il fratello minore di Adriano, Tiziano. Non avevamo telefono, ma venivano in molti a trovarci, poeti amici francesi, svizzeri, austriaci, tedeschi e poi americani. Ovviamente poeti e anche molti pittori italiani. Daniela Rossi avrebbe poi coniato per il Mulino, il termine La repubblica dei poeti. Si lavorava tutti assieme, ovviamente anche con Corrado, amico di lunghissima data di Adriano, felici di avere tutti gli stessi interessi, senz’ombra di competitività (ora sembra impossibile), ma non c’era proprio, mai provata! Ricordo quegli anni con lo stesso piacere, la stessa allegria con i quali ricordo gli anni Cinquanta del Jamaica a Milano.

 

 

Poi all’improvviso torna a Milano, cos’è successo?

Spatola era un potentissimo leader, riusciva a occupare tutto lo spazio. Aveva orari e abitudini di lavoro stravaganti. Un giorno lavorava per 16 ore, bevendo molto ma sempre in controllo di ogni cosa, il giorno successivo lo passava a letto, per riposare e disintossicarsi. Sembra infattibile – solo eccessi – ma per lui funzionavano perfettamente e riusciva anche a lavorare moltissimo. Io e gli amici ospiti presenti, o il fratello Tiziano che negli ultimi anni è vissuto con noi, dovevamo per forza seguire questa stessa routine, che ci andava anche bene, ma avevo tutta una serie di altre cose da fare: la cuoca, la spesa, guidare l’auto, la segretaria ecc. e avevo veramente pochissimo tempo per me stessa. Quando scrissi il mio primo nonsense geografico, A Marmolada, ottenuto con il semplice articolo “A” in inglese, piuttosto che quello italiano, “Una” Marmolada (il tutto comunque suona sempre come Una marmellata di marmo) … Adriano mi chiese: non vorrai mica scriverne altri? Non feci una piega, e ne feci tanti da poter formare una plaquette. Ma nel ’77 mia madre, che viveva a Firenze, si ammalò di cancro, era accudita, comunque per mesi feci un costante su e giù tra Firenze e Mulino di Bazzano. Mia madre morì nel novembre nel ’78. Restai a Firenze per sistemare ogni cosa, ovviamente per parecchio tempo, tornai a Mulino in auto con le sue ceneri, avendo già appuntamento con i cugini a Cassinetta di Lugagnano, sul Naviglio, a una trentina di chilometri da Milano la mattina successiva per seppellire l’anfora nella cappella della famiglia Negri dove già riposava mio padre. Sull’Appennino, tra Firenze e Bologna, iniziò a nevicare e la cosa mi preoccupò molto per il resto della strada da fare quella sera per raggiungere Mulino, nonché per il viaggio la mattina successiva e poter essere a Cassinetta alle 11. Per fortuna nevicò poco. Arrivo comunque trafelata a Mulino, attorno al tavolo di cucina dove si lavorava sempre, ci sono Tiziano e Adriano, che mi dice, appena seduta: guarda che bella poesia ho fatto oggi! (Si trattava di una poesia concreta). L’avrei fulminato. Solo molti anni più tardi, meditando, meditando, sono riuscita a interpretare in maniera non mostruosamente egoistica quella sua frase. E per lui, che aveva scelto di stare fuori dal mondo il più possibile, è sicuramente l’interpretazione più corretta: Guarda che bella poesia, grazie al fatto che sono rimasto qui, fermo, protetto in questa casa e non in giro per l’Italia dove succede di tutto… Comunque dimenticava il fatto che tutto quel suo poter stare fuori dal mondo era merito mio, che mi occupavo di questo e di quello, mentre lui, con la sua autorità era sempre riuscito a “non esserci per nessuno” … Comunque quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Era impossibile dirgli che per me era tutto finito e me ne andavo. Avremmo discusso per giorni e giorni fino ad avere lui la meglio per sfinimento mio. Quando a dicembre andò a Lugano con Tiziano, nell’auto di quest’ultimo, a presentare i libri Geiger, io colsi l’occasione, feci una vigliaccata, gli scrissi una lettera e scappai a Milano. Si comportò con grandissima correttezza. Cercò di farmi tornare con sé solo un anno più tardi, ma io gli dissi che non me la sentivo più. Rimanemmo amici e lui si sposò dopo due o tre anni con una giovane.

 

E poi arriva Ian Simpson…

Sì, lo conoscevo già dagli anni Cinquanta, era maltese, figlio di un colonnello inglese, a Milano era stato ingaggiato per giocare nella squadra milanese di rugby, cosa che fece con successo per parecchi anni. Poi lavorò come traduttore dall’italiano in inglese. Anche nel passato ci eravamo piaciuti ma non era successo niente. Ci eravamo poi sposati, lui con una ragazza americana che conoscevo bene e avevano avuto due figli. Ma nel 1980 ci innamorammo veramente, sua moglie venne a saperlo e iniziammo a vivere assieme. Quando incontrai il Buddhismo nel 1985, il nostro amore era finito a causa di una sua scappatella. Dopo che nel ’90 andai in India e divenni monaca, lui giustamente ritrovò una vecchia amica inglese della sua giovinezza, vedova, e si misero assieme. Non l’ho mai incolpato per questo e sono divenuta amica di Sue. Nei suoi riguardi non ho mai avuto il senso di colpa che ho avuto per Jacques. Così però anche, conoscendo bene Spatola, nessun suo amico mi ha mai incolpato d’averlo lasciato. Quando un giorno, un paio di anni fa, dissi al suo grande amico, il poeta americano Paul Vangelisti, che probabilmente mi ero fatta monaca “anche perché” avevo vissuto undici anni con Spatola, Paul (che l’ha sempre ammirato incondizionatamente come poeta), si fece una risata molto, ma molto partecipe e divertita! 

 

Nell’81 esce Harry’s Bar e altre poesie (1969-1980).

Esatto, lì è stato un bel colpo di fortuna, perché un giorno, venuta a Milano per lavoro o per consegnare una traduzione, probabilmente a Rosellina Archinto, mi trovai in Piazza Scala (sarà stato il ’77 o il ’78), mentre stava arrivando un comizio, vidi Porta che lavorava lì vicino, alla Feltrinelli, andammo a rifugiarci in un bar e mi chiese se avevo qualcosa da pubblicare. Certo! risposi, e fu così che decisi in quel momento di riunire tutte le poesie e di chiedere poi l’introduzione a Giorgio Manganelli. Da allora, sento di dovere molto ad Antonio Porta, perché da parte mia, per anni, non sono mai riuscita a farmi pubblicare un testo di poesie…

 

Cosa direbbe a proposito della sua raccolta Humpty Dumpty?

Verso la fine degli anni Sessanta mi capitò di leggere Alice nel paese delle meraviglie, senza ricordare se mi fosse stato letto da bambina. Ne rimasi incantata e capii subito, a livello profondo, con sicurezza, che quell’umorismo era il tono, lo “spazio” adatto, per la poesia che mi sentivo di scrivere. A questo proposito un Lama una volta diede questa meravigliosa definizione dell’umorismo: trovare spazio dove spazio non c’è. Questa frase la venni a sapere solo dopo il Duemila, ma corrisponde esattamente a ciò che provai io allora! L’avanguardia mi aveva già aiutato moltissimo a fare piazza pulita dei toni e dei ritmi della metrica del passato che non riuscivo a togliermi dalla mente. Prova ne sono i nonsense geografici, ognuno col suo ritmo che, a seconda della lingua nella quale i nonsense sono scritti, imitano la poesia inglese o italiana o francese del passato. (Un’ossessione anche questa, come lo spazio rettangolare dello schermo della Leica del quale ho parlato prima). Humpty Dumptyè un omaggio a Carroll fatto col cuore e con grande gioia.

 

E per quanto riguarda Greenwich?

Mi pare di aver appena parlato dei Nonsense geografici, così come mi era già capitato anche prima a proposito di A Marmolada. L’ossessione dei ritmi e delle rime della poesia del passato, così come per lo spazio rettangolare dello schermo della Leica mi portano ora fuori tema, permettendomi però di ricordare una particolare cocciutaggine da parte mia nella ricerca in generale, che mi riguarda a fondo, e che ha sempre finito anche col darmi grandi soddisfazioni. Più o meno, da quando avevo una ventina d’anni, mi sono chiesta, mi sono sempre chiesta come mai… per la miseria, come mai, perchéla Gioconda fosse il quadro più famoso del mondo? Comprando un giorno a San Polo – dove facevo la spesa – un fustino di detergente per la lavatrice, il droghiere mi regalò un quadro in plastica della Gioconda che mettemmo sopra il caminetto nella cucina di Mulino, proprio di fronte al posto dove mi sedevo sempre io, sia per mangiare che per lavorare. Bene! mi dissi soddisfatta, questa volta riuscirò a capire qualcosa! La Gioconda restò lì, muta, per un paio di anni. Ma una sera, che ero sola in casa, cominciai col rendermi conto della posizione delle sue braccia, come se ci tenesse un bambino sdraiato che però non c’è, dell’abito nero sopra braccia e mani, sul petto, che forma una sorta di vuoto e poi più su, quel suo sorriso e lo sguardo, rivolto a me, direttamente a me e che mi sta dicendo…  sta dicendo a me che la guardo: il Bambino sei tu! Fu uno dei momenti più felici della mia vita, più “pieni”, più compiuti, non per quello che dice Monna Lisa (un po’ difficiletto), ma per averla capita e capito la ragione (celata) per la quale è il quadro più famoso del mondo!!!  Allo stesso modo, ebbi per tutta la vita la fissazione del “mare color vino”, delle “onde viola” dell’Odissea. L’ho sempre cercato, dovevo assolutamente vederlo, dopo averlo letto in terza media! Non l’ho mai trovato né in Italia, Francia o Spagna. Lo vidi per la prima volta negli anni Novanta su un battello che da Rodi mi portava a Simi (io ne avevo ormai più di settanta) e fu forse proprio in quel momento che riuscii a capire che l’Odissea è il libro più importante della mia vita.

 

Per quanto riguarda le influenze artistiche, quali sono gli autori che più l’hanno appassionata?

Direi, per cominciare, ai miei vent’anni, gli americani del primo Novecento, Faulkner che ho letto per ultimo dopo Hemingway e Fitzgerald; degli italiani, assolutamente Calvino; dei francesi Queneau, tecnicamente la poesia d’avanguardia, senza la quale non mi sarei mai permessa di scrivere poesia… In senso pratico, Germano Lombardi con il suo Barcelona da Ècole du regard, che mi “diede lo spazio” entro il quale scrivere Il grande angolo. Germano era anche un grande amico. L’Odissea…

 

I985. anno fondamentale in cui capitano due cose importanti. Sempre nell’85 conosce il buddismo.

Esatto! L’ictus cerebrale a 50 anni che mi toglie la parola: mi sveglio la mattina presto per un colpo di tosse, vado in bagno, il cane tutto contento pensa che stia per portarlo fuori, lo voglio informare: No, Lennie non usciamo ancora… e non mi esce nemmeno una parola, solo suoni inarticolati! Sveglio Ian, gli faccio capire cosa è successo, lui conosce una dottoressa al Besta, la chiama, andiamo da lei con me che guido l’auto, in ospedale non c’è un letto, mi da una pillola per mantenere la liquidità del sangue e vengo poi ricoverata il giorno successivo. Nella settimana che segue i medici notano con sorpresa che ho un paio di libri sul comodino, ne restano sbalorditi (sic), decidono che con la mia frequentazione delle parole non avrò bisogno di logopedia, mi tengono una settimana e dopo tutti gli esami necessari mi mandano a casa. È ovvio che non riuscirò più – chissà per quanto – a leggere poesia in pubblico, mi sento tagliata fuori, una vera batosta, ma solo una settimana più tardi un’amica mi parla dei Lama tibetani, di un insegnamento che ci sarà in una casa privata di Via Romolo. Decido di andarci, ho l’indirizzo, lei e io avremmo dovuto incontrarci a Cadorna, alla linea verde, lei non arriva, ci vado da sola. Gonsar Rinpoche, abate di un monastero in Svizzera, a Mont Pelerin, sopra Vevey, sta parlando dell’iniziazione di Kalachacra (La ruota del tempo) che S.S. il Dalai Lama guiderà a Rikon, in Svizzera, a fine luglio. Mentre Gonsar Rinpoche parla, io faccio diversi pensieri in proposito, e lui, puntualmente, risponde poi a ogni mio pensiero. Ne rimango sbalordita e non so perché ma mi dico anche: non mi dire che qui sto trovando ciò che cerco da una vita???  Il giorno successivo Gonsar Rinpoche indossa occhiali da sole per difendersi dal trapano del mio sguardo ma io sono sempre più felice e incredula. Mi iscrivo subito ai dieci giorni di Rikon. E così inizia il mio cammino spirituale. Dopo che, negli anni, ebbi la certezza di essere già stata tibetana e buddhista in una vita precedente, volli chiedere a Lama Kenrab: ma lei si rende conto di quanto possa essere stato difficile per me vivere per cinquant’anni in Occidente senza buddhismo, essendolo già stata? Certo che lo so, mi rispose. Nell’86 o ’87 nell’Autoantologia degli scrittori italiani, a cura di Felice Piemontese confesso: «Dopo aver trovato il Buddhismo tibetano ho avuto la sensazione di aver combattuto per cinquant’anni nella Legione Straniera e di essere finalmente tornata a casa!» 

 

Più volte lei ha sfiorato l’idea di abbandonare la scrittura.

Beh no, non l’ho mai sfiorata io quell’idea, in pratica me l’hanno proibito i Lama, facendomi lavorare così tanto per loro, dopo averli incontrati nell’85, da non avere il tempo fisico per farlo. Ma nel ’93 l’amico Julien Blaine mi invitò a Marsiglia per stare tre mesi, stipendiata, in un appartamentino per poeti stranieri della Casa della Poesia da lui fondata in quella città. Dovevo solo scrivere qualcosa che loro poi avrebbero pubblicato per documentare il mio soggiorno. Comunque il testo era di mia scelta, qualsiasi argomento andava bene. Chiesi ai Lama se potevo andare e loro se ne dimostrarono entusiasti. Io avevo appena iniziato Esoterico biliardo e mi ero ripromessa di andare avanti con quello, magari anche di finirlo. Ogni mattina mi mettevo alla macchina da scrivere ma non riuscivo a battere una sola parola! Incredula e mortificata, mi mettevo così a meditare per venire a capo di quel mio incomprensibile blocco! Erano otto anni che volevo scrivere e non ne avevo il tempo! Beh, nemmeno lì, con più tempo di quello che potessi volere, non ci riuscii in alcun modo, e dopo due mesi tornai a Milano sconfitta! Mesi più tardi, mi resi conto che dopo Mulino, tornata a Milano nell’Ottanta, avendo iniziato i Frisbees che sentivo veramente miei, come una meta finalmente raggiunta, avendo tentato di farli pubblicare, mi ero trovata invece tutte le porte chiuse in faccia (altro aspetto della Discesa agli inferi), e fu proprio allora che, come conseguenza di ciò, cominciai a desiderare il riconoscimento e il successo (cosa che, come ho già scritto, non mi era mai capitato prima). Desiderio di riconoscimento e di successo?  Impensabile secondo la morale buddhista! Avendolo finalmente capito, da allora ho potuto scrivere ciò che ho voluto: ben sei volumi di prosa e frisbees. Favole & Frisbee uscito a maggio di quest’anno da Archinto, dovrebbe essere l’ultimo, perché ora che sono arrivata a un certo livello del cammino spirituale, è bene che non scriva più di buddhismo, come ho invece fatto dal Duemila nei miei ultimi sei testi. In senso spirituale, scrivere è una forma di autocompiacimento. Non posso fingere che non sia vero, e sono disposta a smettere.

 

Comunque, i Frisbees l’hanno aiutata a staccarsi dalla sofferenza?

I Frisbees sono il risultato di come funziona la mia mente, sempre alla ricerca della “felicità”. Sono sempre stata considerata matta quando lo dicevo, anche prima del buddhismo. Era come se pretendessi qualcosa di impossibile… Eppure… beh, forse è sbagliato chiamarla “felicità”, forse si tratta di serenità, con possibili momenti di gioia (vedi appunto i frisbees che capitano), il fatto di passare anni e anni a “esaminare la vita” e il riuscire, lentamente ad avere una “vita esaminata”, il sapere che ha saputo accordarsi al destino che le è stato prescelto… e per finire, per finire… nel 1990, Adelphi pubblicò una plaquette per gli amici con due lettere che Giorgio Manganelli scrisse alla cognata Angela dopo la morte del suo amato fratello, l’ingegnere Enzo Manganelli. Nella prima di queste lettere, Giorgio dice alla cognata: «l’eterno non è un tempo lunghissimo, inumano, ma l’assenza di tempo…». Conoscendolo bene, ammirandolo incondizionatamente, leggendo questa frase in quel particolare doloroso contesto, pensai subito che Giorgio non potesse solo citare una cosa letta da qualche parte, che dovesse invece saperla, per esperienza, conoscerla in prima persona! Prima di allora non avevo mai pensato all’eternità che mi pareva lontanissima e  che perciò non mi riguardava in alcun modo, ma se lui diceva una cosa simile… Mi misi a rileggere i suoi libri e trovai diverse brevi frasi a questo proposito: «L’eternità è essere vicini, vicinissimi», meravigliosa! o quest’altra, più lunga: «Penso al futuro, mia dimora, come a un gigantesco cubo mentale, e tale lo definisco perché non ne scopro il profilo, e ne ignoro le dimensioni, ma non posso non pensare che in quello spazio sia Tutto, e non solo il Tutto quale oggi lo concepite, ma tutti i Tutti del possibile». Morale: Manganelli non poteva non conoscere l’eternità! Proprio in quello spazio deve essere riuscito a comunicare con tutti quei grandi scrittori del passato coi quali riesce a identificarsi e a parlarcene nei suoi straordinari saggi critici come ad esempio, Laboriose inezie. Nell’eternità c’è solo consapevolezza e di conseguenza si prova solo gratitudine. In altre parole: c’è solo f e l i c i t à !

 

Dei lunghi viaggi in Oriente cosa ricorda?

Ci sono due aspetti ben differenziati dei viaggi in Oriente: lunghi periodi al monastero dei miei Lama, Sera Je, nell’India del Sud e i viaggi che ho fatto con un’amica tedesca, anche lei buddhista, Adrea Wahl, girando l’India, lo Sri Lanka e la Mongolia, anch’essi importanti e molto belli, avventurosi, con bellissime sorprese. Forse questo breve testo riesce a far capire qualcosa del monastero:

 

Sotto le tante stelle luminose
di quel cielo che appare concavo
e protettivo come una cupola
– per la prossimità all’Equatore –
il monaco che mi accompagna
con la sua pila per i campi
e i sentieri sterrati, non illuminati
del Monastero di Sera Je nel Sud
dell’India, a un certo punto dice
deliziandomi: la traduzione letterale
di “pila” in tibetano è “lucciola per le scarpe”.
Questa è “poesia” pensai tra me allora
e ora che voglio scriverne ricordando
quel buio avvolgente come seta,
so che era lui il poeta, perché chiedendo
conferma ad altri tibetani, nessuno
di loro l’aveva mai sentito dire.
Devo molto a quel monaco e alla sua
“lucciola per le scarpe” che ondeggiando
avanti/indietro come un metronomo
ha illuminato per anni le buche, i sassi,
i dislivelli e i miei stanchi passi titubanti.

 

Comunque, non erano viaggi leggeri questi in Oriente?

Beh, dipende… Il primo è stato tremendo perché all’aeroporto di Francoforte mi è venuta l’influenza cinese, fortissima. Arrivata a Delhi ero uno straccio. Andammo in un albergo vicino al Terminal e io dormii per 48 ore filate. In tutto ciò c’è anche una sorta di esagerazione che non può non avere a che fare con una gran batosta di purificazione…  Quando vidi il Lama, Thamthog Rinpoche, due giorni dopo, mi disse ridendo: «Pensavo fossi morta!». No, ce l’ho fatta… Dopodiché andammo in città, in periferia, in un alberghetto della comunità tibetana, con la federa del cuscino, ad esempio, non veramente pulita… lì mi tennero chiusa in stanza senza poter uscire, mentre Rinpoche, il suo attendente monaco e un discepolo di Taranto se ne andavano in giro. Mi venivano a salutare la mattina e Rinpoche, sapendo benissimo che mi faceva infuriare, diceva: «Noi usciamo, tu resti qui!». Racconto queste cose perché ora mi fanno ridere! Il cammino buddhista non è uno scherzo, è forse la cosa più difficile che si possa fare, ma se è arrivato il tuo momento, non puoi non farlo e ti senti divenire ogni giorno più libera! Più libera, ogni giorno che passa!  In quel primo viaggio, la prima volta che Rinpoche mi lasciò uscire dalla stanza (dieci giorni più tardi), per andare con loro in città, sentii l’India attorno a me come qualcosa di assolutamente già conosciuto, già vissuto. Qualcosa di simile lo dice anche Manganelli, quando scrive che l’India è una sorta di scalo ferroviario dove noi tutti siamo già stati.  Comunque allora, alla fine degli anni Ottanta, andare in India era come tornare ai tempi della Bibbia quando ad esempio ti capitava di vedere un contadino con un aratro di legno… In tutti gli altri viaggi successivi non ricordo che mi sia mai successo niente di particolarmente difficile, salvo tutta una serie di prove che i Lama fanno passare ai discepoli, che, col tempo, imparano a riconoscere, ne capiscono la ragione e, dopo che sono passate, ci ridiamo sopra tutti assieme, con complicità e “spirito di corpo”.

 

Oggi di cosa si occupa? Come passa le sue giornate?

Tendo a svegliarmi alle 6, anche perché vado a letto presto. In passato mi alzavo subito, ma ora a 83 anni, con tutti i dolori alle ossa ecc. resto a letto fino alle 8. Non faccio subito la prima colazione perché non ne sento il bisogno, come in passato. Dovrei iniziare subito le preghiere e la meditazione, invece apro il computer. Spesso rispondo e sbrigo ciò che c’è da fare. Faccio la prima colazione verso le 10, un paio di orette di meditazione e solitamente poi salto il pranzo, ma ceno presto la sera, se non esco. Esco solo per andare al cinema con amiche che mi accompagnano in auto. Non vado più a teatro o ai concerti che vanno prenotati perché non so mai se, quella data sera, mi sentirò di uscire. A volte la mattina, ma più spesso nel pomeriggio, dopo le 16 (perché faccio la pennichella), vedo persone: amiche da lungo tempo ma anche giovani (femmine ma anche maschi) che vogliono parlarmi a causa di dubbi, incertezze, sofferenze o problemi. Ne parliamo e ho parecchi amici in questo senso. I Lama non mi hanno mai fatto lavorare alla segreteria del Centro e quest’altra occupazione mi è arrivata subito, appena iniziato il cammino, con un vecchio amico di mio marito. La spesa la faccio sotto casa a un piccolo Carrefour o per computer alla Esselunga. Daria, una carissima nipote di Jacques, mi aiuta in tutto il resto. Mi accompagna in ospedale per gli esami del Coumadin (medicina per la fluidità del sangue), tipo una volta al mese, mi fa delle commissioni, mi aiuta a fare i pagamenti col computer.

 

Quindi non scrive più.

Sembrerebbe proprio di no. Ultimamente mi sono state chieste cinque presentazioni di libri o recensioni. Le ho accettate perché si tratta più di dovere che di piacere. Così come ho risposto ad altre domande che mi erano state fatte. Ma di mio, del cammino spirituale, non scriverò più. Ed è giusto così.

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21 dicembre 1934
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Sognatori e ribelli. Fotografie e pensieri oltre il Sessantotto

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Tre ragazzi corrono per strada con delle bandiere in mano e il passo svelto di chi ha un appuntamento a cui non può assolutamente mancare. Chi corre verso qualcosa trasmette un’idea di cambiamento. I ragazzi non solo corrono verso il futuro, verso il fotografo, verso di noi. C’è qualcosa in più. I loro piedi si staccano dal suolo, e così i loro corpi, ma allo stesso tempo appaiono ancorati ad un preciso istante. Corrono dentro la storia. È questo il tempo dell’immagine. Qui la fotografia è insieme l’occhio della storia che mostra gli eventi, ma è anche nell’occhio della storia, in una zona della tempesta dove regna una calma piatta e il futuro sta per prendere forma. Le pagine del libro di Uliano Lucas, Sognatori e ribelli. Fotografie e pensieri oltre il Sessantotto (Bompiani, 2018) lo raccontano e lo mostrano. 

 

Mai come per questo libro il titolo racchiude davvero il senso di un particolare momento: si sogna e ci si ribella insieme. La fotografia è il prodotto di una decisione collettiva e chi viene fotografato non è solo il soggetto e il destinatario, ma la fonte stessa dell’immagine. Il reportage è una scelta di partecipazione politica e il fotoreporter è parte del movimento. Fotografare significa credere al cambiamento tanto riguardo alla trasformazione individuale che collettiva.

 

Uliano Lucas incarna tutto questo. Non si presenta come fautore di un generico impegno civile, ma come cosciente interprete di una militanza di classe. E su questa militanza, che scaturisce da una coscienza di classe, espressione oggi desueta e, peggio ancora anacronistica, Lucas costruisce la propria strada di uomo e fotografo. La seconda parte del titolo, “Fotografie e pensieri oltre il Sessantotto” ha il pregio di ribadire che le sue fotografie sono sempre espressione di un pensiero, mentre i pensieri possono assumere la forma della fotografia. L’avverbio “oltre” appare volutamente ambiguo: da una parte sembra indicare un punto d’inizio, il ’68, diventato ormai imprescindibile per la cronologia di un’epoca; dall’altra vuole esprimere la complessità di un processo di maturazione che non si è mai concluso.  

 

Nel 1968 Uliano Lucas ha ventisei anni e possiede già una formazione tecnica, culturale e artistica che lo spinge verso la fotografia da free lance. Ha maturato, soprattutto, una limpida scelta in campo politico, cosa abbastanza naturale in una famiglia operaia, con un padre comunista, confinato e partigiano. E tuttavia non è facile dire se la genesi di questo libro sia dovuta all’omaggio, doveroso quasi, ai cinquant’anni del ‘68, o provenga, invece, dal bisogno di Uliano Lucas di ripercorrere e di rileggere con il distacco e lo sguardo di oggi la sua partecipazione umana e professionale a quell’avventura. Sia nell’uno che nell’altro caso è fondamentale il ricorso ad una lettura capace di restituirci il senso autentico del suo lavoro. Diversamente, si corre il rischio di considerare le sue fotografie come icone sterili, anziché coglierne la vitalità, espressione di un contesto magmatico fatto di pulsioni, desideri, contraddizioni, frustrazioni. 

 

L’Italia del ‘68, timidamente aperta al centrosinistra, non ha ancora metabolizzato la repressione poliziesca delle lotte operaie e bracciantili, da Portella della Ginestra agli scontri di Genova contro il governo Tambroni, né ha dimenticato il tentativo di colpo di Stato di de Lorenzo. Gli eredi della Resistenza non hanno compreso, e se hanno compreso non hanno condiviso, il sostegno al governo monarchico del fascista Badoglio, la requisizione delle armi ai partigiani, l’amnistia ai fascisti, l’art. 7 della Costituzione e tanti altri eventi sostenuti dal PCI. Uliano Lucas, pur partecipe in prima persona alle lotte, alle contestazioni, ai movimenti, non ha mai fatto una scelta di appartenenza ad una parte politica. In questo ha ribadito la stessa decisione, coerentemente sempre mantenuta, di rimanere un fotoreporter senza ingaggio, ma senza dubbio fortemente engagé. 

 

Ph Uliano Lucas.


Le masse, quando entrano nel suo mirino, non sono folle anonime, ma un insieme di individui. Ecco perché, probabilmente, le foto che più riescono a restituire la forza di quegli scatti sono quelle con i volti di cui possiamo guardare gli occhi, che sembrano ricambiare lo sguardo. L’uomo nuovo non è l’anonimo operaio della fabbrica di Sesto San Giovanni, né l’ennesimo “terrone” con la valigia di cartone appena sceso dal Lecce-Milano; non è neanche il proletario in tuta o lo studente in eskimo che partecipa allo sciopero o al corteo. Se avesse potuto, nella tensione di attribuire umanità e personalità alle persone fotografate Lucas forse avrebbe messo i loro nomi. 

 

E se il teleobiettivo schiaccia tutti gli elementi sopra uno stesso piano e azzera le reciproche distanze, Lucas, al contrario, usa il grandangolo e sfrutta tutto il potenziale della profondità di campo. Non si tratta di un mero espediente tecnico e artistico: profondità di campo significa dimensione umana, spessore storico, la vita in gioco, dasein. Restituire all’individuo la pienezza dell’esistenza, attribuirgli la responsabilità delle sue scelte, pretendere che si chieda se ribellarsi è giusto, ribellarsi è possibile. 

 

Ad epigrafe di un capitolo Lucas riporta questa citazione tratta da “Bleu”, numero unico del maggio 1971: “Ognuno è nella propria vita quotidiana al centro del conflitto. Ognuno porta dentro di sé la sua negazione, frutto della seduzione del potere, del ruolo affibbiatogli dalla società dominante. Il vivo si ribella”. È il necessario prologo al tema della ricerca della felicità, qui e ora, che nel ‘77 utilizzerà come parola d’ordine un verso bellissimo di Claudio Lolli: “Riprendiamoci la vita, la terra, la luna e l'abbondanza”. 

 

Ma è possibile, oggi, percepire appieno il valore che queste foto hanno avuto al loro primo apparire sulla carta stampata? Queste immagini non sono certo nate come icone. Lo sono diventate grazie alla loro capacità di comunicare storie ed emozioni condivise da un numero oggi inimmaginabile di persone. Questa capacità dipende dall’immergersi dentro le situazioni che si fotografano. Esserci tutto dentro, fisicamente e politicamente. Condividere l’entusiasmo delle manifestazioni e il fumo dei lacrimogeni, lo sventolio delle bandiere e le cariche della polizia. 

 

“Non bastava fotografare dall’esterno la massa che avanzava con gli striscioni e le parole d’ordine, seguendo la classica iconografia del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, bisognava cercare di raccontare quello che accadeva all’interno, restituire la percezione soggettiva di questo nuovo protagonismo sociale”, rammenta il fotografo. 

 

Le foto di Uliano Lucas sono diventate icone perché un enorme numero di donne e uomini le ha fatte diventare parte del proprio vissuto, le ha scelte, distribuite e riprodotte in una quantità oggi incredibile di stampati di ogni tipo. L’immagine non è il calco reificato degli avvenimenti che si sostituisce agli avvenimenti stessi, ma diventa il luogo di una scelta: ognuno di noi davanti a un’immagine deve decider come farla partecipare, o non partecipare, alle nostre iniziative di conoscenza e azione. La fotografia coincide con l’esperienza e non con la distanza dall’evento.

 

In quegli anni, il pregiudizio che pone l’immagine in posizione subordinata rispetto alla scrittura, comincia a sgretolarsi. Chi ha la fortuna di possedere una macchina fotografica ed ha abbastanza soldi per pagare rullini, sviluppo e stampa si autopromuove a reporter. Queste foto si diffondono con ogni mezzo. Basti pensare che, a partire dal’74 vengono pubblicati ben tre quotidiani della sinistra antagonista, che vanno ad aggiungersi a decine di periodici, a centinaia di riviste irregolari, a migliaia di numeri unici, per tacere di bollettini e volantini ciclostilati. La fotografia si emancipa assieme alla società. 

 

Ben presto la gioia dell’assalto al cielo inciampa nella perdita dell’innocenza. La strategia della tensione e le stragi che ne segnano il passo seminano sgomento e paura. Ma il colpo di grazia viene da chi, calpestando i principi basilari dell’antiautoritarismo e dell’egalitarismo, si autoproclama avanguardia di un vastissimo e multiforme movimento e sceglie la lotta armata. La repressione che ne segue, il 7 aprile del ‘79 è la data più nera, frantuma e disperde un movimento di massa che non ha avuto più eguali. Uliano Lucas, che dalla Leica appesa al collo era passato a una reflex per adeguarsi anche strumentalmente al ritmo vorticoso impresso dall’accelerazione degli eventi, ritorna mestamente ai tempi più lenti e meditati della Leica. 

 

L’ondata repressiva non è fatta solo di arresti e perquisizioni, significa obbligare a distinguere tra compagni buoni e, per usare un eufemismo allora in auge, compagni che sbagliano, significa clima di sospetto, di delazione, tradimenti, paura. Centri di documentazione, librerie, punti di aggregazione, chiudono per le intimidazioni; i gruppi si frantumano. Il fumo dei lacrimogeni e quello della canapa lentamente cala, come il prezzo dell’eroina che si appresta a sferrare il colpo di grazia. I compagni che distribuiscono volantini non ci sono più, sono spariti anche quelli che scattano foto dentro e ai margini del corteo per mandarli ai loro giornali. Ma Uliano Lucas è ancora al suo posto, a documentare la cacciata da un Paradiso solo appena intravisto negli occhi di tre ragazzi che corrono, con le loro bandiere rosse, verso un sole dell’Avvenire che sappiamo tramontato. 

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Odio bianco

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Due storie

La strage alla sinagoga di Pittsburgh, il 27 ottobre, ha spazzato via anche l’ultima illusione. Undici morti, sei feriti. È stato l’attacco antisemita più grave nella storia degli Stati Uniti, uno dei successi più clamorosi del suprematismo bianco. Eppure, mentre le settimane scorrono, cresce l’amaro del dejà vu. Questo è un film già visto troppe volte. Gli attori cambiano ma non il finale e tanto meno il regista. È già successo, succederà di nuovo.

I segnali d’allarme sono sotto gli occhi di tutti. Lo stesso micidiale impasto d’odio tiene insieme il massacro di Pittsburgh; le violenze neonaziste a Charlottesville, dove un anno fa ha perso la vita la ventiquattrenne Heather Heyer; l’attacco alla chiesa di Charleston dove nel 2015 Dylann Roof ha trucidato nove afroamericani; la furia crescente contro immigrati, ispanici, musulmani, donne, Lgbt, intellettuali e correttezza politica.

Il mandante rimanda al vasto arcipelago del suprematismo bianco che, smessi i cappucci del Ku Klux Klan, gioca ormai un ruolo di primo piano sulla scena politica sotto l’etichetta più neutra di “white nationalism” – dove la parola chiave è “white”.

 

A lungo liquidato come un fenomeno di retroguardia, una di quelle bizzarrie che allignano nelle periferie tra paranoici e fanatici di professione, senza Donald Trump sarebbe rimasto confinato ai margini. Ma, come spiega il report dell’Antidefamation League From Alt Right to Alt Lite: Naming the Hate, la “retorica della campagna presidenziale del 2016”, contribuisce in modo decisivo a sdoganarne i temi un tempo considerati tabù.

Il risultato non si fa attendere. L’alt right – come la ribattezza Richard Spencer, stella accademica del white nationalism – registra una crescita stratosferica. E mentre si afferma come “il movimento estremista più visibile degli Stati Uniti”, gli attacchi online agli ebrei si moltiplicano fino all’intollerabile.

Le elezioni rivelano, all’America e al mondo intero, che l’odio è più radicato di quel che si pensi. Il database del Southern Poverty Law Center, uno dei maggiori gruppi per i diritti civili che da anni mappa la situazione, fotografa una realtà impressionante.

Un migliaio di hate groups in prevalenza concentrati al Sud – suprematisti bianchi, neconfederati, neonazisti, KKL, skinhead, anti-immigrati, cristiani radical, black nationalist, sovereign citizens e altri ancora. Al loro fianco, quasi trecento milizie in servizio attivo.

Il conteggio però non finisce qui. Il web – in cui il movimento ha riconosciuto con prontezza uno strumento indispensabile – moltiplica all’infinito il messaggio estremista reclutando sempre nuovi adepti, soprattutto fra i giovanissimi. È un pulviscolo velenoso di community online, radio, hate music, social network, raduni e concerti di cui nessuno conosce la reale estensione.

Accanto ai numeri, per capire le idee servono le storie. A guidarci in quest’universo segreto sono quelle di due ventenni che l’odio bianco ha segnato per sempre – il suprematista pentito Dereck Black e il killer di Charleston Dylann Roof.

 

Il primo è al centro di uno dei libri più appassionanti di quest’anno, Rising from Hatred: The Awakening of a Former White Nationalist (Doubleday, 304 pp.), di Eli Saslow, reporter del Washington Post e Pulitzer Prize. A rendere unica la traiettoria di Dereck è il fatto di essere nato e cresciuto nell’epicentro del nazionalismo bianco. Suo padre è Don Black, il fondatore di Stormfront, la più grande comunità razzista online. David Duke, Grand Wizard del Ku Klux Klan che negli anni Novanta sta per diventare governatore della Louisiana, è il suo padrino.

Dereck Black è l’erede designato. A 19 anni ha già debuttato in politica, aperto su Stormfront la prima community suprematista per bambini, lanciato una radio web e un talk show di successo. Soprattutto, ha avviato nel movimento un processo di normalizzazione del linguaggio che ripulisce da minacce, insulti, tirate naziste. Non è un cambio di rotta, ma un’operazione cosmetica per “infiltrarsi” nel sistema che purtroppo finirà per rivelarsi decisiva.

Brillante e creativo, è destinato al college. E qui il suo cammino trionfale s’interrompe. Al New College of Florida, campus di tradizione liberal, fa i conti con la diversità da cui i suoi l’hanno sempre tenuto lontano. Più del pandemonio di proteste e sgarbi che scoppia appena gli studenti scoprono chi è, a fare breccia nella sua corazza ideologica sono Matthew e Moshe: due compagni ebrei, i peggiori nemici di un suprematista.

 

 

La violenza antisemita delle opinioni di Dereck li terrorizza, ma ogni venerdì sera lo invitano alla cena dello Shabbat. Celebrano con lui il kiddush sul vino e discutono di scienza, storia, filosofia. L’unico argomento mai evocato è il suprematismo. Si cementa così un’amicizia che spinge Dereck Black a mettersi in discussione.

Pagina dopo pagina, lo seguiamo nella sua drammatica presa di coscienza che lo porta a sconfessare pubblicamente la follia suprematista, rompendo con la famiglia e i compagni di sempre. “Mi è diventato chiaro che il nazionalismo bianco non è un movimento di identità positiva o di valori culturali, ma di costante antagonismo nei confronti del miglioramento di altri gruppi”, scrive nel 2015 in un testo ripreso da tutte le testate nazionali.

Attraverso interviste, archivi, email e chat, Eli Saslow ci conduce allo snodo fra KKL e web dove, fra bandiere confederate e insegne naziste, si rimescolano odi vecchi e nuovi. Dereck Black e i suoi parlano a una platea di uomini, giovani e poco istruiti, arrabbiati con l’economia che li ha lasciati indietro, la politica che non li ascolta, le minoranze che avanzano.

L’alt right offre loro una visione del mondo che contiene la soluzione. È la teoria del “genocidio bianco”, l’attacco all’America dei fondatori per mano di neri, ispanici, musulmani ed ebrei. Secondo il collaudato meccanismo del capro espiatorio, è colpa degli “usurpatori”, se i bianchi sono spossessati del lavoro, delle prospettive, dello stile di vita, del ruolo sociale e culturale cui hanno diritto.

La paranoia del complotto percorre, con varianti locali, l’intera galassia in crescita dei neofascismi e neonazismi. Ad alimentarla, negli Stati Uniti, è la virulenza di un razzismo che sgorga dritto dal pozzo della Storia. Nutrito del rimpianto per il tempo in cui i bianchi erano padroni, i diritti civili una bestemmia e un presidente come Obama impensabile, il tradizionale accanimento contro gli afroamericani si salda con naturalezza all’intolleranza, anch’essa ben radicata nel passato, per gli immigrati e gli ebrei.

In un’America sempre più ineguale, dove regioni intere affogano nella povertà e le proiezioni dicono che fra una generazione i bianchi non saranno più maggioranza, è una chiamata alle armi irresistibile. Soprattutto quando a fornirle una cassa di risonanza è, fra lo stupore degli stessi militanti, il candidato e poi presidente Trump.

 

La storia di un altro ventenne, Dylann Roof, il killer di Charleston, illumina il cuore di questa rabbia. A ricostruirla è il magnifico reportage di Rachel Kaadzi Ghansah, A Most American Terrorist: The Making of Dylann Roof, pubblicato su Gq e vincitore un anno fa del National Magazine Award. L’autrice è a Charleston per seguire il processo al responsabile del massacro all’Emanuel Church. Vuole scrivere delle vittime e delle loro famiglie, ma a catturare la sua attenzione è l’imputato. Dylann è un biondino educato e silenzioso che passa inosservato. Finché impugna la Glock che il padre gli ha regalato per i suoi 21 anni, guida fino a Charleston, entra in una chiesa e uccide nove persone.

È un gesto a lungo premeditato. L’ha fatto, spiegherà, perché gli afroamericani “violentano le nostre donne e si stanno impadronendo del nostro paese”. Al processo, dove sfoggia rune naziste e insegne del KKK, resta in silenzio e rifiuta di guardare in faccia i sopravvissuti o mostrare segni di rimorso.

Sarà la prima persona nella storia degli Stati Uniti a essere condannata a morte per hate crime federale e di lui non c’è altro da dire. “È come se avesse fluttuato nella vita della gente senza lasciare nulla da ricordare”, scrive Ghanzah.

 

La strage matura proprio in questo nulla, nella miseria di un sobborgo in South Carolina, dove i giorni sono tutti uguali e il futuro è un lusso. Dylann passa il tempo fra il web e le serate a stonarsi di canne e birra. Non ha amici, ha lasciato la scuola, si barcamena fra lavori precari, è depresso, sprofonda nel vittimismo.

Finisce per trovare le risposte nei forum dell’odio suprematista, nel “genocidio bianco” che lo spossessa di ciò che crede gli spetti. Un tempo i killer del suprematismo bianco crescevano sul campo, nel corso degli anni, all’interno di gruppi, incontri, raduni. Adesso per radicalizzarsi basta una connessione internet.

Si esce da queste due storie con un senso di disperazione. Quella di Dereck Black mostra che anche l’odio più radicato può guarire nella cultura, nell’incontro con l’altro, nella speranza di un domani. Lungo la strada imboccata dall’attivismo sociale – lotta al pregiudizio, educazione alla tolleranza, legalità, sostegno alle vittime. 

 

Ma il suo è un percorso d’eccezione, una di quelle storie su cui si scrive un libro. Poi c’è la pancia del Paese che rimastica le parole dell’odio e c’è Dylann Roof. Uno dei tanti lupi solitari che nella bolla del web covano rabbia e ossessioni, fino a esplodere nel mondo e seminare morte.  

È andata così anche con Robert Bowers, il killer della sinagoga di Pittsburgh. Per mesi ha postato insulti violentemente antisemiti su Gab, il social preferito dell’estrema destra, mentre nella sua mente l’urgenza di fermare il “genocidio bianco” cresceva fino al parossismo. “Non posso restare seduto e guardare il mio popolo venire massacrato”, scrive poco prima dell’attacco. 

Apre il fuoco un sabato mattina, quando la sinagoga è più affollata. Un altro luogo di preghiera, un’altra comunità ferita. Come a Charleston, come in Texas, come nel tempio Sikh in Wisconsin. Resta solo da chiedersi chi sarà il prossimo bersaglio.

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Dereck Black e Dylann Roof
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Immagini dalla sorveglianza

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Nella nostra indagine sulla metafotografia italiana abbiamo incontrato Irene Fenara (1990), artista bolognese che nella sua ricerca segue principalmente due percorsi – la video installazione e la sperimentazione con la fotografia concentrata anche sull'interazione con le telecamere di sorveglianza – per attivare qualcosa che tende all’allargamento dei confini dell’arte. Fenara cerca ogni volta in modo diverso di spingersi oltre la consuetudine, di sondare gli interstizi che si creano tra le varie espressioni artistiche, dove le diverse caratteristiche si mescolano e interagiscono.

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Girls, Ghost and War

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Due aerei si fronteggiano sulla pista di atterraggio. Due navi enormi, come due cetacei metallici, stanno ormeggiate l’una di fianco all’altra. Due auto stanno una dinnanzi all’altra, con i paraurti che si sfiorano, i fanali accesi e la luce che si fonde nello spazio vuoto. Sembra una scintilla, qualcosa in procinto di svelare un segreto. Anche se la luce non illumina nulla, solo altra luce. Non c’è modo di capire sino in fondo cosa vogliono dirci le immagini di Ange Leccia. Tutto è fermo. Non accade nulla. Forse è per questo ci appaiono misteriose. Cosa significa duplicare? Di che tipo di doppio si tratta? In queste fotografie non ci sono riflessi, scissioni, rifrazioni, ma semplicemente due oggetti uguali e ugualmente reali, chiusi e ostinati nel loro “essere due”.

 

Ange Leccia, Volvo, Arrangement, 1986.


Eppure si è perfettamente consapevoli che la metafora del doppio, che qui viene evocata, non può che essere considerata come un impulso elementare dello spirito umano. Non ci si sente, non ci si ode, non ci si vede, se non come l’altro, cioè come proiezione e alterità. Ma se la fotografia attesta che l’altro è identico ed esiste nello stesso istante, cosa ha voluto suggerire Ange Leccia? Il raddoppiamento dà un senso ulteriore a ciò che ripete? A cosa davvero dobbiamo fare attenzione? Quanto c’è del mito platonico, ovvero dell’idea di scissione, e quanto di quello di Narciso, inteso come duplicazione? Separare e dare forma non sono forse i gesti che contraddistinguono ogni atto creativo? L’immagine fotografica consente di racchiudere in un solo istante il ricordo di una scissione originaria e la nostalgia di una impossibile riunificazione. Ma le domande, come le ipotesi, sembrano infinite. Gli oggetti di Leccia rappresentano un enigma che non ha soluzione, e che ogni volta si propone come tale.

 

Ange Leccia, American Nebraska – American Kentucky, Arrangement, 1987.


Il tempo, nelle sue immagini, come le risposte, rimangono sospese. Resta il fatto che ciò che conta è il gesto originario. L’autore avvicina a sé, come fa con gli oggetti che fotografa, il fruitore. Costruisce per lui uno spazio misterioso, lo costringe a diventare “prossimo” a sé. Cosa fa? Una sorta di ready made doppio, racconta Elio Grazioli, che ha curato la mostra. Negli anni Ottanta prende due esemplari di un oggetto di varie dimensioni, anche molto grandi, come due aerei o due petroliere, di cui è presente la versione fotografica in mostra, disposti uno di fronte all’altro. A volte sembrano semplici coincidenze, accostamenti prodotti dal caso, come per le due petroliere uguali ormeggiate fianco a fianco. Li chiama “Arrangement”.

La loro vicinanza evoca come il verbo “arranger”, una composizione, un aggiustamento, una sistemazione, un accostamento. E nell’essenza di questo gesto, in questa distanza, come nello spazio tra gli oggetti, chi guarda si approssima anche alla ricerca di un senso. Cercare di capire, qui provoca una vertigine. E forse ciò che ci attrae è questo avvicinamento che paradossalmente produce uno “spaesamento”. Si è più lontani nell’istante in cui si è più vicini. Perturbante verrebbe da dire, qualcosa di apparentemente familiare che nasconde un enigma e ci spinge in una zona di incertezza che ci esilia dalle nostre più consolidate abitudini mentali. Le sue presenze ostinate ci portano dunque non solo alla radice del gesto creativo, ma anche alla radice stessa del senso di “vedere”, alla base dello stesso.

 

Nel momento in cui ci si sofferma dinnanzi a questi oggetti doppi, l’azione di vedere è inseparabile da quella di pensare. La ricerca di una consistenza teorica, del loro motivo di esistere e di apparire così ostinatamente uguali, fa sorgere delle domande che a un certo punto pare abbandonino l’immagine stessa e costituiscano la materia vera di quelle fotografie. Ange Leccia con due semplici oggetti accostati pare ricordarci che non esiste una differenza rilevante tra pensare e vedere. Come rammenta Giuseppe di Napoli in un suo articolo, l’etimo “ἒidos [eidos] (forma, figura), da cui discende il termine idea ha la stessa radice di ἐιδέiν, [eidein] vedere e, per i greci, il perfetto di vedere oìda, significa “io so” (perché ho visto)”.

 

Così accade anche nel suo video Ghost and War. “Io so perché ho visto”, sembrano dire le giovani donne che appaiono nel video. Sullo schermo scorrono immagini che evocano un continuo conflitto: rivolte, combattimenti, bombardamenti che si alternano con le figure e i volti femminili. Il contrasto è netto. Le giovani donne appaiono tristi, malinconiche eppure bellissime. Sembrano costituire quasi una sorta di “inconscio ottico”, come a dire che la forza del visibile vive anche di apparizioni e di evanescenze, di affioramenti e di sparizioni. Tutto è fatto di doppi, sembra suggerire Ange Leccia.

E in questo video le immagini vengono sovrapposte e trasformate in presenze evanescenti. Fantasmi appunto. Bellezza e violenza si fondono e si confondono, quasi in una guerra incessante. L’immagine che si genera è un nuovo doppio, una sorta di essenza intermedia, un fantasma, dove ogni realtà, la guerra come i volti femminili, partecipano tanto del diverso quanto dell’identico. Lo stesso titolo evoca una confusione. Se la guerra si percepisce chiaramente, da dove nascono i fantasmi? Sono le giovani donne o sono le immagini nuove che si generano dinnanzi a noi? Di che sostanza sono fatte? Possiamo pensare allo stesso modo e vedere allo stesso modo? Se vedere e pensare sono istantanei, anche generare un nuovo tipo di immagine, incorporea, ma generata da due corpi ben distinti, è il tentativo di mostrare il processo creativo nella sua essenza più profonda. Generare significa inventare, produrre un nuovo tipo di rappresentazione. Re-praesentatio, scrive Jean-Luc Nancy, vuol dire presentazione sottolineata, il prefisso re- non è ripetitivo ma intensivo. 

 

La repraesentatio prende il suo primo senso dall’uso che se ne fa nel teatro, dove non ha niente a che vedere col numero delle rappresentazioni, e dove, appunto si distingue nettamente dalla “ripetizione” ed inoltre dal suo antico significato giuridico: produrre un documento, una prova o anche nel senso di fare osservare, esporre con insistenza. E nel caso di Ange Leccia è evidente. L’immagine conflittuale e fantasmatica di “ghost and war” è la scena in cui viene mostrato un nuovo modo di vedere e di capire. Le immagini possono dunque essere tanto fantasmi quanto conflitti, se non fantasmi in conflitto.

La bellezza evocata da Leccia, grazie ai volti femminili, forse non è altro che il piacere di abbandonarsi a una visibilità fluttuante. E allora il gioco che può compiere ogni spettatore diventa questo: cercare una nuova forma di immagine che si animi davanti a noi, una forma che forse deve ancora nascere o, più verosimilmente, una forma che sprofonda e scompare nella luce, per poi emergere evanescente e reale al tempo stesso. Uno sguardo che riguarderebbe i fantasmi. Quasi una prospettiva onirica, che permette di trasformare il tempo della sovrapposizione in puro spazio, o meglio in un’unica immagine simultanea. Un altro doppio: reale e sogno. Le immagini di Ange Leccia non sono che il tramite di una sfida: spingere la nostra capacità di vedere verso una profondità intensa e vertiginosa. Non ci resta infine che guardare, pensare, creare, immaginare, sognare.

 

Mostra: Ange Leccia, Ghirl, Ghost and War a cura di Elio Grazioli

Galleria Six, Milano, fino al 26 gennaio 2019

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Ange Leccia
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Vedere e esserci: due libri sulla fotografia

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Una mano tiene fra due dita una fotografia. Si vede un albero molto grande, un prato su cui ognuno vorrebbe sdraiarsi e nuvole bianche nel cielo. La foto si sovrappone alla realtà. Il soggetto sta osservando l’immagine nel luogo dove l’ha scattata, anche se la realtà appare sfocata: le nuvole, il cielo e l’albero sono semplici macchie di colore. Sembra un paradosso. Cos’è più reale? L’immagine o il mondo in cui la stessa immagine e il soggetto sono immersi? È davvero possibile rispondere a questa domanda?

Per di più questa immagine costituisce la copertina di un libro, Che cos’è la semiotica della fotografia (Carocci Editore, Bussole, 2018), di Dario Mangano. Ulteriore vertigine semantica, anche se il titolo suona rassicurante e rievoca, attraverso questa ironica provocazione, la fiducia che fin dalla sua nascita la fotografia riscuote. Cosa che le accade in quanto sarebbe depositaria di una straordinaria aderenza alla realtà e di una completezza nella resa di ogni suo dettaglio, anche se oggi il realismo ingenuo è scomparso e nessuno si sognerebbe di definire la macchina fotografica uno specchio. L’intento è chiaro, Mangano traccia una sorta di mappa concettuale, una “Bussola”, come la collana dell’editore Carocci di cui fa parte, a disposizione di chi si avvicina alla fotografia, come campo problematico per la semiotica.

Sfiora dunque alcuni tra i temi più dibattuti intorno al medium. Il primo riguarda il rapporto tra la macchina e il fotografo. È il fotografo che fa la macchina, o la macchina, contro ogni illusione umanistica, dà forma a chi la usa e alla porzione di mondo che cattura? In seguito si sofferma su un altro interrogativo cruciale: cos’è la fotografia? Qual è la sua essenza? 

 

Qui ricopre grande importanza la distinzione proposta da Philippe Dubois, che nel suo saggio L’atto fotografico (1983, ed. it. a cura di B. Valli, Quattroventi, 2000) si basa sulla logica ternaria (diversa da quella binaria degli studi linguistici e semiotici più noti, come la distinzione saussuriana tra significante e significato), impiegata da Charles Sanders Peirce, per distinguere fra tre diversi tipi di segni sulla base del loro rapporto con la cosa rappresentata, ovvero icona, simbolo e indice. 

Nel terzo capitolo la nozione di testo viene affiancata a quella del linguaggio fotografico e infine vengono prese in considerazione differenti tipologie di immagini e le strategie impiegate per produrre precisi effetti di senso: la foto scioccante che ha vinto il World Press Photo nel 2017, scattata da un fotografo turco di nome Burhan Özbilici, che documenta l’omicidio dell’ambasciatore russo Andrej Karlov, avvenuto il 19 giugno del 2016 ad Ankara. O ancora l’ironia di Martin Parr, lo sguardo poetico di Mario Giacomelli nella serie di Scanno, la celebre foto del miliziano di Robert Capa, i nudi di Bill Brandt, la natura di Ansel Adams, le invenzioni di Andreas Gursky e le foto degli insetti antropomorfi di Alberto Ghizzi Panizza.

 

 

Una volta assimilate la terminologia e il metodo della semiotica come strumento di conoscenza e riflessione, si può compiere un altro passo in avanti. Ed è quello di seguire il percorso che rende problematico il tentativo di “leggere” le fotografie. E la risposta è che la semiotica può essere apprezzata mettendola alla prova, tendendo ai limiti la sua capacità di analisi. La camera chiara (1980, trad. it, R. Guidieri, Einaudi) di Roland Barthes ne è il testo guida.

Il semiologo considera infatti la fotografia come un “messaggio senza codice” sin dal suo saggio “Il messaggio fotografico” pubblicato nel 1961. Cosa significa? Che per passare dal reale alla sua fotografia “non è necessario scomporlo in unità e costituire queste unità in segni che differiscono dall’oggetto che essi offrono in lettura”; la fotografia non è il reale ma quantomeno il suo “analogon” perfetto, scrive Barthes, che nella Camera chiara lo definirà come “referente fotografico”, ovvero la “cosa necessariamente reale che è stata posta dinnanzi all’obiettivo”.

 

Se dunque non esiste un codice che si ponga come una mediazione tra l’oggetto e la sua rappresentazione in immagine, cosa rimane al lettore? Come si può capire il messaggio di una fotografia? Passando da una dimensione cognitiva a una patemica. La questione del senso di una foto si sposta sul soggetto, afferma Mangano, e questo significa affermare che essa trae origine dal suo modo di sentire e vivere l’immagine, dal sentimento, unico e personale, che essa è in grado di suscitare. Non è forse la foto della madre di Barthes, scattata in un giardino d’inverno, quando era solo una bambina, a sostituire il suo corpo e la sua essenza dinnanzi agli occhi del figlio?

C’è quindi un aspetto misterioso che si spinge oltre il senso referenziale di un’immagine, che è sì un indice, ma può rappresentare anche l’indice di una rottura, di una crisi, che mostra la rappresentazione nel suo punto critico, ovvero nel punto in cui si sottrae alla sua stessa interpretazione e genera un effetto di stupore. Una visione dominata dall’imprevisto e dal sensazionale, da ciò che coinvolge tutti i sensi, ma anche l'intelletto, poiché sensato è ciò che è dotato di senso. 

 

Quindi, per quanto pensate con cura, le fotografie molto spesso sorprendono chi le ha realizzate, dando prova di possedere quello che potremmo definire un “eccedente visivo”. E di nuovo Mangano evoca un’idea di Roland Barthes, ciò che egli chiama “senso ottuso” alludendo a quanto va oltre il senso del simbolico, che egli definisce ovvio. Si tratta di un terzo livello di lettura “ostinato e nello stesso tempo sfuggente, liscio e inafferrabile”, un supplemento di visione, che conduce lo spettatore a guardare ciò che nell’immagine genera una sorta di stupore. Ed è questo che davvero ci seduce, ovvero la sua presenza come unità densa che sfugge a interpretazioni univoche e genera sviamenti, attimi di pura fascinazione per ciò che non stavamo cercando e che ci viene incontro quasi per caso, come un enigma o una istantanea apparizione.

E se la fotografia può essere considerata il confine tra due indicità, poiché l’obiettivo punta tanto verso l’interno, ovvero al fotografo che sta dietro l’apparecchio, quanto all’esterno, ovvero al mondo che sta davanti alla macchina, il libro di Luigi Zoja, Vedere il vero e il falso (Einaudi, 2018), suggerisce l’importanza delle circostanze in cui un’immagine viene diffusa e recepita.

La copertina del libro, a differenza di quello di Dario Mangano, non riporta alcuna immagine, ma una sorta di premessa teorica espressa attraverso la parola: “la ricostruzione storica dimostra che proprio le foto più famose sono spesso il risultato di artifici”. La domanda è dunque: quanto è vera un’immagine? La risposta è affidata ad alcune fotografie: quattro di guerra e quattro scattate a bambini in contesti bellici o drammatici. Tutte si lasciano dietro una sorta di inquietudine, come se qualcosa fosse rimasto in sospeso, o come se ci avessero comunicato una verità che si sporge e di cui non riusciamo a tracciare contorni netti. 

 

La “Morte di un miliziano” di Robert Capa si pone come una sorta di foto-evento-origine quasi imprescindibile per chiunque affronti il valore testimoniale di un’immagine, o meglio il suo presunto impeto documentario. Questa foto, ma anche le altre su cui si sofferma, si chiede Zoja, è autentica o una messa in scena? Non è possibile rispondere immediatamente. Lo sguardo non è sufficiente. Zoja ci suggerisce che il contesto in cui la foto è stata scattata è importante quanto il soggetto ritratto. Testo, ipertesto, paratesto hanno la medesima importanza. La strategia è precisa: ricostruire la storia dentro e fuori la stessa immagine. Un esempio vale per tutti. Si tratta di uno fra gli scatti più celebri della Seconda Guerra Mondiale. Impossibile non ricordarla. 

Viene scattata all’inizio del 1945 da Joe Rosenthal sul monte Suribachi, nell’isola giapponese di Iwo Jima, la cui occupazione costò all’esercito americano un enorme sacrificio di vite. Rosenthal fotografò sei soldati dell’esercito issare una bandiera degli Stati Uniti sulla cima della montagna, e la foto diventò rapidamente un simbolo della Seconda guerra mondiale, e successivamente una delle immagini più iconiche di tutto il Novecento. 

 

Dopo la battaglia per Iwo Jima il passo successivo nella sconfitta del Giappone fu la conquista di Okinawa, isola ben più importante e popolata. Perché quindi la foto di Iwo Jima è così diffusa? Per due motivi: se la battaglia di Okinawa fu glorificata per ragioni abbastanza oggettive, quella di Iwo Jima, lo fu per offuscare i dubbi sull’utilità della conquista, fa notare Zoja.

Inoltre, ed è l’aspetto più importante, vi è una forte componente ideologica, alla base della sua messa in scena: “la verticalità dell’eroe solitario si associa a quella dei vicini saldandosi in una forte struttura orizzontale”, che sintetizza tre temi centrali nella storia politica americana: “egualitarismo, nazionalismo e quella forma particolare della civil religion chiamata civil republicanism, (repubblicanesimo civico o civile, curvatura leggermente sociale del primo)”, scrive Zoja, ricordando gli studi di Robert Hariman e John Louis Lucaites su questa immagine. Un discorso che fa riferimento tanto alle preferenze individuali quanto allo strato di psiche universale detto inconscio collettivo.

Qual è dunque l’insegnamento che possiamo trarre dal metodo di analisi proposto da Zoja? Come possiamo capire se un’immagine è vera o falsa? Come è possibile smascherare la sua opacità, il suo silenzio impenetrabile, la sua placida indifferenza? Ognuna delle immagini prese in considerazione diviene il punto di partenza per riflettere sulla possibilità che una foto, di per sé oggetto chiuso in se stesso, ha di essere manipolata. Non è dunque in discussione lo statuto più o meno complesso di un’immagine, ma il fatto che una fotografia possa essere usata per veicolare una precisa ideologia. Poiché se l’immagine è un messaggio senza codice, le rappresentazioni che produce possono essere fortemente codificate: stampa, arte, moda, porno, scienza. Paradossalmente la fotografia esercita un potere che non è mai il suo. Per quanto possa essere considerata inseparabile dalla sua situazione referenziale, la sua “verità” varia a seconda dei rapporti di potere da cui è investita, dipende dalle istituzioni e da chi se ne appropria, e garantisce l’autorità delle sue narrazioni.

 

Osservare una fotografia e collocarla in una precisa cornice storica, consente dunque di sottrarsi alle mistificazioni che qualsiasi istituzione o apparato intendono attribuirle. Zoja vuole dire che la storia narrata dall’immagine è importante quanto la storia da cui proviene. Per questo è fondamentale comprendere tanto la foto, quanto le pratiche di significazione messe in atto come oggetto che dissemina significati, nei più diversi contesti in cui si trova a vivere. La foto non è dunque un oggetto neutro che esibisce se stesso, ma grazie al nostro sguardo, può far emergere un senso al di là di quello che le viene attribuito. 

Zoja le sceglie per sé e per il lettore, affinché questi, per quanto possibile, prenda la misura del capovolgimento di attitudine che tali immagini esigono. “Perché le immagini ci tocchino veramente, bisogna che non siano più quella rassicurante farmacia che la bellezza falsamente promette. Perché le immagini ci divorino, bisogna che noi le guardiamo come guarderemmo uno sciame di mosche che si avvicina: un ronzio visivo che circonda la nostra stessa vocazione a decomporci”, ricorda Georges Didi-Huberman. Scomporre un’immagine, significa anche scomporre il nostro sguardo e le nostre certezze.

Ecco che i libri di Mangano e di Zoja, con diversi strumenti insegnano a considerare un’immagine come un campo di forze, di tensioni, di frammenti, di sguardi, con cui entrare in relazione, con cui trovare, se vogliamo, anche il nostro posto nel mondo.

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Dario Mangano, Luigi Zoja
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I contadini dell’Etna

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La Montagna, l’Etna, è un vulcano buono, ma Bernard Berenson non poteva saperlo. Una decina di turisti furono ammazzati da un pezzetto di lava rovente grande come un tramvai articolato (lapillo!). E neppure questo poteva sapere Bernard Berenson, perché lui salì sull’Etna agli inizi del secolo, e i turisti hanno perso la vita alla fine del secolo, sempre il XX.

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Effimero invisibile

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Nel Deep Web gli annunci di vendita di droga, armi, documenti falsi e altre merci illegali, sono accompagnati da foto pensate per essere totalmente anonime, effimere, eliminabili dopo un breve periodo, scattate da telefoni cellulari. Queste immagini rispondono a un’estetica che si dilata da registri pubblicitari fino a virate surreali, con foto realizzate sia a livello professionale sia con evidenti errori e trascuratezze, dove spiccano i flash sulle buste di plastica e figure di tutto quello che c'è in vendita sulla darknet, scatti con riflessi sui televisori o sui monitor.

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La vecchia casa della noce

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Sono trascorsi 30 anni da quel giorno di novembre in cui Leonardo Sciascia ci ha lasciati, trent'anni in cui il paese, che lui ha così bene descritto, è profondamente cambiato, eppure nel profondo è sempre lo stesso: conformismo, mafie, divisione tra Nord e Sud, arroganza del potere, l'eterno fascismo italiano. Possibile? Per ricordare Sciascia abbiamo pensato di farlo raccontare da uno dei suoi amici, il fotografo Ferdinando Scianna, con le sue immagini e le sue parole, e di rivisitare i suoi libri con l'aiuto dei collaboratori di doppiozero, libri che continuano a essere letti, che tuttavia ancora molti non conoscono, libri che raccontano il nostro paese e la sua storia. Una scoperta per chi non li ha ancora letti e una riscoperta e un suggerimento a rileggerli per chi lo ha già fatto. La letteratura come fonte di conoscenza del mondo intorno a noi e di noi stessi. De te fabula narratur.

 

La prima volta che ho incontrato Leonardo Sciascia non ho fatto fotografie. Non riesco ancora a darmene una ragione. 

Era il 16 di agosto del 1963. Avevo da poco compiuto vent’anni. 

Avevo cominciato da circa tre anni a fotografare abbastanza sistematicamente le feste religiose siciliane. Qualche mese prima con il primo nucleo di quelle immagini, già abbastanza cospicuo, avevo fatto una mostra, la mia prima mostra, al circolo di cultura di Bagheria, il mio paese. Stampe che avevo fatto io stesso, nel piccolo bagno di una casa di campagna, attaccate con puntine da disegno su sacchi di juta ai muri.

Accadde che un mio amico, Vincenzo D’alessandro, assistente di Storia medievale all’Università di Palermo, di Bagheria anche lui, conoscesse bene Sciascia. Leonardo in quel periodo veniva spesso a Palermo per consultare negli archivi documenti relativi alla storia che stava scrivendo, quella di Fra Diego La Matina, eretico racalmutese, uomo di tenace concetto, lo definì, che durante un interrogatorio aveva ucciso con le sue stesse catene l’inquisitore che lo interrogava. Una storia che da lì a poco sarebbe diventata Morte dell’Inquisitore.

 

Vennero a pranzo a Bagheria dove c’erano un paio di ristoranti rinomati. All’uscita dal ristorante il mio amico propose a Sciascia di visitare la mia mostra. Un ragazzo che mi sembra faccia delle buone foto. Andarono, io non c’ero, e Leonardo mi lasciò un biglietto di gentile apprezzamento.

Non sapevo nulla di Sciascia. In realtà non sapevo nulla di nulla. Avevo forse letto Il giorno della civetta, ma dubito che ne avessi compreso la portata. Sciascia era già uno scrittore molto apprezzato e il mio amico mi riferì con orgoglio del suo entusiasmo per le mie fotografie.

Fu così che qualche mese dopo, di ritorno da Butera, dove ero andato a fotografare una festa, decisi di passare da Racalmuto per cercare di incontrarlo.

 

Arrivai a Racalmuto in un mezzogiorno di scirocco micidiale e cominciai a domandare alle poche persone che sfidavano la canicola dove potessi trovare Leonardo Sciascia.

Nanà?, mi rispondevano, a la Nuci. Una contrada non lontana dal paese dove Leonardo trascorreva le estati e dove andava a scrivere i suoi libri.

Non fu facile trovare, persa tra i mandorleti, la vecchia casa di campagna. Arrivammo verso l’una, non proprio un’ora decente per piombare a casa di qualcuno.

C’erano due donne anziane che stavano infornando il pane nel piccolo forno che si trovava davanti allo spiazzo prospiciente la casa. Erano le zie. Chiesi di Leonardo, lo chiamarono, e lui spuntò sull’uscio di casa. Mi presentai e mi scusai per l’ora. Ah!, il giovane fotografo di Bagheria. Prego, accomodatevi. Volete un po’ d’acqua?, con questo caldo!

Non avrei poi mai visto arrivare nessuno a casa di Sciascia senza che immediatamente lui non gli chiedesse subito se avesse sete o fame.

 

Proprio in quel momento arrivò un contadino che portava un mulo carico di orci pieni d’acqua e sul quale stava felice in sella il nipote di Leonardo. La moglie e le figlie non c’erano. C’era invece Mila, la nipote, che aveva più o meno la mia età.

Io ero completamente imbambolato, sopraffatto dal fascino di quel luogo più che semplice, poverissimo, senza acqua né elettricità, bruciato di sole, sonoro di cicale, senza alberi “da ombra”, qualche ulivo, qualche mandorlo, fichidindia, e dalla miracolosa coerenza tra quello che vedevo e quell’uomo, carismatico nella sua semplicità, cordiale, caloroso. Come se di colpo tutto mi apparisse già consegnato alla trasfigurazione perfetta del ricordo, della letteratura.

Quell’incontro, le cose che mi disse, cambiarono la mia vita.

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Sciascia Trenta
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Soggetto nomade

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La mostra “Soggetto nomade”, composta da più di cento immagini, a cura di Cristiana Perrella e Elena Magini inizia proprio nel momento in cui si intuisce che ogni immagine è un luogo di sosta temporanea e per questo ogni immagine deve essere liberata dalla sua natura sedentaria. Rosi Braidotti, a cui si sono ispirate le curatrici, essa stessa nomade e poliglotta, nell’introduzione alla sua raccolta di saggi intitolata proprio Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità (Donzelli, 1995) riassume così l’essenza del suo lavoro: “in esso si susseguono una serie di traduzioni, spostamenti, adattamenti a condizioni in continuo mutamento. Per dirla in altri termini, quel nomadismo che sostengo come opzione teorica si rivela essere anche una condizione esistenziale”. E inoltre: “il soggetto nomade è un mito, un’invenzione politica e mi consente di riflettere a fondo spaziando attraverso le categorie e i livelli di esperienza dominanti: di rendere indefiniti i confini senza bruciare i ponti”. 

 

Proprio questo accade mentre si guardano le immagini: pensiero ed esistenza si confondono, anzi l’esistenza e l’esperienza coincidono con il pensiero. Tutto è in movimento. Lungo il tunnel bianco e luminoso del Centro Pecci di Prato, come in una macchina del tempo, si percorre un cammino circolare, che si snoda tra il 1965 e il 1985. Le cinque fotografe sono: Lisetta Carmi, Elisabetta Catalano, Paola Agosti, Letizia Battaglia e Marialba Russo. Le loro fotografie, tuttavia, non si limitano a restituire modi di essere di una soggettività femminile colta in un momento di profonda partecipazione, a testimoniare conquiste civili epocali, dovute principalmente alle donne, in un periodo di grande cambiamento. Ciò che davvero fanno è qualcosa di più radicale. I loro spazi incerti sono i luoghi della possibilità. Le immagini non sono solo testimonianze del proprio tempo ma proiettano, “nomadicamente” l’istante immutabile della fotografia, il “qui e ora”, in un futuro da immaginare. Per questo ciò che si vede nelle immagini è instabile, un frammento di tempo in divenire. Se tutto si muove, nulla è identico a se stesso: la possibilità del cambiamento viene suggerita grazie alla forza nomadica dei soggetti che le fotografe decidono di rappresentare. Lo sguardo vacilla, si muove, dubita insieme a ciò che vede. Non potrebbe che essere altrimenti. Ogni fotografa lo rammenta in modo diverso. 

 

Letizia Battaglia, La bambina con il pallone, quartiere la Cala, Palermo, 1980.


Le bambine fotografate da Letizia Battaglia, nei quartieri degradati di Palermo, simboleggiano la bellezza che si oppone all’emarginazione. Nomadismo qui è fragilità, candore, innocenza. Dopo aver visto le più efferate stragi di mafia, e avere al suo attivo “un archivio che gronda sangue”, le bambine rappresentano la speranza nel futuro. Una donna che ha visto tanta morte si commuove dinnanzi alla possibilità che le ragazzine rappresentano: “ho capito che in queste bambine cerco qualcosa che si è spezzato in me a quell’età”, “tremavo di fronte a queste bambine”, racconta nell’intervista che si può vedere accanto alle immagini in mostra. Qui il nomadismo è il tremore dello sguardo. È incertezza. Ma anche speranza in un futuro diverso e migliore da costruire, desiderio di sconfinare. Lo sguardo nomade deve immergersi in ciò che è instabile, errare, perdersi, vagare, e poi andare avanti. Le immagini sono i vettori, le frecce che suggeriscono connessioni temporanee. La mappa di chi guarda è un vuoto dove i percorsi connettono diverse esperienze. Il soggetto nomade incarna lo spazio del possibile, un istante in cui vi è assenza di limiti. Le bambine di Letizia Battaglia sono dentro questo spazio mentale. La loro essenza è una promessa di mobilità e cambiamento.

 

Lisetta Carmi, I Travestiti, 1965, fotografia, stampa originale a gelatina d'argento / photograph, original gelatin silver print, 18 x 24 cm, © Lisetta Carmi, Courtesy Galleria Martini & Ronchetti.


Così come accade ai “travestiti” che Lisetta Carmi inizia a fotografare nel 1965, durante una festa di capodanno nei vicoli del centro storico di Genova, la sua città natale. Nei successivi sei anni diventa loro amica e, vivendo con loro, li fotografa. Il libro I travestiti a cura di Sergio Donnabella, con testi di Lisetta Carmi e di Elvio Fachinelli, viene pubblicato nel 1972. Come era già successo a Letizia Battaglia, quel mondo le offre lo spunto per riflettere su se stessa. Il primo atto di nomadismo è spostarsi in un mondo diverso dal suo. “Io stessa a quel tempo ero assillata – forse a livello inconscio – da problemi di identificazione maschile o femminile. Oggi capisco che non si trattava tanto di accettazione di uno “stato” quanto di rifiuto di un “ruolo”. E i travestiti (o meglio il mio rapporto con i travestiti) mi hanno aiutato ad accettarmi per quello che sono: una persona che vive senza un ruolo. Osservarli mi ha fatto capire che tutto ciò che è maschile può anche essere femminile, e viceversa”, racconta nell’introduzione alla ristampa del libro in occasione della mostra a Roma, “La bellezza della verità”, curata dal suo gallerista Giovanni Battista Martini. L’identità è fluida. Qui il soggetto e lo sguardo del nomade coincidono con l’estasi, intesa come un viaggio fuori da sé, che permette di oltrepassare i limiti della soggettività. La condizione del nomade è la condizione in cui ognuno si trova a vivere e a guardare. Potrebbe essere davvero un’estasi condivisa dal creatore e dal fruitore. Poiché se l’identità crea unione, stabilità e riconoscimento, genera altresì chiusura, limitazione, arroccamento su ciò che si considera sempre “identico”. 

Una condizione e uno sguardo nomade si aprono invece alla relazione, al tempo, a qualcosa che “somiglia” e nello stesso tempo si spinge oltre un’originaria indivisibilità e singolarità. Essere perennemente identici a se stessi non consente di pensare le trasformazioni, il futuro, il cambiamento. L’immagine qui è una porta che apre e si apre a qualcosa che conduce altrove. E questo altrove è ciò che dobbiamo assumere. 

 

Elisabetta Catalano, Laura Antonelli sullo sfondo “The End” opera di Fabio Mauri, anni ‘70, vintage print, Photo © Elisabetta Catalano, Courtesy Archivio Elisabetta Catalano.


Proprio ciò che si vede nelle immagini di Elisabetta Catalano. Scena e vita si confondono. Il confine è labile. L'esordio come fotografa avviene sul set del film  di Fellini, in cui ricopre anche un ruolo da attrice. Le immagini in mostra raffigurano alcune famose star colte nel momento in cui sembrano più vulnerabili e distanti dal cliché della diva o della femme fatale. Elisabetta Catalano afferma che attraverso le sue immagini cerca di “farle assomigliare a loro stesse”, Charlotte Rampling, Monica Vitti o Laura Antonelli; così, nelle loro foto, si intravede un volto nuovo, “il momento di maggiore interiorità, senza difese di fronte all’obiettivo”. Svelare e nascondere reggono i capi del filo lungo il quale, sospese, si muovono le immagini della Catalano. I volti e i corpi prendono possesso dello spazio, sono una sorta di doppio, immagini aperte a un divenire tra ciò che si vorrebbe, o che si è abituati a vedere, e qualcosa che ancora sfugge all’identificazione. Laura Antonelli, sullo sfondo di “The End”, opera di Fabio Mauri, è irriconoscibile e per certi aspetti si prende gioco della sua stessa icona: non c’è nessuna casalinga sexy che sale su una scala mentre pulisce casa. Il soggetto nomade in queste immagini si muove in uno spazio diverso e sconosciuto. Nulla è come appare. I volti delle attrici di Elisabetta Catalano traducono visivamente le relazioni che intercorrono fra ciò che si è, e fra ciò che, invece, è altro da come si è o ci si sente di essere. 

 

Marialba Russo, Travestimento, 34 stampe ai sali d'argento, 24x30 cm, 1975-1980.


Marialba Russo compie una operazione simile, ma più esplicita. I volti dei soggetti ritratti non sono definibili: uomini, donne, o altro ancora? È questo elemento di incertezza che seduce chi guarda. Si tratta di un dialogo che scatta immediato, un’empatia fulminea. Il trucco, gli abiti, le espressioni, hanno nello stesso tempo qualcosa di eccessivo e di assolutamente ordinario. Si ha l’immediata percezione che quei volti non potrebbero essere altro da come li vediamo nelle fotografie. Si potrebbe quasi dire che coincidono con loro stessi, nello scarto di uno spazio che appare incongruo, ma per un motivo ancora oscuro, stranamente coerente. Dunque a chi appartengono? A uomini che per un giorno, a Carnevale, si travestono da donne. Marialba Russo li fotografa tra il 1975 e il 1980 nelle province di Avellino, Benevento, Napoli e Salerno. E poi pubblica un libro intitolato Travestimento. I loro volti sono tutti lì, trentaquattro identità nomadi. Nomadismo qui è ciò che viene stravolto, perché l’apparente, per un solo momento, rende accessibile il lato nascosto. La fotografa lo racconta: “improvvisamente ho notato queste persone che si travestivano per un giorno. È una ricerca basata sulla rappresentazione del Carnevale, e nel Carnevale coesistono tutti gli stravolgimenti possibili. Mi ha colpito la sensazione che ricevevo nel vedere questi uomini travestiti da donna, che impercettibilmente assumevano una condizione femminile, diventano donne nel vero senso della parola, nel linguaggio, nelle maniere. Io, nella serie ho cercato di rendere visibile questa impercettibilità”, che si espande nella foto e diventa una rivoluzione radicale ma temporanea, come a Carnevale. Per questo lo sguardo nomade è anche lo spazio della trasgressione. Fotografare significa aprire a uno spazio nuovo, dissacrare. I volti nelle fotografie sono usciti per sempre dal silenzio, come le donne di Paola Agosti.

 

Il titolo di un suo famoso libro Riprendiamoci la vita. Immagini del movimento delle donne del 1976, è utile come guida per sconfinare, prendere un sentiero dove le battaglie delle femministe diventano quelle per un’intera collettività. Le donne non si limitano a stare in casa. “Feci la conoscenza di una certa Italia non sempre dichiaratamente femminista, ma fatta di donne che avevano lavorato in risaia, fatto la Resistenza, che erano entrate per prime a lavorare nelle grandi fabbriche del Nord: tutta un’umanità al femminile straordinaria”, racconta la fotografa. Le immagini testimoniano allo stesso tempo l’attraversamento e la descrizione dello spazio attraversato. Lo spazio è quello delle lotte, l’oggetto delle rivendicazioni è ciò che attraversa il tempo e giunge sino noi. Le donne manifestano in cortei, sono ritratte mentre lavorano nei consultori e costruiscono spazi di aggregazione. Alla base di queste rivendicazioni vi è spesso un desiderio di mutamento esistenziale inteso come passaggio attraverso una forma di azione che si esprime mediante una ribellione al conformismo, alle leggi, allo Stato. 

 

Tutto deve ribollire, espandersi, evolversi. I confini vanno trasformati in linee mobili da intrecciare e aggrovigliare. La circolarità suggerita dal percorso espositivo, offre la possibilità di percepire un deambulare morbido e mobile, dove nulla si contrappone a nulla, ma dialoga costantemente, al di là delle linee temporali. Tant’è che il volto di Charlotte Rampling può essere accostato a quello della “Gilda”, uno dei travestiti di Lisetta Carmi, mentre le bambine di Letizia Battaglia, potrebbero essere le figlie delle femministe di Paola Agosti. O i maschi precari di Marialba Russo si accosterebbero con piacere al corpo e al volto di Silvana Mangano ritratta in forma androgina da Elisabetta Catalano. Ognuna di loro è nomade in sé e per sé. Nomadismo è abbandono di un’identità chiusa, a favore di un coacervo di istanti, volti, momenti, maschere che ognuno di noi si porta con sé. Guardare soggetti nomadi con uno sguardo nomade schiude nuovi spazi, dove la conoscenza diviene percorso esistenziale. Anche la fotografia è nomade. Le immagini si aprono e si richiudono su di noi nella misura in cui suscitano un’esperienza interiore, che presuppone una loro comprensione e un movimento che mette in relazione dei corpi con altri corpi. Non è più possibile separare l’immagine come oggetto e l’immagine come operazione del soggetto. 

Se filosofi e scrittori definiscono la società come uno spazio liquido o gassoso, osservare il nomadismo dell’identità significa osservare e comprendere il nomadismo dello sguardo, spogliarlo del conformismo e della superficialità, tornare alle origini dei fenomeni. La fotografia è vita, diceva Letizia Battaglia, e ogni vita può diventare la vita di ognuno di noi. Forse è questo che vuol dire essere soggetti nomadi.

 

Mostra: Soggetto Nomade. Identità femminile attraverso gli scatti di cinque fotografe italiane. 1965-1985

Centro Pecci Prato, 14/12/2018 – 08/03/2019

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Femminismo e crisi della modernità
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Inventario di frammenti

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Per Alberto Sinigaglia (1984) la costruzione di un progetto è come un’indagine, che continua a evolvere per costruire un linguaggio visivo, al contempo personale e universale, per dare forma a pensieri e a riflessioni specifiche, e per fare luce su alcuni meccanismi ancora non rivelati. La fotografia è il suo mezzo privilegiato di comunicazione, il modo di affrontare e analizzare la realtà. I progetti, sebbene riguardino temi diversi, sono legati da concetti ricorrenti e da processi di esplorazione allargati: invitano lo spettatore in uno spazio di speculazione, dove sono disseminati indizi, tracce, intuizioni, che supportino ipotesi e ulteriori narrazioni e letture. Sinigaglia è da considerare un inventore di frammenti, i quali vengono utilizzati per mettere in discussione la nostra conoscenza visiva del mondo. 

 

Big Sky Hunting (2013) è un viaggio ad ampio raggio, dove l’intangibile, la finzione, le contraddizioni e la reinterpretazione del veduto vengono messi in gioco per esplorare territori che vanno oltre le rappresentazioni descrittive e per analizzare la nostra percezione del cosmo e le connessioni indotte. Attraverso la raccolta di vecchi documenti fotografici e testuali, utilizzati dagli scienziati per creare immagini dell'universo, e materiale fotografico danneggiato o inutilizzabile, Sinigaglia conferma e supera i limiti di una descrizione legata alla realtà, rivela la natura artificiale di tali immagini, e al contempo riflette sul ruolo del mezzo fotografico e sui limiti della nostra capacità di vedere attraverso la sua mediazione. 

 

Alberto Sinigaglia, Big Sky Hunting, Fragment 2, 2013.


La serie Big Sky Huntingè stata ispirata da un ritrovamento in un sito, ovvero da una scatola piena di lastre di vetro astronomico originale, documenti, frammenti di stampe, materiali degli anni Settanta e Ottanta, e da altri oggetti acquistati dall’artista sul web, il più importante dei quali è un libro di John Ellard Gore, intitolato Il paesaggio del cielo (1892), un resoconto popolare delle meraviglie astronomiche.

Le immagini dello spazio esterno rientrano totalmente nella superficie e nel perimetro delle foto tradizionali o c’è qualcos’altro che va al di là delle approssimazioni dell'aspetto di ciò che ci pare di vedere?

 

Alberto Sinigaglia, Big Sky Hunting, The scenery of heavens, 2013.


Che rapporto hanno le immagini con le elaborazioni visive di onde elettromagnetiche catturate da macchinari scientifici avanzati o figurati nella coscienza delle persone? Come rappresentiamo l'universo è solo un'approssimazione di ciò che è in realtà la complessità dell'universo? 

Per cercare di avvicinarsi alle domande senza ancora risposte, Sinigaglia utilizza la sequenza chiamata "Paper I-II-III" (documenti che mostrano numeri scritti a mano allineati in forma quadrata), considerandola come un’immagine che allude a un momento prima della manipolazione, in un tempo in cui la maggior parte delle immagini digitali che siamo abituati a vedere sono basate sull'elaborazione di numeri. 

Nella ricognizione sulla metafotografia italiana abbiamo posto alcune domande anche a Sinigaglia per addentrarci ulteriormente nelle questioni aperte che abbiamo introdotto nelle interviste precedenti: 

 

Alberto Sinigaglia, Big Sky Hunting, Paper, 2013.


Joan Fontcuberta, nel suo ultimo libro La furia delle immagini, parla di postfotografia nell’era della “seconda rivoluzione digitale”, ovvero della fotografia in rapporto con la complessa macchina che agisce, produce, mastica e tritura immagini continuamente, oltre attraverso la realtà e i media anche passando per i social network, internet, la telefonia, il virtuale e altro ancora. Dice che le immagini fotografiche “non funzionano più nel modo in cui siamo abituati”, e che quindi le dobbiamo riconsiderare. Tu come le riconsideri?

 

Credo che i miei lavori siano di per sé un tentativo di riconsiderare il modo in cui le immagini lavorano.

In Big Sky Hunting ho preso in esame il modo in cui funziona la fotografia come strumento di esplorazione dello spazio astronomico e come l’immaginario prodotto sconti l’obsolescenza e il processo di erosione congenito nella tecnologia stessa, che produce le immagini. Sempre restando nell’ambito del tecnologico sublime, in Microwave City ho preso un’icona potente e riconoscibile come l’esplosione atomica e attraverso la manipolazione digitale l’ho mimetizzata nel tentativo di riflettere sul potere mistificatore e surreale del medium fotografico.

 

Alberto Sinigaglia, Microwave City, Teatpotcloud, 2017, Fondazione Fabbri.


Ci parleresti del tuo progetto legato ai test delle bombe atomiche che avvenivano nel deserto a poche miglia dalle terrazze degli hotel di Las Vegas? Lavorando sul materiale iconografico riguardante l’invenzione e lo sviluppo della bomba atomica contenuto nell’archivio immagini dei laboratori scientifici di Los Alamos, quale è stata la tua operazione concettuale e la tua traduzione in opera di queste fotografie provenienti dall’archivio?

Microwave City nasce da un viaggio nel West Americano, tra New Mexico, Arizona e Nevada, e il titolo fa riferimento a una trasmissione radio ascoltata mentre ero alla ricerca dei laghi di uranio e delle distese di cemento che coprono le aree di lavorazione dell’uranio, ora in disuso. Si trattava di una radio ultracattolica e il predicatore stava definendo Las Vegas come una Microwaved City, una città effimera dove tutto viene velocemente voluto-ottenuto-consumato, un luogo che per sua stessa natura è basato sulla messa in scena e sull’esasperazione, un luogo dove non è possibile fare una netta distinzione tra reale e artificio. Las Vegas ha inoltre un profondo legame con il Manhattan Project, sia per prossimità geografica alle aree di test ma anche come luogo: una città simbolo dell’America, nata nell’immediato dopoguerra, dopo il conflitto mondiale conclusosi con le immagini delle esplosioni atomiche negli occhi, anch’esso un artificio, come la bomba, nato tra le sabbie del deserto. Il progetto è diviso in due capitoli principali: quello delle nuvole, di cui parleremo poi e quello degli still life.

 

Alberto Sinigaglia, Microwave City, Dominick Arkansas cloud, 2017, Fondazione Fabbri, Museo Fattori.

 

Alberto Sinigaglia, Microwave City, Microwave City, 2014.


Questi ultimi descrivono una serie di oggetti, fotografati in modo molto dettagliato e pulito, che funzionano come dei souvenirs venduti in uno store online; alcuni, strumenti di visione-misuratori-ephemera, si innescano in relazione ad altre immagini, altri sono memorabilia, che celano delle storie/leggende dietro la loro fredda estetica: le corna di cervo per esempio provengono dal Seneca Depot, un’area controllata dall’esercito, dove dagli anni ‘50 sono state sepolte scorie radioattive e che oggi è la più grande riserva di cervi albini al mondo. Oppure il monolite di grafite, che pare provenga dal deposito di materiale che Enrico Fermi utilizzò per costruire la Chicago Pile (1942), il primo reattore a fissione nucleare. Un terzo passaggio di Microwave City lavora sempre sull’archivio dei Los Alamos Labs e su un archivio da me costruito durante la visita a Las Vegas. Da una parte ci sono le immagini dei bunker e delle architetture che venivano costruite per osservare la bomba, dall’altra dei messaggi testuali che provengono da materiali pornografici che si trovano a ogni angolo della città. A livello installativo entrambi questi elementi vengono collocati in lightboxes, la cui luce nel mio intento dovrebbe dare una seconda vita e una seconda lettura alle immagini di archivio, e allo stesso tempo richiamare le luci al neon di Las Vegas.

 

Alberto Sinigaglia, Big Sky Hunting, Alien the crysalis, 2013.


È interessante la tua indagine sulla trasformazione di eventi drammatici in souvenir. Cosa si cela veramente nelle morbide e misteriose nuvole sospese nel cielo degli esperimenti nucleari?

Durante gli anni ‘50 e ‘60 una delle attrazioni di Las Vegas era la possibilità di osservare dalle terrazze degli hotels i test delle bombe, che avvenivano a un centinaio di miglia di distanza, in quella zona che conosciamo come Area 51. I turisti erano soliti fotografare queste drammatiche scene trasformandole in cartoline, in souvenir delle loro vacanze, come si trattasse di un incantevole tramonto, una calamita da attaccare al frigo. Durante lo studio dell’archivio sono rimasto colpito dalla controversa bellezza delle esplosioni e agendo su di esse allo stesso modo dei turisti me ne sono appropriato e le ho manipolate fino a produrre innocue, morbide e misteriose nuvole sospese nel cielo. La bomba è lì, ma camuffata. Il fruitore può percepirne la presenza, ma è mimetizzata, nascosta dal potere mistificatore della fotografia.

 

Ci interessa indagare ulteriormente il tuo sguardo, che considera la fotografia come un deposito di valori sociali e culturali in un mondo saturato dalle immagini. Cosa intendi muovere e spostare con le tue immagini fotografiche?

Cerco di spostare l’attenzione di chi guarda. Penso ai miei lavori come a un inventario di frammenti, che mette in discussione la nostra percezione e consapevolezza visiva del mondo. Facendo affidamento sul nostro desiderio di verità e poesia, cerco di invitare il fruitore in uno spazio di speculazione, in cui l’immagine viene messa in discussione.

 

Alberto Sinigaglia, Microwave City, Actual photo, 2017.


Ci puoi parlare della tua indagine sul rapporto tra realtà e finzione, tra ricerca delle fonti e spostamento creativo, tra documento e creazione?

Tutti noi viviamo in sistema di memorie e di tracce che ci aiutano a leggere il presente. Queste memorie e tracce nel tempo vengono alterate, modificate, sovrascritte, rendendo la nostra lettura-visione meno chiara, meno netto il confine tra reale e finzione. Entrambi i miei lavori (Big Sky Hunting,Microwave City) vanno a indagare l’iconografia relativa a memorie di eventi ben precisi della storia, lavorando appunto sulle zone d’ombra, sulle possibili riletture in una chiave presente.

 

Cosa pensi della tendenza che negli ultimi tempi si è venuta a creare attorno all’utilizzo dell’archivio?

L’archivio risponde a un’esigenza di orientarsi in un eccesso di conoscenza tale da lasciarci disorientati.

Siamo tutti accumulatori compulsivi, che continuano a immagazzinare dati su schede di memoria, incapaci di selezionare, di prendersi il tempo di capire cosa valga la pena ricordare e cosa dimenticare. Tutti noi produciamo archivi, inventari, cataloghi, liste nel tentativo di mettere ordine tra questi frammenti. L’archivio come dispositivo per produrre una memoria collettiva che però non è cristallizzata ma aperta a sovrascritture, a interpretazioni e seconde letture, ed è qui che noi artisti interveniamo: “Gli archivi conservano tuttora un grande fascino e una loro autenticità perché hanno lo straordinario potere di parlare a persone temporalmente, geograficamente e anche culturalmente lontane da chi li ha creati ed organizzati, pur portando ancora con sé i propositi e le visioni e i codici originari” (Cristina Baldacci, Archivi Impossibili, Johan&Levi Editore, 2016).

 

Alberto Sinigaglia, Microwave City, Monolith, 2017.


La tua metafotografia appartiene a una modalità rivolta a un processo di consapevolezza ulteriore, per analizzare più a fondo ciò che vediamo, come lo vediamo, come le immagini influenzano le emozioni e come contribuiscono alla comprensione delle cose che accadono o che accadranno?

Il mio approccio in parte ha abbandonato il “programma” della fotografia di rappresentare il reale, concentrandosi su come l’informazione e l’apparato (archivio/manipolazione digitale) contribuiscano oggi a generare le immagini, investigando la natura delle immagini stesse: "I fotografi sperimentali sono consapevoli del fatto che l'immagine, l'apparato, il programma e le informazioni costituiscono i loro problemi di base. Sono consapevoli che stanno cercando di recuperare quelle situazioni dall'apparecchio, e inseriscono nell'immagine qualcosa che non era inscritto nel programma dell'apparecchio" (Vilém Flusser, Towards a Philosophy of Photography, 1984).

 

Non reggono più i rapporti della fotografia con la verità e con la memoria che davamo per scontati, e nemmeno regge l’aura di realismo che continuiamo ad attribuire alla fotografia. In più si sono aggiunte le questioni della manipolazione e della virtualità. Inoltre, è necessario analizzare le funzioni, gli usi, i ruoli sociali, i contesti culturali e politici. Quali sono i nuovi ambiti di creazione che senti vicini alla tua ricerca?

Quello che più mi interessa continuare a indagare è il rapporto tra scienza e immagine, tra tecnologia e fotografia. Il secolo americano ha influenzato culturalmente la nostra generazione più di quanto ci piaccia pensare, e l’America come nazione ha costruito la sua identità sul progresso tecnologico, sul sublime tecnologico. Le missioni Apollo e le esplorazioni spaziali, piuttosto che la bomba atomica, sono parte fondante di questo lascito culturale, esattamente come le guerre del ‘900 e quelle più recenti. Internet è un’invenzione militare tanto quanto il microonde, la night view, i droni; tutti soggetti che sono entrati a far parte della nostra vita e hanno cambiato la nostra percezione della realtà, e di conseguenza il nostro modo di rappresentarla. È questo ciò che più mi interessa e affascina, e l’ambito che continuerò a indagare.

 

Alberto Sinigaglia, Microwave City, Scenicus, 2016.


Attraverso le tue riflessioni e le tue opere, cosa fai emergere a proposito del rapporto tra immagine e immaginario collettivo?

Spero le distorsioni.

 

Negli anni più recenti molti artisti hanno messo in discussione il mezzo della fotografia tradizionale (con scanner, scansioni, distorsioni dell’immagine, telecamere di sorveglianza, irruzioni di altri medium, lasciando anche spazio alla presenza del caso) per andare oltre. In cosa consiste secondo te andare oltre il medium fotografico?

Credo che siamo arrivati a un punto di bulimia e di sazietà visiva. La maggior parte di noi registra continuamente la realtà attraverso i propri devices. Credo quindi sia venuta meno la posizione di dominio e possesso dell’autore, perché è venuta meno la consapevolezza che essa comporta.

Di qui la necessità di interrogare il medium stesso, metterlo in discussione per capirne i limiti e le potenzialità. Tutto questo risponde a una necessità, mia personale in primis, di mettere ordine nel caos/oblio generato da internet e dallo sviluppo tecnologico, di una maggiore attenzione dello sguardo, di concentrazione su cosa realmente si guarda. Ogni strumento è valido per lo scopo.

Nei miei primi lavori ho cercato di pormi delle domande sulla questione, affiancando immagini fotografiche tradizionali, uso dell’archivio, proiezioni ri-fotografate, manipolazione digitale. Per i prossimi progetti vorrei lavorare su una forma più installativa e tridimensionale.

 

Alberto Sinigaglia, Microwave City, Trinitite, 2017.


Faciliti l’irruzione del cortocircuito nelle tue opere?

Se per cortocircuito si intende il momento in cui casualità, programmazione, spontaneità e accumulo concorrono a formare un discorso visivo, è un momento fondamentale della mia ricerca. Funziona quasi come un interruttore di sincronicità, uno switcher, che apre una fase in cui tutti questi elementi autonomi si incastrano nella struttura del progetto.

 

Come organizzi lo spazio nel tuo sguardo prima di realizzare un’immagine fotografica?

Lo spazio del mio sguardo è completamente disorganizzato. Consiste in luoghi fisici, letture, luoghi mentali, apparizioni, indizi, tracce che emergono lungo un flusso costante di ricerca e che trovano poi diverse formalizzazioni.

 

Alberto Sinigaglia, Big Sky Hunting, Nerveless, 2013.


Per andare oltre quello che fino a ora la fotografia ha messo in azione, pensi che sia necessario sacrificare la fotografia tradizionale o andare contro la maggior parte dei suoi meccanismi e princìpi?

Una premessa: non mi sento un autore che lavora contro la fotografia o che ne spinge i limiti verso orizzonti sconosciuti. Fino a ora ho sempre cercato di trovare un equilibrio tra il lavorare contro e con la fotografia, cercando quell’interazione, il cortocircuito di cui abbiamo parlato prima, che le attiva e le fa lavorare insieme. Penso ai miei lavori come a un inventario di frammenti che mette in discussione la nostra conoscenza visuale del mondo; facendo affidamento sul nostro desiderio di verità e poesia, cerco di invitare il fruitore in uno spazio di speculazione.

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Thomas Struth. Nature & Politics

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Iniziamo dalla fine. L’ultima fotografia della mostra “Nature & Politics” di Thomas Struth al Mast di Bologna si intitola “Seestück, Donghae City”. Si vede il mare. Ci sono quasi tutti gli elementi primordiali entro cui ogni cosa può prendere forma: aria, terra, acqua. Le onde, le rocce, la schiuma portano il nostro sguardo verso la linea dell’orizzonte. Ci invitano ad andare altrove. Cosa rappresenta? Il futuro? O la linea che separa ciò che esiste da ciò che esisterà anche dopo l’uomo? È questa la “Nature” del titolo. Tutto il resto è “Politics”, ovvero ciò che la “polis” è diventata, l’ultimo elemento: fuoco e tecnica. 

Le foto mostrano macchine, dispositivi e installazioni di una tecnologia all’avanguardia. Thomas Struth si muove in mondi il cui accesso ci è solitamente precluso e ci mostra una serie di sperimentazioni scientifiche e interventi che in un momento imprecisato, nel presente o nel futuro, in modo diretto oppure mediato, faranno irruzione nella nostra vita. Le didascalie non sono d’aiuto. Le parole aggiungono mistero al mistero. Le definizioni non definiscono: Measuring, Stellarator Wendelstein, Tokamak Asdex Upgrade, Laser Lab o Grazing Incidence Spectrometer. Di fatto vediamo motori verdi fosforescenti che sembrano quasi immateriali, grovigli di cavi, meccanismi complessi e incomprensibili, laboratori scientifici dove regna un caos di fili e strumenti di misurazione e controllo. 

 

Thomas Struth Cappa chimica, Università di Edimburgo / Chemistry Fume Cabinet, The University of Edinburgh, 2010 C-print, 120,5 x 166,0 cm © Thomas Struth.


Thomas Struth Spettrometro a incidenza radente / Grazing Incidence Spectrometer, Max Planck IPP, Garching, 2010 C-print, 115,1 x 144,0 cm © Thomas Struth.


Fuoco e tecnica si diceva. Ed è ciò che avviene anche nell’immagine: anche qui tutto è a fuoco. L’inquadratura racchiude il contenuto della fotografia in un unico colpo d’occhio. Si percepisce che il fotografo, in piedi davanti ai propri soggetti, impone un ordine alla scena che ha di fronte, mostra il caos dandogli una struttura e impone quest’ordine scegliendo un punto d’osservazione, un’inquadratura, un momento per lo scatto. Vediamo tutto, ma non capiamo nulla. A cosa serve lo spettrometro a incidenza radente, l’albero bronchiale, o l’ondoscopio curvo? Se lentamente l’alterità di questi ingranaggi diminuisce, il nesso complessivo sfugge alla nostra comprensione. Mai come nelle immagini di Thomas Struth si ha l’impressione di essere sempre molto lontani da ciò che si sta guardando. La fotografia riflette l’impenetrabilità di ciò che mostra. 

 

Thomas Struth Golems Playground, Georgia Tech, Atlanta, 2013 C-print, 235,1 x 328,0 cm © Thomas Struth.


Il nostro occhio non prende possesso delle cose. Ciò che vediamo è caotico ma non disordinato, perché tutto sta nel posto preciso in cui deve stare. Eppure lo stile documentario dell’immagine, in perfetta sintonia con la chiarezza che evoca la presunta razionalità della scienza, non trasmette alcuna conoscenza. L’idea per cui il visibile deve essere leggibile e deve veicolare una verità che include un dovere estetico e un imperativo etico viene messa in discussione, proprio attraverso una chiarezza e una visione che escludono il senso di ciò che vediamo. Vedere non significa capire. Si può solo presumere, nel senso di supporre o, meglio, stare in bilico tra il ritenere ciò che è dinnanzi a noi e il desiderio di spingersi oltre l’immagine. Il limite di queste fotografie è anche il limite della nostra capacità di comprendere. Se il senso di “fotografia” è “scrittura della luce”, “words of light” annotava William Henry Fox Talbot su una delle copie del Pencil of Nature, cosa sta scrivendo Thomas Struth? Cosa diventano gli spazi del Mast che le espone: un deposito, una galleria d’arte, un santuario, un osservatorio? Cosa c’è in queste fotografie? 

 

Thomas Struth Modello in dimensioni reali / Full-scale Mock-up 2, JSC, Houston, 2017 Inkjet print, 208,1 x 148,6 cm © Thomas Struth.


Un tentativo di mostrare la relazione tra uomo e tecnica. Qui non vi è stupore, ammirazione, o glorificazione della macchina. Le immagini di Struth sono anch’esse macchine, a loro volta camere di compensazione dello sguardo. Tutto è sospeso: sguardo e giudizio. Il binomio “Nature & Politics” porterebbe a credere che esista un punto in cui il reale e l’immaginario, il visibile e l’invisibile, il passato e il futuro, l’ordine e il disordine cessano di essere percepiti come contraddittori. Le immagini di Struth sono complesse perché cercano di rappresentare un mondo complesso. Non spiegano ciò che mostrano ma cercano di mostrare la difficoltà di capire. La loro opacità è semplice perché la complessità è difficile da intendere. Qui anche le idee di semplice e complesso perdono i loro confini precisi. La superficie coincide con la profondità. Questa esposizione forzata, in cui tutto appare nel momento in cui si sottrae, sta forse suggerendo di plasmare una nuova topografia dello sguardo? Si devono spalancare gli occhi e non cessare di porsi i quesiti che inducono a capire ciò che ci sta davanti. 

Cos’è più complesso: l’uomo e la sua a-sincronia o la macchina simbolo di organizzazione ed efficienza, dove tutto è perfettamente sincronizzato? E se pensiamo alle immagini di Struth, il confronto è riassumibile in un altro quesito: cos’è più misterioso, il mare o il caos ordinato dei fili e dei meccanismi? Così facendo, lo sguardo interroga se stesso e la sua presunta egemonia. E tocca anche il noema della fotografia, l’idea che non abbandona mai nessuno spettatore: il presunto potere di testimonianza di un’immagine, ciò che è assolutamente innegabile: l’“è stato” (ça a été) di Roland Barthes. Qui è tutto dinnanzi a noi eppure non c’è nulla che si possa davvero dire che esista. 

 

Thomas Struth GRACE-Follow-On, veduta dal basso / GRACE-Follow-On Bottom View, IABG, Ottobrunn, 2017 Inkjet print, 139,7 x 219,4 cm © Thomas Struth.


Stavolta l’indice non indica che una forma di disorientamento in cui si è immersi. L’uomo si specchia dentro la sua opera e non riesce a riconoscersi. I fili delle macchine sono al tempo stesso un veicolo verso il futuro e retaggio di un passato che non ci abbandona, sono i serpenti dei capelli di Medusa che pietrificano i pensieri dello spettatore. Che la fotografia sia lo scudo di Perseo? Difficile da dire. Per il momento sembra metterci dinnanzi alla complessità di un problema e al modo di vedere-capire, anche se la scoperta di questa relazione complessa non comporta la risposta ai quesiti che vengono sollevati, quanto il “risveglio di un problema”, una presa di coscienza che non è solo intellettuale, ma anche estetica ed etica. Basta esserne consapevoli. 

Se con ogni utensile l’uomo perfeziona i suoi organi e sposta le frontiere della loro azione, se i motori gli mettono a disposizione forze gigantesche le quali, come i suoi muscoli, possono essere impiegate in qualsiasi direzione, con la macchina fotografica, diceva Sigmund Freud, ha creato uno strumento che fissa le impressioni fuggevoli della vista. Ma tutto questo non basta. La miglior fotografia di Struth non è quella in cui l’intenzione umana ha sconfitto il programma dell’apparecchio, quella cioè in cui il fotografo ha sottomesso l’apparecchio all’intenzione umana, come scriveva Vilém Flusser. E non rappresenta il momento in cui l’uomo domina e padroneggia a suo piacimento la macchina. Purtroppo non accade. 

 

Accanto al mare, a ciò che esiste, al suo essere eterno e sconfinato, e accanto alle rovine di un tempio greco, ovvero a ciò che sopravvive, le immagini di Struth, esposte al Mast consentono sia di intuire il potenziale estetico dei materiali più moderni, sia di comprendere che sono gli stessi materiali con cui la società dei consumi guasta il mondo in cui viviamo. Legate all’idea di un progresso che vorrebbe spingersi oltre il semplice esistere o il resistere al tempo, suggeriscono che l’ingegno dell’uomo, come le scienze e il progresso tecnologico lo hanno portato lontano, ma hanno impoverito la sua immaginazione. 

La scienza progredisce allo stesso ritmo dell’informazione violenta, dell’omologazione delle culture e dell’inquinamento ambientale, mentre l’economia rimane subalterna al puro calcolo monetario del profitto e l’efficienza del sistema è affidata a un apparato verticistico di burocrati che, come macchine obbedienti, si rifugiano all’ombra di un ruolo dentro cui arroccarsi. 

Davanti a un disegno così infernale cosa rimane del mistero della vita? Se l’immagine del mare suggerisce un mondo che continua oltre i suoi margini, cosa si cela dietro il groviglio di cavi che Struth ostinatamente insiste a fotografare? 

 

Mostra: Nature & Politics di Thomas Struth a cura di Urs Stahel

MAST, via Speranza 42, Bologna 

2 febbraio – 22 aprile 2019  

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Mast di Bologna
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Mapplethorpe. Classical form on unthinkable images

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Il 9 marzo del 1989 muore di AIDS Robert Mapplethorpe. Ha all’epoca quarantatré anni ed è uno dei fotografi più rappresentativi della scena artistica statunitense di cui incarna, tra gli anni Settanta e Ottanta, l’anima oltraggiosa, irriverente e contestataria. Le sue fotografie, caratterizzate da una cifra stilistica singolare, capace di unire lo scabroso e il glamour, sono, al di là dello splendore formale, un mezzo di riflessione su temi controversi come l’omosessualità, la pornografia e la sfera erotica in genere, la cui forza risiede – come annotava la scrittrice americana Joan Didion – nella forma classica applicata a immagini ‘impensabili’.   

 

Dopo un’infanzia e un’adolescenza formalmente integrata nei costumi di una famiglia cattolica della media borghesia di origine irlandese (i cui valori rientreranno, seppur stravolti, in alcuni aspetti della sua ricerca), Mapplethorpe si iscrive al Pratt Institute di Brooklyn e, negli anni delle rivolte studentesche e delle contestazioni, entra in contatto con la nascente cultura underground newyorchese, con i suoi fermenti politici, artistici e letterari, legandosi per alcuni anni a Patti Smith. È lei a regalargli la prima Polaroid e a segnare il suo ingresso nel mondo della fotografia, in seguito rafforzato da un altro fondamentale incontro: quello con Sam Wagstaff, collezionista d’arte e suo futuro compagno. Mapplethorpe passa a questo punto all’uso di una macchina Hasselblad di medio formato, creando con questo apparecchio alcuni dei suoi scatti più celebri. 

 

Self portrait, 1988.


Sono gli anni Settanta e, dopo aver usato le polaroid come materiali ‘onesti’ da inserire nei suoi collage, la macchina fotografica diventa per Mapplethorpe il mezzo estetico e di documentazione per eccellenza, lo strumento che più di tutti soddisfa e unisce la duplice esigenza morale di compiutezza estetica e di testimonianza. "Non mi piace la parola ‘scioccante’ – dichiarerà a proposito dei suoi scatti più controversi – Io sono alla ricerca dell’inaspettato … ero nella posizione per scattare quelle fotografie. Ho sentito un obbligo nei loro confronti”. 

E seguendo l’impegno all’onestà e alla perfezione formale, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta Mapplethorpe privilegia la fotografia in studio e sofisticatissime tecniche di stampa in bianco e nero al platino. I soggetti ricorrenti sono ritratti, nature morte, nudi, questi ultimi spesso nutriti dall’estetica feticista e sadomasochista di cui è esaltata la puntigliosità formale e teatrale, presto tradotta in un’attenzione squisita al corpo, maschile e femminile, trattato con uno sguardo allevato dalla classicità delle statue antiche e delle sculture di Michelangelo (Torso, 1988). Lo stesso filtro ‘classico’ – in cui convivono suggestioni dall’antico, ma anche dal rinascimento e dal barocco – è velocemente applicato dall’artista anche alle nature morte con un’insistenza studiata sulle superfici, siano epidermidi, foglie, petali, rocce, teschi o conchiglie, usando la luce per ottenere lo stesso effetto dei nudi, spesso ricoperti di pigmenti cromati per esaltare la loro qualità materica (Poppy, 1988). In tutti i casi, fin dagli esordi, la massima rilevanza è data a uno straordinario controllo formale, in cui ricorre l’ossessione per la simmetria, mentre i soggetti evocano temi capitali: il maschile e il femminile, la bellezza, la sensualità, la vita e la morte, l’ambiguità e la decadenza (Lisa Lyon, Joshua Tree, 1980; White Gauze, 1988). Quello di Mapplethorpe è insomma un gioco di equilibrio tra materia e spirito in cui sono presenti temi e allusioni ricorrenti: la relazione tra antico e contemporaneo, mito e realtà, scultura e pelle, estasi e spasimo. Un universo iconico che, a trent’anni dalla sua morte, non smette di affascinare.

 

Female torso, 1978.


Proprio in occasione di questa ricorrenza, alcuni musei dedicano all’artista importanti mostre. Due di queste, organizzate in collaborazione con la Robert Mapplethorpe Foundation di New York, si svolgono in Italia: una al Museo MADRE di Napoli (Robert Mapplethorpe. Coreografia per una mostra a cura di Laura Valente e Andrea Viliani dal 15 dicembre 2018 al 8 aprile 2019) e l’altra alla Galleria Corsini di Roma (Robert Mapplethorpe. L’obiettivo sensibile a cura di Flaminia Gennari Santori, dal 15 marzo al 30 giugno 2019).

La mostra al MADRE, con una coreografia espositiva pulita e simmetrica tra le due ali del terzo piano del Museo, è incentrata sulla profonda matrice performativa della pratica fotografica di Mapplethorpe, esaltata, oltre che dalla scelta delle immagini, soprattutto ritratti, nature morte e foto erotiche, da un programma di interventi site specific, realizzati da importanti coreografi che rileggono alcuni dei motivi principali della sua ricerca. L’insieme restituisce l’attenzione del fotografo alla scultura antica e rinascimentale e rivela, per alcune immagini, una certa assonanza alla cultura partenopea (è stata organizzata dal gallerista Lucio Amelio la prima mostra personale dell’artista a Napoli nel 1984). Molto suggestivi, ad esempio, gli incroci tra i prestiti del Museo Archeologico Nazionale di Napoli e alcuni scatti di Mapplethorpe che sono rivisitazioni contemporanee di un canone di bellezza fondato sulle proporzioni, le geometrie delle pose, l’incanto del disegno scultoreo-fotografico, come nello splendido nudo che ritrae la modella-culturista Lisa Lyon (1980) china a mostrare schiena, glutei e gambe, come fosse una venere acefala e priva di braccia o il sofisticato torso Dennis Speight (1983); o, ancora, le fotografie in cui il corpo che danza è protagonista assoluto (Philip, 1979).

 

Poppy, 1988.


La mostra di Roma mette invece in dialogo una scelta raffinatissima del lavoro del fotografo americano (alcune immagini sono piuttosto rare come il sorprendente Winter Landscape del 1979), con la quadreria settecentesca creata dal cardinale Neri (1685 – 1770) che abitò gli appartamenti di Palazzo Corsini dal 1738 alla morte, e con l’attività di Wagstaff, uno dei più influenti collezionisti al mondo di fotografia antica, che condivideva con Mapplethorpe, anch’egli appassionato collezionista, le sue scoperte. Le suggestioni derivate dall’incontro tra diverse epoche e interpretazioni del classico sono notevoli e inaspettate, eccone alcuni esempi: nella prima galleria Ken and Lydia and Tyler (1985) è una rielaborazione contemporanea dell’iconografia delle tre Grazie, nella quale il genere maschile e quello femminile si confondono, mentre l’attenzione formale alle gradazioni del colore della pelle alludono anche alla razza, tema importante per la cultura americana. Ancora, nella Sala Rossa, insieme a due splendide foto di interni, la bellissima Orchid and hand (1983) rivisita il tema della natura morta, mentre il ritratto Carol Overby del 1979, in cui è la luce naturale a caricare il volto e la posa della donna di espressività, rivela l’attenzione di Mapplethorpe alla fotografia di Nadar e di Julia Margaret Cameron, di cui Wagstaff era appunto un importante conoscitore e collezionista. Se a Napoli, vicino alle fotografie di Mapplethorpe troviamo, con le sculture antiche, i bronzi di Vincenzo Gemito e gli scatti di Wilhelm von Glöden, rivelatori anch’essi di sorprendenti analogie, a Roma scopriamo che gli stessi criteri di simmetria, euritmia e varietà compositiva che decidevano la disposizione dei dipinti della quadreria settecentesca, guidavano anche Mapplethorpe. 

 

Lisa Lyon Joshua Tree, 1980.


Attraversando le sale della Galleria Corsini siamo sollecitati a interrogarci sull’incontro della cultura settecentesca e tardo novecentesca, sul vedere e la memoria, accompagnati in questo tragitto da giochi di somiglianze, differenze e cortocircuiti storici e visivi tra le immagini in bianco e nero e i quadri antichi, i parati, i bronzetti, le consolle, con incursioni documentali di grande interesse come la cartolina della Canestra di frutta di Caravaggio inviata da Wagstaff a Mapplethorpe nel 1973 dove si legge tra l’altro: “Il modo in cui la luce dello sfondo coglie i margini delle cose è un’invenzione che non è stata ascoltata abbastanza. Eccotela!” 

Ebbene le opere di Mapplethorpe ci restituiscono, a Napoli come a Roma, l’attenzione del fotografo all’uso caravaggesco della luce, l’ossessione per la simmetria – forse ritrovata in prima istanza proprio nel motivo del crocifisso, di cui la foto Mapplethorpe’s Apartment(from House & Garden series), a cui si è ispirata Flaminia Gennari per l’allestimento della mostra, rivela anche un interesse da collezionista –, l’equilibrio tra la naturale finzione delle immagini e la loro dimensione “reale”, quasi oggettuale, e ancora: la bellezza e la decadenza. 

 

White gauze, 1984.


Soprattutto ciò che emerge guardando oggi le fotografie di Mapplethorpe, in un’epoca certo meno sensibile al loro lato “scandaloso”, comunque secondario, è la creazione di un classico contemporaneo, nutrito da una singolare coincidenza tra forma e intensità (dell’espressività, della geometria, della crudezza, della carica erotica, dei contrasti, della luce) accompagnata spesso non tanto da citazioni esplicite, quanto dal riemergere di ammalianti sommersi visivi, che finiscono con il catturarci inducendoci, come suggerisce la mostra organizzata dalle Gallerie Nazionali di Arte Antica nella sede della Galleria Corsini, a guardare alle forme liberamente, come un conoscitore del Settecento: alla ricerca di assonanze, euritmie, varietà e differenze che facciano di immagini e oggetti non i tasselli di un sistema cronologico, ma delle forme sensibili del bello. 

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A Napoli e Roma a trent’anni dalla morte
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Un tempo più denso. La fotografia di Franco Vimercati

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Il quadrante segna le 2:46. Le lancette di una grossa sveglia avanzano impercettibilmente da un’immagine all’altra, uno scatto ogni quattro secondi e mezzo circa. Un minuto di fotografia, una serie di tredici piccole fotografie in bianconero realizzata da Franco Vimercati nel 1974, condensa uno stile visivo e un’attitudine intellettuale che percorrono l’intera produzione dell’artista milanese, scomparso nel 2001 a 71 anni: pochi oggetti quotidiani, isolati da ogni interferenza esterna, inquadrature ravvicinate, uso di serie e permutazioni, grande austerità formale. Tutti tratti che insieme a un carattere schivo e a una scarna produzione hanno contribuito a rendere la sua figura una delle più enigmatiche e singolari della scena artistica italiana degli ultimi decenni.

 


Franco Vimercati, Un minuto di fotografia, 1974, Collezione privata © Eredi Franco Vimercati


La traiettoria creativa di Vimercati – ben condensata ora nella mostra Franco Vimercati, la fotografía, la vida.Un diálogo con Giorgio Morandi curata da Elio Grazioli all’Istituto italiano di cultura di Madrid (fino al 21 giugno) – ha coinciso con l’affermazione della fotografia come medium artistico, in particolare nelle pratiche dell’arte concettuale tra anni ’60 e ’70 del secolo scorso. In quel contesto la fotografia diviene uno strumento essenziale per scandagliare il rapporto tra rappresentazione e mondo visibile, per evidenziare caratteri, potenziali latenti, aporie di un mezzo cui l’analisi strutturale sottrae poco alla volta l’antica pretesa di trasparenza, restituendolo come snodo e mediatore fondamentale dell’immaginario e della stessa costruzione sociale contemporanea.

 

Ma che genere di “concettualità”, se tale è, pratica Vimercati? Per comprenderlo si può mettere a confronto il suo lavoro con quello del contemporaneo Ugo Mulas, in particolare con le sue presto canoniche Verifiche (1969-72, la serie apparve nel 1973 nel volume einaudiano La fotografia), in cui erano dissezionate le proprietà materiali ed estetiche dell’operazione fotografica. A contrasto con la lucida, sistematica determinazione di Mulas, con la sua volontà di “chiarire il proprio gioco”, come si legge nel testo che accompagna le Verifiche, per il Vimercati di Un minuto di fotografia e della sua produzione immediatamente posteriore – ad esempio le serie Bottiglie di acqua minerale (1975) e Tele (1976, in mostra a Madrid) –, l’impulso analitico si carica anche di una componente spuria, di un “tempo denso”, come lo chiama il critico e curatore spagnolo Javier Hontoria nel catalogo della mostra all’Istituto italiano. In altre parole, il medium è esplorato da Vimercati nella sua tendenziosa parzialità, nel suo costituirsi come artificio, ma al tempo stesso esposto come trappola per l’inconscio, come crocevia di piccole rivelazioni, di sorprendenti deviazioni dalla norma.

 

Le “cose”, umili, quotidiane, anodine, non sono infatti per Vimercati semplici appigli speculativi ma presenze individuate con precisione che contrastano con i loro accidenti la monotonia della ripetizione, la loro uniformità seriale. Le loro qualità fisiche vengono sottilmente differenziate all’interno di una medesima inquadratura: le trentasei bottiglie d’acqua minerale Levissima o le sei tele bianche sono simili ma non intercambiabili. Nelle differenze materiali, imprevedibili, affiora così all’osservazione attenta l’irriducibile azione del tempo e dell’entropia e insieme il valore dell’incontro con un pezzo di reale che l’atto fotografico rende possibile. “Scelgo un oggetto tra quelli di uso comune – ha scritto Vimercati nel 1982 – e lo colloco in un ambiente che costruisco appositamente […] Considero elemento qualificante del mio lavoro non la rappresentazione dell’oggetto, bensì la fitta trama di relazioni che si verificano tra una registrazione e l’altra: opera come teatro dell’esperienza”.

 

Franco Vimercati, Senza titolo, 1995 © Eredi Franco Vimercati


Il lavoro dell’artista italiano non è lontano in questo senso a quello di Berndt e Hilla Becher, la coppia di fotografi tedeschi che a partire dagli anni ’60 ha praticato una fotografia che combina rigore documentario, riflessione teorica e associazione inconscia. Vimercati interpreta tuttavia il suo compito con maggiore coinvolgimento tattile ed emotivo. Anziché “oggetti” architettonici o impianti industriali osservati alla distanza ideale per mettere in luce i loro caratteri strutturali, i suoi sono oggetti quotidiani, intenzionalmente desueti, senza “stile”, cose viste da vicino, direttamente maneggiabili, in molti casi significativamente connessi agli ambiti del corpo e dell’alimentazione (grattugia, lattiera, bicchiere, ferro da stiro, caffettiera, ecc.). Pure se circondati dal nero, ci sono sempre intorno a questi oggetti un interno domestico e degli abitanti vivi: ogni serie, come ha scritto Elio Grazioli su doppiozero, diventa così “anche una sorta di diario, perfino un racconto”.  

 

Joseph Kosuth, The Eight Investigation, "Data" # 3, aprile 1972 


Un confronto ancor più rivelatore è forse possibile farlo con Joseph Kosuth, un protagonista della corrente concettuale ben noto in Italia a partire dalla fine degli anni ’60, e in particolare con una delle sue opere più complesse, The Eighth Investigation, dominata da grandi orologi a muro che scandiscono il tempo delle operazioni estetiche e mentali oggetto dell’“indagine”, una cui versione fu esposta alla galleria Toselli, a Milano, nel 1971. Se quello dell’artista americano è un dispositivo finalizzato a rendere palese, e consapevole, il continuo, biunivoco processo di codificazione e decifrazione tra “realtà” e “arte”, dove gli orologi scandiscono insieme il tempo reale e il contesto mentale dell’operazione, per Vimercati la relazione tra tempo della vita e tempo fotografico contiene sempre invece uno scarto non nominabile, un punto cieco: lo spazio incerto tra un segno e l’altro sul quadrante della sveglia, la quantità non misurabile di spazio che la circonda, la sua temporalità ambivalente, carica di potenziale narrativo ed emotivo. Il dispositivo scopre così la sua ombra – lo sfocato, il vuoto, il nero – mentre per creare l’immagine il fotografo si affida a volte a tecniche volutamente imprevedibili, come il foro stenopeico, o in altre riproduce i soggetti capovolti così come appaiono sul fondo della fotocamera. Proprio questa zona d’ombra si annida l’inciampo o lo scacco del linguaggio, la precognizione del nulla, la morte.

 

Franco Vimercati, Senza titolo, 1995 e Senza titolo, 1997 © Eredi Franco Vimercati 

 

Per questo forse “produrre” diventa difficile, ogni scatto implica una rivelazione troppo intensa, una puntura, come accade nel lavoro più estremo e poeticamente intenso di Vimercati, Il ciclo della zuppiera (1983-1992), una serie di circa un centinaio di immagini realizzata lentamente nell’arco di un decennio, in cui gli scatti, più che un insieme ordinato, compongono una partitura di variazioni arbitrarie. Un approccio questo che dà sostanza non solo formale al confronto tra la sua opera e quella di un altro grande recluso nell’atelier, Giorgio Morandi, figura insieme idiosincratica e profondamente tipica della modernità novecentesca italiana, punto di calibrazione, come argomenta il saggio recente di Massimo Maiorino, Il dispositivo Morandi. Arte e critica d’arte 1934-2018 (Quodlibet 2019), per la ricerca di numerosi fotografi italiani, da Ghirri e Berengo Gardin a Ferrari e Monti. Di Morandi sono presentate a Madrid alcune incisioni ad acquaforte eseguite tra anni ’20 e ’40, tecnica che proprio per la sua lentezza e complessità consente, annota Marilena Pasquali in catalogo, una concentrazione minuziosa sui segni e le loro tessiture astratte, un controllato esercizio di distacco dal mondo.

 

L’opera di un artista può essere letta anche attraverso ciò che essa non dice o non fa vedere. Nel caso di Vimercati si potrebbe in fondo interpretare il suo “ritiro”, il suo mettersi in ascolto della vita delle cose, non solo come il segno di una volontà cosciente di raccoglimento, come un morandiano ritrarsi nello studio, ma anche come sintomo di un’intima, inconfessata, traumatica rottura col proprio tempo, con un’epoca che faceva irrompere, nell’arte come nella vita, in Italia e ovunque, una corrente cieca di cambiamento, la distruzione del vecchio e la nebulosa affermazione del nuovo, il suo frastuono, la sua impermanenza, il suo culto dell’inorganico, del consumo veloce, della superficie.

 

“Io sono un Becher latino”, diceva di sé parlando a Elio Grazioli nel 2000, cercando così di sottrarsi a un paragone diventato in fondo troppo agevole (e aggiungeva: “tutto quello che in loro è ordinato, in me è disordinato […] In loro si vede subito, in me invece questa nettezza la vedi nello sbandamento, in tutte queste cose che vorticano per aria”). Ma la semplicità, l’apparente mancanza di conflitto nel mondo fotografato da Vimercati, il suo montare e rimontare le stesse cose, il suo ritornare fatalmente alle stesse immagini, somigliano in fondo alla ricerca faticosa, e per nulla garantita in partenza, di un istante di equilibrio, di una precaria tregua con la vita: sul fondo vi si misurano l’inquietudine e la radicale difficoltà di fare esperienza.

 

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L'anima a colori

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Gianni Maimeri dirige l'azienda che porta il suo nome, produttrice di tempere, pastelli, colori a olio, acquerelli e simili. L'ha ereditata dal padre che, a sua volta, l'ha avuta dal nonno che era pittore e imprenditore. La fabbrica dei colori era nata nel 1923 nell'ex mulino Blondel nel quartiere Barona di Milano, si era poi trasferita in via Ettore Ponti, lungo la roggia Carlesca e, dopo i bombardamenti del 1945, a Bettolino di Mediglia, dove si trova l'attuale stabilimento. Oggi fa parte della Fila, Fabbrica Italiana Lapis ed Affini S.p.A., mantiene però il suo marchio.

 

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Levi che fuma

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Giuseppe Varchetta

Primo Levi che fuma è un’immagine inconsueta, ma non rara. Ci sono diverse fotografie che lo ritraggono con la sigaretta in mano come nello scatto di Giuseppe Varchetta. Questo è particolarmente bello perché lo coglie di scorcio. Si vede distintamente la sua mano che tiene la sigaretta tra l’indice e il medio, mentre il pollice si appoggia alla guancia. Aspira con voluttà, almeno così pare dall’espressione del viso. Si scorgono i capelli e la fronte, e non porta gli occhiali. La maggior parte delle fotografie che gli sono state scattate a partire dalla metà degli anni Settanta, lo mostrano frontalmente con il suo inconfondibile pizzetto. Questa è stata fatta nel settembre del 1979 alla Festa dell’Unità a Milano. Levi ha pubblicato da un anno La chiave a stella. Ha ricevuto il Premio Strega e il libro è un successo di pubblico. Da quasi quattro anni è in pensione e si può dedicare al sogno della sua vita: scrivere. L’aveva sperato sin dal 1946, eppure sono trascorsi trent’anni prima che potesse farlo. A Milano l’hanno chiamato a discutere con un altro scrittore che si occupa di lavoro, Paolo Volponi, che l’anno prima aveva pubblicato Il pianeta irritabile, un romanzo post-apocalittico, presso il medesimo editore di Levi. Fumare è stata per più di una generazione di scrittori e intellettuali un’abitudine consueta.

 

Ci sono innumerevoli fotografie che li ritraggono con la sigaretta tra le dita o in bocca, da Sartre a Hannah Arendt, da Fenoglio a Celati. Si fumava dappertutto: al bar, al ristorante, al cinema; persino nelle aule scolastiche i professori fumavano. In Se questo è un uomo e in La tregua chi può farlo fuma. In un capitolo del suo primo libro, Al di qua del bene e del male, Levi parla diffusamente del Mahorca, il tabacco di scarto, in forma di schegge legnose, che è in vendita nel Lager di Monowitz in pacchetti da cinquanta grammi. Il tabacco Mahorca diventa l’occasione per spiegare come funziona l’economia della borsa nera nel Campo. Tutti fumano, tutti scambiano il tabacco con il pane. Come ha scritto in un piccolo libretto, Smoke, John Berger, oggi fumare è diventata una perversione solitaria. Qualcosa da fare di nascosto, lontano da tutti. Berger spiega che il fumo è stato invece per la sua generazione – era nato nel 1926 – un fatto sociale: si fumava insieme ad altri. Roland Barthes ha raccontato il gesto di tenere la sigaretta tra le mani proprio dei suoi coetanei. Il fumo era un compagno consueto.

 

Levi fumava pochissimo, solo in occasioni sociali, e poi sigarette al mentolo. Varchetta l’ha fissato in questo gesto che lo rende così simile a tanti suoi contemporanei. In Se non ora, quando? uno dei personaggi del romanzo, Leonid, offre una sigaretta a Mendel, l’orologiaio, che però subito la rifiuta per via dei bronchi. Poi ci ripensa e la prende. La scena si svolge luglio 1943, nel mezzo della guerra partigiana contro i nazisti. Mendel spiega: “Come se fumare o non fumare avesse importanza quando tutto il mondo ti crolla intorno. Su, dammi questa sigaretta; è dall’autunno che io sono qui, e forse è la terza volta che trovo da fumare”. Nell’articolo Il segno del chimico, raccolto in L’altrui mestiere, Levi ricorda come da giovane durante le ore del laboratorio chimico all’università si andava a fumare e insieme a corteggiare le ragazze. Così si faceva, e forse ancora si fa. 

 

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Tre autori italiani a Fotografia Euopea 2019

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Laura Gasparini in occasione di Fotografia Europea 2019 a Reggio Emilia dal tema LEGAMI. Intimità, relazioni, nuovi mondi ha intervistato Marta Giaccone che espone nella mostra Giovane fotografia italiana #07; Michele Nastasi che espone Arabian Transfer e Valerio Polici autore della mostra Ergo sum.

 

1. MARTA GIACCONE

 

Laura Gasparini: I tuoi studi letterari ti hanno portato a una lettura documentale della realtà che hai affidato alla fotografia. Qual è stato il tuo percorso?

Marta Giaccone: Ho studiato lingue e letterature straniere a Milano, poi ho fatto un Master in fotografia alla University of South Wales a Newport, in Galles. Evidentemente gli studi letterari mi hanno sollecitato, dopo aver letto alcuni libri, ad adottare un metodo visuale che dalla parola mi porta all’immagine.

 

Marta Giaccone, Ritorno all'isola di Arturo.


LG: Quali libri, in particolare?

MG: Qualsiasi libro leggo – se mi piace! – tengo a tradurlo immediatamente in progetto fotografico nella mia testa, non posso farci nulla… ovviamente poi non sempre (quasi mai) si realizza, ma in generale il mio lavoro prende largo spunto dalla lettura. Questo è di certo in gran parte grazie alla biblioteca di casa che è ricchissima e che mi ha posto nella direzione della letteratura come fonte non solo di arricchimento, ma anche d’ispirazione. Il primo libro che mi ha spinto a realizzare un progetto è stato L’isola di Arturo di Elsa Morante (1957), nel 2015. Il tema dell’adolescenza è una dimensione molto interessante, quel momento della vita di transito, pieno di entusiasmi, di germinazioni; è per me di grande stimolo. Ho trascorso un’adolescenza in una grande città, anni tranquilli, normali, quasi banali, non ero ribelle. Forse è per questo che mi interessa osservare da vicino adolescenze “alternative” alla mia. Ci ho lavorato per la prima volta a partire dal 2014 quando vivevo in Galles e mi sono concentrata su un gruppo di mamme adolescenti, che seguo tutt’ora. Quando ho letto L’isola di Arturo ho intravisto un’altra interessante possibilità di (ri)scoprire il mondo adolescenziale, e sono rimasta colpita dalla storia che si svolge in un microcosmo del tutto particolare: l’isola di Procida. Elsa Morante, nelle parole di Arturo, descrive l’isola come un luogo magico e ho subito sentito la necessità di visitarla. Nel romanzo non ci viene indicato un esatto periodo storico, anche se si intuisce che la storia si svolge alla fine degli anni Trenta, e mi è piaciuto molto quest’aspetto atemporale. Nel 1962 il regista Damiano Damiani realizzò un film basato sul romanzo, che vidi appena prima di leggere il libro, e che mi suggerì una prima sceneggiatura per il mio lavoro: desideravo seguire un ragazzo dai capelli scuri, scoprire il suo mondo, raccontare la sua vita attraverso fotografie in bianco e nero. Ma erano solo idee, ipotesi di lavoro. Il giorno dopo aver terminato la lettura del libro sono andata a Procida, senza conoscere nessuno sull’isola, e nella luce dorata di fine settembre, sulla spiaggia della Chiaiolella, ho incontrato una ragazza di 13 anni, il mio primo preziosissimo contatto con Procida. Le ho chiesto di farmi conoscere i suoi amici e i loro luoghi: mi ha presentato tutti.

 

Marta Giaccone, Ritorno all'isola di Arturo.


LG: Cosa è nato?

MG: È nata un’amicizia e una collaborazione che mi ha visto a Procida tantissime volte dal 2015 ad oggi. Sto creando, credo, spero, un lavoro parzialmente atemporale, certamente non un reportage, composto di fotografie quasi mai costruite, scattate nei momenti dopo la scuola, nei luoghi di ritrovo dei ragazzi. Sono fotografie realizzate in un’atmosfera di amicizia e di gioco. Ora, parte di queste sono esposte in mostra.

 

LG: Com’è crescere a Procida?

MG: È molto diverso da una metropoli, ma molto simile alle piccole cittadine sul mare, immagino. La differenza è che, per spostarsi, qui serve la nave o l’aliscafo. Una ragazza mi ha detto pochi giorni fa: “per me sarebbe stranissimo prendere la metropolitana… invece la nave per noi è normale, la prendiamo anche tutti i giorni se serve!”. Ho osservato come, a Procida, i bambini sin da piccolissimi vanno in giro da soli tranquillamente, è una comunità molto piccola (11.000 abitanti su 4km2) in cui tutti si conoscono e si prendono cura l’uno degli altri. Quando i ragazzi crescono, però, forse questa dimensione inizia a diventare stretta, e allora in molti, tradizionalmente i maschi e ora anche alcune femmine, si iscrivono all’Istituto Nautico per poi diventare macchinisti o capitani di navi. Altri invece si spostano sulla terraferma per studiare, e in molti poi ritornano sull’isola per iniziare una famiglia. Altri rimangono. Nelle grandi città la dinamica è opposta: da piccoli viviamo protetti ma poi siamo soggetti a più stimoli e occasioni di apertura al mondo più facilmente.

 

Marta Giaccone, Ritorno all'isola di Arturo.


LG: Ho letto una cosa interessante nella tua biografia e cioè che sei molto interessata allo sguardo, alla prospettiva femminile.

MG: L’essere donna mi ha indubbiamente aiutato a entrare nelle relazioni delicate tra giovani madri e figli nel mio lavoro gallese. Mi interessa fotografare le madri senza i padri dei bambini perché, in quel contesto, spesso i padri non sono presenti, mentre le madri restano, sempre. Credo che anche per il lavoro di Procida il fatto di essere donna mi abbia aiutato a farmi accogliere dalle famiglie dei ragazzi.

 

LG: Hai svolto lavori di documentazione anche con il linguaggio cinematografico, in quale direzione hai svolto le tue ricerche?

MG: In Galles ho realizzato dei video insieme alle giovani mamme; ne facciamo di nuovi ogni volta che torno. A Procida ho integrato brevi video in cui ho fatto leggere ai ragazzi alcuni paragrafi di L’isola di Arturo per dare voce alle immagini e per far sentire il loro particolare e bellissimo accento. In particolare ho scelto dei brani in cui viene descritta l’isola di Procida e il rapporto tra Arturo e il padre, e i ragazzi hanno scelto i pezzi che più sentivano vicini. Inoltre ho anche fatto fare loro delle polaroid raffiguranti i loro luoghi preferiti dell’isola.

 

 

2. MICHELE NASTASI

 

Laura Gasparini: Michele Nastasi, curatore [Luigi Ghirri. Il paesaggio dell'architettura. Triennale di Milano, 2018], saggista, fotografo, redattore, docente universitario, storico dell’arte. Come ti sei avvicinato alla fotografia tanto da farne una professione?

Michele Nastasi: Fotografo da quando ero ragazzo perché, a livello amatoriale, era una pratica diffusa nella mia famiglia. All'università ho iniziato a fotografare, più seriamente, persone e spazi... Mi sono laureato in Industrial Design, ma per un lungo periodo non ero contento dei miei studi perché li sentivo allo stesso tempo astratti dal mondo reale e troppo orientati al marketing, per cui ho unito il mio interesse per la fotografia al desiderio di fare qualcosa di concreto cominciando a lavorare come assistente di fotografi professionisti a Milano. Da lì è nata la mia doppia anima che progressivamente si è sviluppata, come fotografo e come ricercatore in senso più ampio. Innanzitutto come redattore di Lotus International, rivista di architettura in cui lavoro da quando ero ancora studente, e poi con un dottorato in storia dell’arte. Anche come fotografo ho sviluppato un profilo di ricerca, perché mi sono sì specializzato nella fotografia di architettura lavorando per le riviste e per gli architetti, ma allo stesso tempo ho sviluppato una serie di ricerche autonome legate a questo ambito, che sono variamente intrecciate al lavoro commissionato. La fotografia, di fatto, per me è un mezzo per entrare in relazione e comprendere la realtà, o almeno una sua parte che si rende accessibile attraverso la visione. In questo l'architettura offre un canale più diretto di altri.

 

Al Satwa, Dubai, Dubai, UAE, 2015 ∏ Michele Nastasi.


LG: Di recente hai pubblicato un saggio sulla penisola araba ["A Gulf of Images. Photography and the Circulation of Spectacular Architecture". In The New Arab Urban. Gulf Cities of Wealth, Ambition, and Distress. A cura di Harvey Molotch e Davide Ponzini. New York University Press, New York 2019] dove hai spiegato in modo serrato, attraverso testo e immagini, il significato del tuo lavoro. Potresti parlare di questa tua metodologia di analisi e di restituzione?

MN: Ho riflettuto su come alcune città del mondo arabo, Dubai, Abu Dhabi e altre, negli ultimi decenni sono stati dei laboratori di architetture spettacolari e, più in generale, di un certo immaginario urbano contemporaneo che si esprime attraverso immagini fotografiche sensazionali. Mentre tutti i luoghi hanno una loro complessità, una loro storia – e nel caso di luoghi “nuovi” come queste città può essere difficile da decifrare – la rappresentazione dell'architettura attraverso fotografie e rendering tende a eliminare tutto quello che turberebbe una restituzione astratta degli edifici nel paesaggio. Nel mio saggio ho tentato di spiegare cosa succede quando, grazie alla fotografia, metti a confronto progetti formalmente simili in luoghi diversi, evidenziandone la diversità non tanto sul piano architettonico, ma nel rapporto tra i nuovi edifici e il contesto e la vita della città in cui si trovano. Come fotografo, quando mi reco in quei luoghi, cerco di capirli e di decifrarli per come mi appaiono, e uno degli sforzi è proprio di non seguire i percorsi visivi di chi mi ha preceduto. Le fotografie di queste città, Dubai in particolare, sono ben note a livello professionale, dove protagonista è sempre l'architettura: il singolo edificio senza contesto, il luccicare astratto dello skyline, la strada non si vede mai, i gesti stereotipati delle persone. Altri tipi di fotografie, che afferiscono alla sfera e al mercato dell’arte, insistono sistematicamente sull'idea del sublime, dato dall’enormità delle architetture, dalle loro forme stravaganti, al contrasto tra quelle architetture e il deserto. Tutti temi ormai classici che raccontano solo una parte di quei luoghi. Nelle città, infatti, c’è una vita minuta che si svolge e, al di là di queste grandi visioni, esiste una quotidianità grazie a cui è possibile tentare di capire alcuni fenomeni, come si stanno sviluppando, perché in quelle città accadono certe cose e non altre, e anche stabilire un rapporto con le città occidentali. La possibilità che ho avuto di sviluppare questo lavoro, ma anche il mio metodo di lavoro, è scaturita dal continuo scambio con altre discipline – per esempio l'urbanistica e la sociologia. Per me la ricerca deve avvalersi di una molteplicità di strumenti e non solamente di un linguaggio fotografico che si esaurisca nella bellezza o compiutezza dell’immagine. Credo che costruire immagini forti, iconiche e coinvolgenti dal punto di vista emotivo, sia importante perché le rende più immediate, ma anche più persistenti, contribuendo a comunicare a più persone i messaggi che desidero esprimere, ma in realtà non è questo l'obiettivo del mio lavoro. Si tratta piuttosto di costruire un gruppo di fotografie, una serie di immagini, una sequenza in grado di attirare persone diverse coinvolgendole nel dialogo e dibattito. Ho iniziato a lavorare nella penisola araba nel 2010 proprio perché insieme a Davide Ponzini, che è un urbanista, avevo cominciato una ricerca su come e perché l'architettura spettacolare è utilizzata in diverse città del mondo, tra cui Abu Dhabi [pubblicata nel volume Davide Ponzini, Michele Nastasi. Starchitecture: Scenes, Actors, and Spectacles in Contemporary Cities. The Monacelli Press, New York 2016 – seconda edizione]. Lavorando sul campo ho cominciato a chiedermi più consapevolmente cosa volessi rappresentare e perché, e lo scambio con altri ricercatori, per esempio il sociologo Harvey Molotch, mi ha aiutato a considerare aspetti del mio stesso lavoro a cui non avevo dato la giusta importanza. Anche lo scambio con te, Laura, è stato importante per orientare un diverso editing del lavoro, che è poi confluito in questa mostra. In questo senso di scambio, anche con persone che hanno un approccio molto semplice e diretto, la fotografia diventa uno strumento importante per interpretare la realtà, e acquisisce via via una maggiore profondità di significati.

 

Doha, 2017, Skyline View Point, photograph by Michele-Nastasi.


LG: Ha importanza, ad esempio, la figura umana che appare, nelle tue fotografie, non solamente come misura spaziale di queste architetture e di questi paesaggi ma è… qualcosa di più.

MN: La figura umana per me rappresenta un incontro e dunque significa molto all'interno di un paesaggio.

 

LG: Io la vedo come una testimonianza della condizione umana di quel luogo, non solo un elemento per la composizione.

MN: Certamente, la figura umana, così come la messa in posa, il ritratto, non è un tema che cerco a tutti i costi, ma è fondamentale per la restituzione dell’architettura e dei luoghi, perché mi aiuta a rendere nelle fotografie la loro particolare intensità. Il che non vuol dire fare solo ritratti, ma piuttosto di essere in grado di fotografare una situazione più o meno come si presenta nella realtà, con le persone e tutto il resto. È come una fotografia turistica, che sembra spontanea ma che in realtà è molto artefatta. Nel momento in cui tiri fuori la macchina fotografica professionale, tutto intorno a te cambia... come il principio di indeterminazione: nell'osservare c’è già qualcosa che sta cambiando. A seconda del tuo comportamento e dell’attrezzatura che utilizzi, influenzi le persone sulla scena che, banalmente, a volte si allontanano da te. Per me è importante stare all'interno della scena e trovare un equilibrio tra la mia presenza e il modo in cui potrebbe essere se io non ci fossi. Questa intensità dei luoghi è un aspetto che a me interessa molto perché desidero trasmettere un senso di vicinanza al soggetto, al tema che esprimo. Non è un caso che spesso chi osserva le mie fotografie mi dice che gli “sembra di essere lì”, perché riconosce un proprio punto di vista, personale, individuale, nel mio. È per me un profondo senso di presenza. Se nelle mie fotografie ci sono delle persone, inoltre, è importante perché documentano la quotidianità di quei luoghi, che è raramente rappresentata e che ha infinite forme. 

 

Michele Nastasi, Plant Souk Riyadh, Arabia Saudita, 2017.


LG: In Arabian transfer, hai lavorato molto sul tuo archivio e hai riscoperto nelle immagini che non hai mai esposto prima, parte di quel laboratorio vivente dove l’oriente e l’occidente si sono incontrati, mescolati e insieme hanno costruito un mondo, se non nuovo, diverso, in luoghi in cui il deserto era apparentemente inviolabile, ma che poi queste architetture hanno violato. Ora, quel deserto, si sta riprendendo lembi di quella città. 

MN: Questi due temi ci sono... lavorare in queste città ti induce a una riscoperta della natura nella città, una natura estrema fatta di deserto con temperature proibitive, e che in effetti tende a riprendersi gli spazi non appena non c’è più attenzione. C'è poi un tema geopolitico delle migrazioni, che è molto ampio: sono città e spazi abitati da diverse popolazioni, persone venute da lontano per lavorare o per sfuggire alle guerre o alla miseria, costituendo così un melting pot di culture diverse, anche molto antiche. Nell’immaginario europeo ci sono già state, in effetti, situazioni analoghe: Londra, Parigi, New York, Amsterdam, ecc. sono città dove questi fenomeni si sono già presentati nel passato, sia per la storia coloniale che per le migrazioni. Quello che è interessante nella penisola araba è che quella terra largamente inospitale, che non ha alle spalle la storia dell’Occidente e dell’Europa in particolare, sta vivendo un fenomeno simile in un mondo ampiamente globalizzato, quindi in un modo del tutto inedito, al punto che l'immigrazione arriva a toccare, in una città come Dubai, il 90%. Sono luoghi di approdo, di partenze e ripartenze... Ormai queste città hanno assunto un nuovo tipo di centralità a livello globale, e in molti paesi, soprattutto asiatici, le città di riferimento non sono Parigi, Roma o Londra, ma Dubai, Doha e Riyadh. Questo è molto interessante perché, se sei disposto a farlo, ti costringe a riconsiderare molti aspetti della cultura Occidentale e delle nostre abitudini, convenzioni sociali legate alla nostra etica, che noi europei tendiamo a dare per scontato. In fondo viaggiare non è sempre stato una fonte di riflessioni di questo tipo? Basti pensare a Montaigne.

 

LG: La fotografia come scrittura.

MN: Nella mia pratica la fotografia e la scrittura sono due cose diverse, ma certamente la fotografia ti costringe a essere là, a stare nei luoghi, e la mia è certamente una fotografia in cui c'è un aspetto narrativo, un'esperienza che si costituisce come narrazione sia all'interno di singole immagini che attraverso le sequenze e i gruppi di fotografie. È un aspetto che cerco di affrontare con grande attenzione e responsabilità rispetto a ciò che voglio comunicare, perché i messaggi della fotografia possono essere davvero molto diversi.

 

 

3. VALERIO POLICI

 

LG: Valerio Polici è nato artisticamente negli anni Novanta come graffiti writer, la pratica illegale di dipingere a spray il proprio nome sui treni. A margine dell’esperienza da writer ha avuto il suo primo incontro con la macchina fotografica.

Ergo sum è il risultato di questo incontro, una prima indagine del medium combinata con la ricerca intima di una consapevolezza artistica nuova.

VPErgo Sum cerca di raccontare e di tradurre in fotografia l’immaginario della mia post adolescenza. Io nasco come writer ed ho dipinto treni per circa 10 anni; anni intensissimi, di lunghi viaggi alla ricerca di una forma di libertà. Ad un certo punto però, qualcosa si è rotto: claustrofobia e mancanza di respiro hanno preso il sopravvento, la libertà si era trasformata in una prigionia fatta di stessi gesti, luoghi, rituali. Quasi per caso, senza consapevolezza tecnica del mezzo o del linguaggio della fotografia ho iniziato un nuovo percorso.

 

LG: Quindi la fotografia ti ha permesso di prendere distanza dalla tua ricerca di writer

VP: Sì, in effetti è stato così: mi ha permesso di fare un passo indietro e, attraverso un linguaggio nuovo, comprendere cosa stessi facendo davvero.

 

LG: Sicuramente la fotografia in bianco e nero, quella che tu utilizzi in particolare in Ergo sum, concettualizza molto la realtà aggiungendo altre distanze.

VP: Assolutamente sì. Astraendo, riduce ancora di più la linea spazio temporale e trasforma questi sei anni di viaggio tra Europa ed Argentina, in un unico grande istante. 

Ergo sum è il mio primo lavoro fotografico; un lavoro che solo su un primo livello racconta una comunità, ma è soprattutto un’indagine interiore. Anche per questo motivo, ho prediletto per la selezione finale, immagini più aperte e metaforiche. Allontanate da un contesto specifico, amplificano il loro potere aprendo la strada ad un carattere più ambiguo. L’ambiguità mi interessa molto, permette in quella sua incollocabilità di instaurare un rapporto più libero tra fruitore e prodotto finale. Ho accettato di esporre allo spazio C”!, uno spazio privato, perché utilizza una formula inedita per supportare con continuità l’etica e l’estetica del mondo del writing e dell’arte urbana nel quale io sono vissuto. Lo ringrazio molto per questa preziosa occasione così come Pietro Rivasi che attraverso il suo prezioso testo offre un punto di vista del tutto inedito e fa chiarezza in questo fenomeno molto complesso.

 

Ph Valerio Polici.


LG: Ma come è stato possibile passare dalla dimensione del graffito, dei treni, delle tag... alla distillazione alchemica dell’immagine fotografica che qui in mostra presenti come una grande installazione e che suggerisce un possibile andamento in espansione infinita… L’impressione è che le tue fotografie desiderino riprendersi quei vasti spazi del writing

VP: La transizione, tra questi due mondi è stato un processo abbastanza inconsapevole e naturale. In principio, la fotografia e il video mi sembravano solo linguaggi interessanti. Rispondevano ad una mia ulteriore urgenza espressiva. Inoltre la fotografia, come il graffito, riguarda un’organizzazione degli spazi, e può essere un gesto molto violento. 

 

LG: …quindi era l’esperienza dell’arte ad interessarti…

VP: Quello che mi interessava era indagare una condizione di prigionia esistenziale, un bisogno di fuga, una necessità di perdizione, un’urgenza di sentirsi speciali. 

Te lo dico perché io appartengo alla generazione nata negli anni ottanta; una generazione cresciuta nel benessere, che ha visto lentamente sgretolarsi tutte le promesse fatte. Il mondo dei graffiti da questo punto di vista ti offre un riscatto, la possibilità di ricreare una nuova identità nelle viscere delle metropoli, fuori dai tracciati pre impostati. I sotterranei sono spazi magici, terre di nessuno nelle quali ci si muove con incertezza e spavalderia, scenari di gesta eroiche e storie folli spesso al limite del reale, più vicine a quelle di un commando militare altamente organizzato che di un gruppo di giovani amici: incursioni, scalate, una via d'entrata una via d'uscita, odori insopportabili, sporcizia ovunque, corse infinite, è come un videogioco, ma terribilmente reale.

 

LG: Nella tua biografia hai fatto riferimento a Rafal Milach, fotografo documentarista polacco. Come mai vi siete incontrati? Quali sono i punti di vicinanza o di lontananza che vi accomunano?

VP: Ho voluto incontrare Rafal quando ho deciso di far diventare Ergo Sum un libro, perché mi piaceva la sua sperimentazione linguistica. Con lui abbiamo ragionato sull’editing, con sua moglie Ania, che si occupa di book-design, sulla forma. È stata un’esperienza interessantissima e il risultato molto soddisfacente. In un secondo momento, durante una mostra che avevo in Germania, mi è stata proposta la pubblicazione da una casa editrice tedesca (Dienacht publishing) ed abbiamo presentato il lavoro al Paris Photo nel 2016. 

La scelta di fare un libro è nata da un bisogno di dare una forma più definita ad un pensiero. Questo progetto ha incontrato una buona accoglienza editoriale (Washington Post, Newsweek, L’Espresso tra i vari), ma mi rendevo conto che ad ogni pubblicazione, il photoeditor della rivista in questione, metteva in campo la sua storia, che non era mai veramente la mia. 

Per il resto, direi che il forte amore per Lynch è la cosa che più ci avvicina, la nostra ricerca invece è molto diversa: lui è un grande documentarista, sperimentatore e riflessivo, io sono istintivo, ossessivo, il mio sguardo si rivolge sempre all’interno, Mi interessa il senso d’oppressione costante che mi accompagna e gli strappi che provo a dargli.

 

Ph Valerio Polici.


LG: E con Antonio Biasiucci?

VP: Antonio l’ho conosciuto dopo aver chiuso Ergo Sum. Era un periodo di grande confusione per me. Avevo appena terminato il mio primo progetto, ne ero felice ma mi chiedevo chi fossi io come autore, quale fosse il punctum della mia ricerca. Sono stato selezionato per la seconda edizione del suo Laboratorio Irregolare, ed è iniziata un’altra grande avventura. Antonio, oltre ad essere un grande artista, sa essere un grande maestro. Per due anni e mezzo ho frequentato il suo studio 

sbattendo la testa al muro come poche altre volte in vita. Il suo è un laboratorio speciale perché ti mette di fronte a te stesso, senza inganni e in silenzio. La mia è anche una generazione manchevole di maestri purtroppo, la fortuna di averne avuto uno, per giunta di questo calibro, è un enorme dono e un enorme responsabilità. 

Con fare discreto, ci ha aiutato a fare pulizia, nel cuore e negli occhi. Solo così puoi arrivare al centro delle questioni. L’onestà prima di tutto, poi il resto. Era vietato parlare di altri fotografi, si parlava solo di rigore e di disciplina. Il suo maestro era Antonio Neiwiller, grande regista teatrale napoletano scomparso prematuramente, che a sua volta ha trasmesso a Biasiucci questo metodo di indagine interiore. Metodo che essenzialmente si fonda sulla ripetizione ossessiva di un gesto o di una parola in un lasso di tempo notevole. Questa ripetizione comporta una scarnificazione del soggetto in esame, e attraverso un senso rinnovato si giunge all’essenza. 

Terminato il laboratorio, siamo tutti entrati in un’altra profonda crisi, il peso che la sua presenza ha avuto in ognuno di noi ha lasciato anche un grande vuoto. Ma le crisi sono necessarie. Oggi, a due anni dalla fine di questo percorso, posso dire di aver digerito a pieno ed aver trovato esattamente la mia misura. La gratitudine che provo, non sarà mai abbastanza. 

 

LG: Oltre le modalità di installazione che hai elaborato mi interessa approfondire anche l’utilizzo della tecnica al platino palladio. Perché questo ritorno a una manualità colta e raffinata di fare la fotografia?

VP: L’installazione della mostra è stata ideata in collaborazione con una meravigliosa curatrice napoletana, Chiara Pirozzi, nell’intento di regalare ai visitatori un’ esperienza strutturata su diversi linguaggi.

La prima sala che accoglie il visitatore, è un ambiente asettico e privo di riferimenti, per aiutare una prima sensazione di smarrimento. Varcata la soglia d’entrata, un’installazione musicale che riproduce i suoni dei sotterranei avvolge e catapulta direttamente in un’altra dimensione, suggerendo un sentimento ansiogeno e claustrofobico. La sola fonte luminosa è un box al centro dello spazio che spinge ad avvicinarcisi perché l’unico in grado di svelarci qualcosa. Quasi come un monolite proveniente da un’altra dimensione, imprigiona sei schermi che riproducono in loop le esplorazioni nei sotterranei. Senza mai giungere ad un punto definito, mostrano un peregrinare inquieto e senza meta.  

Nella stanza a fianco, un polittico di 26 foto, un’opera unica che si sviluppa nella congiunzione di due piani e si estende in più direzioni. 

Provando a dare forma a quella duplice forza di attrazione e repulsione, prigionia e libertà che sta alla base del mio discorso. Una scala vortice al centro, risucchia come un buco nero tutto quello che le sta attorno. Man mano che si arriva alle estremità, la forza diventa centrifuga, la materia si dirada e si perde come in una deflagrazione. 

Le quattro fotografie esposte all’esterno, che rimarranno per tutta la durata del festival, sono la sintesi di tutto questo, lasciando maggior spazio all’immaginazione. 

La stampa utilizzata per queste ultime, è quella del platino palladio, realizzata da uno straordinario artigiano di Milano, Giancarlo Vaiarelli; l’unico maestro stampatore in Italia, in grado di farle. È una tecnica antica molto complessa, che permette di ottenere il livello qualitativo più alto possibile per la stampa in bianco e nero. Ognuna è una copia unica perché il composto chimico è steso con delle pennellate fatte a mano. Mi piaceva l’idea di questa dicotomia, tra una tecnica così raffinata e un soggetto così violento e sporco. 

 

LG: Quindi hai recuperato il gesto del dipingere, oltre che dello scrivere. Hai recuperato una grande fisicità.

VP: Si, questa tecnica ha permesso di recuperare anche quel gesto deciso, rabbioso, dell’azione con la bomboletta. La stesura del colore e la matericità che ritornano e fondono due linguaggi, due periodi differenti della mia vita, la fotografia che dialoga con la pittura. 

 

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Interviste a Marta Giaccone, Michele Nastasi e Valerio Polici
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Basilico: un fotografo

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La fotografia è un’arte che ha permesso a Basilico di cogliere il mondo-città in divenire. Gabriele Basilico è il fotografo della città, è evidente, ma di quale città? Una città strana, che abbiamo sempre l’impressione di riconoscere, e che spesso riconosciamo, ma senza essere certi di poterla situare, una città che si trova ovunque e da nessuna parte. Ci succede d’identificarne in modo molto preciso un elemento (tale edificio all’angolo di questa o di quella via), ma non saremmo tanto sorpresi e sicuramente non scioccati se ci mostrassero che ci siamo sbagliati e che, per esempio, tale quartiere periferico in cui pensavamo di riconoscere un sobborgo di Roma appartenga invece alla regione di Parigi. Questa sensazione mescolata di riconoscimento e non riconoscimento, queste evidenze affette da incertezza sono di fatto il prodotto di un partito preso e di un approccio sistematico che si sforza di cogliere le trasformazioni del mondo contemporaneo, un mondo che può essere definito indifferentemente come globale o come urbano.

 

Poiché l’urbanizzazione del mondo è oggi il grande fenomeno che interessa principalmente l’umanità, un fenomeno della stessa portata, è stato fatto notare, del passaggio all’agricoltura e alla sedentarizzazione del Neolitico. Tale urbanizzazione è caratterizzata da tre processi simultanei. Parallelamente alla trasformazione dei “centri storici” in settori preservati e riservati al consumo turistico, i quartieri d’affari e il settore terziario si sviluppano e occupano oggi più spazio delle attività produttive in senso stretto. Inoltre, lungo le vie di comunicazione, i fiumi e il litorale marittimo, si prolungano dei nastri, dei filamenti urbani, nei quali coesistono imprese, industrie, centri commerciali, zone incolte, aree abbandonate e quartieri popolari.

 

Gabriele Basilico ha innanzitutto privilegiato i settori industriali e operai della città in cui era nato e viveva, Milano. In seguito, ha portato il suo sguardo verso altre città europee, privilegiando spesso i margini e le periferie, ma interessandosi anche, talvolta, a quanto abbiamo l’abitudine di chiamare “centri storici”. Le sue fotografie sono prive d’indulgenza. Si danno per oggetto gli aspetti più “duri” della città o del tessuto urbano, non cedono alla tentazione del pittoresco. Ma, se rispondono al desiderio di seguire e osservare il mutamento urbano in corso su scala planetaria, questo desiderio è sottoposto a sua volta a un certo numero di scelte estetiche che preesistono e vi si riflettono.

 

Le fotografie di Basilico sono immagini di ampio respiro. Il fotografo è ispirato dalla monumentalità e dal paesaggio urbano e, in entrambi i casi, dalla geometria che li regge: linee rette e angoli acuti oppure vaste curve e arrotondamenti. I materiali utilizzati oggi, il vetro – le sue trasparenze o i suoi riflessi –, il metallo e il cemento ben si prestano a un tentativo di questo tipo, ma la pietra e il marmo scolpiti dei secoli precedenti, fonte di un’altra monumentalità, coniugano a volte armoniosamente le loro forme con quelle privilegiate, ormai da alcuni decenni, dall’urbanistica e dall’architettura. Ed è perché il fotografo è prima di tutto sensibile a questo gioco di forme che il miracolo si produce e che l’utopia di una città planetaria, unica e diversa, presente e passata, emerge poco a poco sotto i nostri occhi quando guardiamo le sue fotografie di seguito, una dopo l’altra, con la strana e contraddittoria sensazione di perderci e di ritrovarci.

 

Gabriele Basilico coglie innanzitutto gli edifici e i monumenti che ritrae nella loro verticalità. Questa verticalità altera è ciò che avvicina i grattacieli attuali ai grandi edifici del XIX secolo. Anche se questi ultimi sono meno alti, rispetto al loro ambiente circostante suscitano la medesima impressione di orgoglio e dominazione. Tale impressione può nascere alla vista dell’hotel Capitol di Madrid come a quella di un grattacielo della Défense. Nell’architettura industriale o nei paesaggi devastati delle zone industriali dismesse, invece, è l’orizzontalità che predomina. S’impongono allo sguardo le linee di fuga degli alti muri diritti delle fabbriche, il tracciato dei muri spogli o ricoperti d’iscrizioni che ritaglia nel paesaggio improbabili frontiere, lo slancio che sembra spingere i binari della ferrovia e le banchine delle stazioni verso l’orizzonte che l’opacità delle costruzioni urbane sottrae alla vista. Nel cuore della città, le forme giocano fra loro, come giocano fra loro i tempi della storia.

 

Foto di Gabriele Basilico.


Nei quartieri d’affari più recenti, lo slancio verso l’alto delle torri rettilinee dagli angoli acuti si compone con gli arrotondamenti degli altri grattacieli e con le curve del sistema autostradale che li serve e li stringe. Ma questo gioco di forme è ugualmente presente nella profonda intimità dei centri urbani penetrati da autostrade sopraelevate, e nei centri storici dove, come a Roma, le colonne dei templi crollati e le rotondità delle cupole cristiane dialogano con il paesaggio moderno. La geometria del paesaggio s’impone al fotografo che la scopre e conferisce alla sua opera uno stile caratteristico.

 

Quali che siano i miglioramenti eventuali che nel futuro dovranno essere apportati al nostro ambiente di vita dagli urbanisti e dagli architetti, questo ambiente assomiglierà a quanto possiamo osservare sin d’ora. Se cediamo al pessimismo, diremo che, malgrado il mantenimento apparente della diversità, tutti i luoghi urbani continueranno sempre più a uniformizzarsi e che le variazioni che ci si sforza di creare abbiano tutte un’aria di déjà-vu. Se siamo ottimisti (e mi sembra sia il caso di Basilico, malgrado il rigore delle sue scelte e delle sue vedute, malgrado la decisione a priori di escludere gli esseri umani, ma non le macchine, dalla maggior parte delle sue fotografie), noteremo che questa sensazione di déjà-vu è più complessa di quanto non sembri a prima vista. Nella diversità delle città ci sono elementi che, per lo meno presi e visti da una certa angolatura, come accade nella fotografia, sembrano richiamarsi e richiamarci: un cavalcavia sulla corsia rapida che evita la Défense a Parigi evoca Eiffel e il ponte di Porto; dei pezzi di muro ricoperti di graffiti su un terreno abbandonato in fondo al quale s’indovinano alcuni edifici fatiscenti sono parte di un paesaggio berlinese che è anche un paesaggio madrileno… 

 

Storicamente, molte città europee sono state create con uno stile proprio, e un viale di Madrid non assomiglia a un viale di Parigi o a un corso di Roma. Potremmo pensare che oggi tutto ciò che le avvicina fugacemente le une alle altre – siano solo le mura cieche di una fabbrica dismessa, la banalità di un parcheggio o i riflessi della città su una parete di vetro – conferisca loro una dimensione propriamente poetica per lo sguardo che le scopre. Sono proprio questi la forza e il fascino dello sguardo di Basilico: non si lascia ingannare dalle apparenze, continua a cogliere la diversità sotto l’apparente uniformità e le somiglianze – le “corrispondenze”, per usare una parola cara a Baudelaire – nell’apparente diversità. La poesia, si sa, non è nelle cose, ma nello sguardo che sa coglierle. La fotografia, che isola e avvicina gli elementi che ci mostra, al termine di una doppia operazione di selezione, funziona dunque un po’ come la memoria ma, diversamente da colui che ricorda, il fotografo opera delle scelte in maniera intenzionale, sistematica e deliberata. È un artista che non si accontenta di registrare: fa, crea, inventa. È immediatamente dalla parte dell’immaginazione e dell’utopia. Ma come il poeta, e a differenza dell’utopista puro, è nel mezzo della realtà, anche quella più triviale, che attinge la materia della sua opera e, con essa, le ragioni per vivere e per sperare. C’è sempre un po’ di tempo sospeso e di futuro possibile in un’opera d’arte o in una poesia.

 

Ciò che è particolarmente notevole nel lavoro di Basilico è che riguarda la realtà più evidente e imponente della nostra epoca, quella che è associata a tutte le nostre paure e timori. Lungi dall’evitarla, vi si confronta. Ci ha abituati a osarla guardare e ci ha insegnato a vederla. A questo proposito, oserei quasi parlare di pedagogia poetica. Domani il mondo sarà urbano, lo è di già. Non per questo bisogna mettersi a sognare paradisi perduti: questi sono sempre illusori, non sono mai esistiti. Non abbiamo perso nulla; abbiamo tutto da conquistare e, di conseguenza, tutto da immaginare. Ma possiamo immaginare solo a partire da ciò che esiste già. Il mondo è diventato una città, ma si tratta di una città in cui diverse città hanno ancora il loro posto, con le loro vestigia, le loro rovine, la loro personalità. Certo, tutte queste città si sviluppano e si trasformano, e possiamo temere, non senza solide ragioni, che presto arriveranno ad assomigliarsi tutte nei loro elementi meno personali – penso in particolare a quegli spazi di circolazione, di comunicazione e di consumo che ho chiamato nonluoghi. Ma mi sembra che la scommessa di Basilico sia diversa, opposta. Per quanto affascinante possa essere, non bisogna accontentarsi di una delle sue fotografie; occorre guardarne molte per comprendere meglio ciascuna di esse. Ciò che distingue l’insieme della sua opera è, in effetti, la proiezione di una città composita e in divenire. Questa città è indubbiamente una città planetaria, ma è sempre in trasformazione, in essa le innovazioni continuano a dialogare fra loro e con il passato; una città grande come il mondo ma dove non sono assenti il fascino del ricordo e della nostalgia e sentimenti confusi, equivoci ed esaltanti di speranza, timore e attesa.

 

Gabriele Basilico non credeva al ripiegamento del mondo su se stesso, alla fine della storia e al regno delle copie conformi. Detto altrimenti, anche se le sue immagini hanno un rigore formale che le mette al riparo da ogni dimensione aneddotica, non sanciscono una non so quale morte della città – e dell’arte. Al contrario, la loro forza coinvolgente e contagiosa dipende dal fatto che, giocando con le forme spaziali, ci aiutano a vedere la storia da cui scaturiscono e a immaginare il futuro che le aspetta. Sono anche delle immagini del tempo.

 

Questo articolo è tratto dal volume di Marc Augé, Chi è dunque l’altro?, a cura di Annalisa D’Orsi, Raffaello Cortina Editore, 2019.

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Costruire la vita con le immagini: Lee Miller e Inge Morath

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In apparenza non c’è alcun legame fra Lee Miller e Inge Morath, se non che alle due fotografe, nate a distanza di circa vent’anni, l’una austriaca cresciuta in una famiglia di scienziati e l’altra americana con la passione per Parigi, sono dedicate due mostre, la prima a Bologna, a Palazzo Pallavicini (Surrealist Lee Miller), l’altra a Treviso presso la Casa dei Carraresi (Inge Morath, La vita. La fotografia). Non sono le uniche mostre, in Italia, in cui protagoniste sono delle fotografe: Berenice Abbott a Lecco, Eve Arnold ad Abano Terme, Tina Modotti (conclusa una mostra da poco a Parma, se ne aprirà un’altra a Jesi), mentre a Milano, presso i Frigoriferi Milanesi, “Il soggetto imprevisto” celebra un periodo in cui l’arte e il femminismo dialogano intensamente; il Brescia Photo Festival è interamente dedicato alle donne, mentre a Venezia Letizia Battaglia viene celebrata, finalmente, non più solo come fotografa della mafia.

 

Cosa sta accadendo? Si tratta soltanto di una tendenza à la page, o la domanda che si pose nel 1971 Linda Nochlin, “perché non ci sono state grandi artiste?”, torna ad abitare i dubbi di critici e curatori? Le risposte meriterebbero uno spazio a sé. Per ciò che riguarda, invece, Inge Morath e Lee Miller, la prima cosa da dire è che non sono affatto sconosciute e che hanno incarnato un modello di new woman, emancipata e consapevole, quasi una risposta al mito della donna musa, isterica o femme-enfant che si era moltiplicata nelle opere dei surrealisti: La femme 100/sans tête(s) e La Poupée di Hans Bellmer ad esempio, o che veniva celebrata ossessivamente, unica dea folle, seppur mantenuta a distanza, come la Nadja di André Breton. 

 

L’intervallo temporale che le separa, un ventennio quasi, segna anche una sorta di linea immaginaria che distingue le loro vite da ciò che hanno ritratto. Inge Morath non fotografa la Seconda guerra mondiale e i suoi drammi, mentre Lee Miller finirà risucchiata proprio nel nero di quel vortice temporale e l’esperienza da lei vissuta sui fronti di guerra inghiottirà per sempre le sue fotografie e lei stessa sino all’oblio. L’ultima foto di Inge Morath è un autoritratto che sembra esprimere la volontà di restare innanzitutto dentro il suo sguardo. Se la prima si perderà metaforicamente nel pozzetto della sua Rolleiflex, la seconda riuscirà a sopravvivere all’obiettivo della sua Leica. 

 

Lee Miller, Self Portrait, © Lee Miller Archives England 2018. All Rights Reserved. www.leemiller.co.uk.

 

Iniziamo da Lee Miller, o meglio da un’opera d’arte che la rappresenta. Un metronomo che non scandisce solo il tempo, ma lo inghiotte, così come il tempo ha inghiottito la fotografa. Nel 1932 Man Ray ritaglia un occhio di Lee da una fotografia e lo colloca alla sommità dell’asta di un metronomo. Si intitola Objet à détruire. Sul retro di questo oggetto, la cui realizzazione risale al 1928, egli scrive: “Legenda: ritagliare l’occhio dal ritratto di una persona che si è amata ma non si vede più. Attaccare l’occhio al pendolo di un metronomo e regolare il peso secondo il tempo desiderato. Farlo andare fino al limite di resistenza meccanica. Con una martellata ben assestata cercare di distruggere il tutto in un solo colpo”. 

 

Non accade. Lee Miller lo lascia e torna a New York dove apre uno studio e inizia la sua nuova vita da fotografa indipendente. Nata a Poughkeepsie il 23 aprile 1907 nello stato di New York, giovanissima diviene una star di Vogue grazie al suo incontro fortuito con Condé Nast, che la salva dall’essere investita sulla Fifth Avenue. Ma tutto questo non le basta. Dopo un primo soggiorno a Parigi nel 1925, ci ritorna nel 1929 con una lettera dell’editore che la raccomanda al fotografo di riferimento di Vogue a Parigi, il barone George Hoyningen-Huene, e con un’altra raccomandazione di Edward Steichen, che la indirizza a Man Ray. Per tre anni, a Parigi, ne sarà la musa, l’amante e la modella. 

 

Lee Miller, Man Ray Shaving, © Lee Miller Archives England 2018. All Rights Reserved www.leemiller.co.uk

 

Lo segue, lo osserva, e impara in fretta, ma se ne distacca sin da subito. Le sue foto non subiscono l’influenza del surrealismo, sebbene nella sua opera siano presenti solarizzazioni, doppie esposizioni e fotomontaggi. Le basta la realtà. Non è forse vero che le fotografie documentarie sono in grado di “produrre degli enigmi visivi” o delle “immagini indovinello”, come le chiamava Breton? O che il loro carattere ambiguo e il senso non immediatamente leggibile insinuano la possibilità di suscitare un dubbio? 

 

Ciò che permane nelle sue fotografie è la convivenza di ordinario e straordinario, di disgusto e perfetta armonia, di forza e fragilità. Quattro topi appollaiati su un’asticella, che sembrano sospesi nel vuoto, come fossero uccelli: Rat Tails (1930), il volto di Man Ray coperto di schiuma da barba, che esprime allo stesso tempo noncuranza e vulnerabilità. Stesse sensazioni espresse in maniera inequivocabile in un’altra immagine del 1942, si intitola Good and bad posture e rappresenta il volto di una donna che sovrasta la sua stessa immagine. Il corpo entra in due bolle di vetro: bad? good? Dov’è il punto in cui lo sguardo si arresta? Non esiste. Tutto è in movimento, tutto è fermo, nel medesimo istante. 

 

Questo non accade solo alle fotografie parigine, realizzate dal 1929 al 1932, considerate più vicine al surrealismo, ma anche a quelle scattate tra il 1932 e il 1934, nella New York alla moda. Basti pensare alla testa fluttuante di Mary Taylor, giovane attrice di Broadway, sospesa nel vuoto – idee in volo o metaforica decapitazione? – , o a quelle scattate in Egitto, dal 1934 al 1939, dove Lee Miller viveva dopo aver sposato Aziz Eloui Bey, un uomo d’affari che si era innamorato di lei. Le dune si trasformano in montagne da percorrere con gli sci, la siccità del deserto sembra un mare ondoso, l’ombra di una piramide si sostituisce a quella reale e nello stesso tempo ne evoca la presenza. 

 

Ma è un altro oggetto a spingerci verso il mistero delle sue foto. Nella sala centrale della mostra ci sono le immagini della guerra e al centro della sala c’è la sua Rolleiflex. Un altro objet à détruire. Anch’essa è oscillante. O meglio il suo funzionamento evoca una oscillazione. Il visore per l’inquadratura, posto nella parte superiore della macchina, rende necessario impugnarla più o meno al centro del corpo, evitando il contatto visivo con il soggetto, anche se, proprio per il fatto che si può inquadrare dall’alto, lasciando libero lo sguardo del fotografo, è possibile entrare in connessione con chi viene fotografato. Si guarda senza essere visti. E quindi cosa prevale: prossimità o distanza?

 

C’è anche un’altra cosa. Un ulteriore movimento. Guardare dentro il pozzetto della Rollei ricorda il gesto di chi scende in profondità. Il dubbio rimane anche in questo caso: si penetra nel soggetto o dentro se stessi? Nel fondo oscuro del pozzetto della Rollei si rintanano le immagini più drammatiche: un groviglio da cui non verrà più alcuna luce. 

 

Le foto dell’orrore vengono scattate in Germania e precisamente nel campo di concentramento di Dachau, in cui entra il 30 aprile del 1945. Lei è la prima americana a varcare la soglia di un lager. David E. Scherman, amico e fotografo di Life, è al suo fianco. Scatta incessantemente: cataste di cadaveri, treni che trasportavano i condannati, forni crematori con i resti dei corpi. Il nostro sguardo corre lungo le pareti. Si resta sempre increduli. E poi tutto si arresta di nuovo. I nostri occhi si spingono con la fotografa dentro un canale di scolo a Dachau. Ci galleggia il corpo di un soldato tedesco. È di fianco, come se dormisse. Lee Miller racconta che il canale era pieno di SS con tute mimetiche e stivali borchiati, cani morti e fucili rotti. L’acqua lo accoglie, e allo stesso tempo ne lambisce il corpo come un sudario. Non importa se le fotografie non possono dire tutta la verità, se sono lacunose e impotenti, qui la fotografa riesce a prendere di mira l’inimmaginabile, a confutarlo in maniera lacerante, attraverso il conflitto tra l’orrore e la pietà nei confronti del nemico, raffigurato nel momento della sua vulnerabilità più estrema. Tutto è sospeso, come accade in un’altra foto. 

 

Non è di Lee Miller, ma è l’immagine che immediatamente si associa alla sua storia. Forse è la sua foto più famosa. Viene scattata da David E. Scherman nell’appartamento di Hitler a Monaco, che solo poche ore prima era stato preso dall’esercito americano come luogo deputato alla comunicazione. Lee abbandona i suoi anfibi militari, si immerge nella vasca da bagno, il posto più impuro d’Europa, e con un gesto liberatorio ne inverte la polarità: la sua bellezza purifica quel luogo e nello stesso tempo, nel tempio dell’orrore, compie il gesto di liberarsi per un istante dal dolore che, nel cuore dell’Europa, ha inghiottito il suo sguardo. 

Si percepisce la convivenza tra ethos e pathos, puro stato affettivo e possibilità dell’azione. Un’altra oscillazione. Qui sembra che la sua celebre frase: “preferisco fare una foto che essere una foto”, venga messa in discussione dalla stessa fotografa. Essere e fare si confondono. Il soggetto, la fotografa, si sovrappone all’oggetto, o meglio si sdoppia nell’oggetto, poiché in questo tempo e in questo spazio, essere una foto è più importante che farla. 

 

Sta qui la dimensione contemporanea delle sue immagini. Tanto le fotografie parigine, quanto quelle di moda o di guerra, non sono solo immagini di guerra o di moda, ma rappresentano il fondo oscuro di un’indecidibilità. L’objet à détruire sopravvive. Lo sguardo continua a oscillare. Ciò che resta dinnanzi a noi non ha tempo, come non ha una risposta. Le immagini di Lee Miller rappresentano la manifestazione di una forma che è innanzitutto la forma di un dilemma, qualcosa di inarticolabile, che resiste ad ogni definizione. Le sue fotografie producono un segno che va al di là di se stesso e, per questo, oltrepassano i confini del loro tempo. Tutto è instabile, come l’illusione di una coincidenza perfetta tra il tempo della fotografia e quello dell’evento da cui essa trae la sua esistenza. 

 

Dall’in-decidibilità il passo successivo è quello dell’in-dicibilità. Dopo aver fotografato Dachau, Lee Miller intraprende un viaggio nell’Europa devastata dai totalitarismi. Ha tanti volti: un bambino morente in un ospedale pediatrico privo di medicine a Vienna, László Bardossy, l’ex primo ministro fascista ungherese davanti al plotone d’esecuzione a Budapest nel 1946, e poi verso la Romania, alla ricerca di Harry Brauner, che si era salvato da anni di prigionia e che Lee fotografa mentre registra la canzone di una famosa cantante popolare. Da qui in poi il mondo che la circonda entra solo marginalmente nel suo obiettivo. Tutto si è perduto negli anni della guerra e di questo suo ultimo viaggio. L’indicibilità dell’immagine assurge ora a simbolo di una violenza che ha spazzato via ogni traccia di civiltà, insieme allo splendore ermetico delle sue immagini. E alla sua vita.

 

Lee Miller, Revenge on Culture, Grim Glory, London, England, 1940, © Lee Miller Archives England 2018. All Rights Reserved.

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Diventa madre nel 1947 e si trasferisce in una fattoria, Farleys Farm, nell’Est Sussex, meta di amici e artisti, che fotografa. Working Guestsè l’ultimo articolo per Vogue e il penultimo della sua vita: l’esaltazione dei tempi della guerra è irripetibile. Si appassiona alla cucina, verso cui sembra poter far confluire la sua carica creativa e con la quale cerca di contrastare il declino psichico e fisico, dovuto anche all’abuso di alcol. Lentamente smette di fotografare. Muore nel luglio del 1977. Le parole dell’amico Roy Edwards, che le dedica una poesia intitolata “Lee e le fotografie”, sembrano condensare in poche righe i conflitti che hanno attraversato la sua esistenza: 

 

“lei volta la testa

a sedurre specchio e obiettivo

(…)

lei volta la testa

giorno e notte si danno appuntamento sulla sua nuca”.

 

Per Inge Morath costruire la propria vita con le immagini è un processo meno drammatico. Nasce a Graz in Austria nel 1923. I genitori sono scienziati, cresce in un ambiente colto e intellettuale, fatto di buone letture, viaggi e studi. Studia lingue romanze all’università di Berlino e ama viaggiare. Non teme barriere culturali o linguistiche. Nel corso della sua vita giungerà a parlare sette lingue. Due sono i documenti esposti in mostra che circoscrivono la sua lunga attività da fotografa: un breve dattiloscritto in tedesco e l’elenco della sua attrezzatura, per un viaggio negli Stati Uniti all’Europa, nella primavera del 1978, redatta dall’agenzia Magnum. 

Nel foglio senza data Inge Morath descrive la storia del suo primo rullino sviluppato a Venezia. Il tono dimesso riduce tutto il discorso fotografico a pochi gesti: la giusta combinazione tra esposizione e diaframma, una buona messa a fuoco, il pulsante di scatto pronto a catturare il soggetto giusto che entra nel posto giusto. A quel punto scrive: “devo diventare una fotografa”.

 

Tra il 1945 e il 1947 lavora per il Servizio d’informazioni americano come redattrice e traduttrice, prima nell’ufficio di Salisburgo e poi a Vienna. Dal 1948 fa la reporter per Heute e inizia a collaborare con il fotografo Ernst Haas. Lavora come traduttrice e giornalista. La mostra di Treviso è estremamente dettagliata: ci sono molte fotografie che testimoniano i suoi viaggi, gli incontri, una linea del tempo visiva che corre parallela a quella stampata sulla parete. Il reportage che pubblica insieme ad Haas nel 1949, dedicato ai prigionieri austriaci di ritorno dai campi di prigionia russi, viene riproposto anche sulla rivista Life

 

E questo attira l’attenzione di Robert Capa che li invita ad unirsi alla neonata agenzia Magnum a Parigi, Haas come fotografo e Morath come ricercatrice e redattrice. Da qui il passo è breve. Nel 1953 Inge realizza il suo primo reportage intitolato “Preti lavoratori”, ed entra a far parte dell’agenzia come membro associato. Tra il 1953 e il 1954 avviene un altro incontro importante: Henri Cartier-Bresson, che accompagna nel 1960, per diciotto giorni, in un viaggio in auto che li porta da New York a Reno, nel Nevada, sul set di Gli Spostati, con Marilyn Monroe e Clarke Gable. Qui scatta uno dei suoi più bei ritratti: una Marilyn quasi scomposta che da sola, lontana dal set, esegue dei passi di danza, e conosce lo scrittore e drammaturgo Arthur Miller, sceneggiatore della pellicola, che diventerà suo marito. 

 

Inge Morath, Marilyn Monroe durante le riprese del film “The Misfits” a Reno, Nevada, USA, 1960 © Fotohof archiv/Inge Morath Foundation/Magnum Photos.


Negli anni seguenti viaggia in Europa, Nord Africa e Medio Oriente. Ritrarre, scrivere e fotografare significa stendere una linea. Una lunga linea che non conosce interruzioni: Cina, Russia, Austria, Regno Unito e Irlanda, Romania, Francia, Stati Uniti, Iran, Spagna, dove nel 1960, riesce a immortalare Lola, la sorella di Pablo Picasso, e l’avvocatessa Doña Mercedes Formica, la quale si batteva per i diritti delle donne nella Spagna della dittatura franchista. 

 

Volti che seguono altri volti: tantissimi artisti (Henri Moore, Jean Arp, Pablo Picasso), scrittori (André Malraux, Doris Lessing, Philip Roth) ma anche gente comune. O interi paesi, come accade con il viaggio in Russia, insieme ad Arthur Miller, alla ricerca dei grandi romanzieri ottocenteschi e dell’anima russa, che poi finiscono nelle pagine dei suoi numerosi libri. La foto-grafia viene intesa come atto di scrittura, ovvero nella sua componente di azione e movimento. In termini fotografici si direbbe sviluppo, l’operazione che rivela ciò che è, ma che non appare ancora. Ma c’è di più: l’idea che accanto ad ogni immagine sviluppata sopravviva un’immagine latente. 

 

Inge Morath, Lama vicino a Times Square, New York, USA, 1957, © Fotohof archiv/Inge Morath Foundation/Magnum Photos.


E questo lo si comprende quando si osservano i suoi ritratti. Tra l’immagine di Marilyn Monroe e quella di un lama che si sporge dal finestrino di un taxi nel traffico di New York si collocano le linee e le maschere di Saul Steinberg, fotografate da Inge nel 1958 e poi raccolte nel libro Masquerade. “Nel 1956, finalmente arrivai a New York e Saul Steinberg accettò di incontrarmi e posare per un ritratto. Suonai il campanello e lui uscì con in testa un sacchetto di carta sul quale aveva disegnato un autoritratto”, racconta la fotografa.

 

I disegni del famoso illustratore sono ritratti, ed il ritratto, che nel suo senso ordinario designa la rappresentazione di una persona, in particolare del suo volto, e in senso più ampio, figurazione, iscrizione o incisione, si volge verso la sostituzione del disegno alla cosa disegnata. La pittrice Hedda Sterne, moglie di Saul Steinberg, sollevava l'una o l'altra maschera di gatto, inclinando leggermente la testa di lato come fanno i gatti quando ascoltano, si appuntava un fiocco di velluto nero sulla nuca e diventava una gatta che sembrava una ragazza, o una ragazza che impersonava una gattina. Allo stesso modo le fotografie di Inge Moraht si sovrappongono al soggetto rappresentato. Sono facies, figure, ma anche cose “fatte”, pagine di un libro. Superfici, narrazioni, storie.

 

Il ritratto racconta i loro volti. Ne rivela l’essenza. Proprio come la notorietà, anche la “palpitazione intima” chiede di essere figurata. L’esteriorità perché “partecipa a una proiezione e a una simbolizzazione; l’intimità, perché si sottrae essenzialmente all’esteriorità della forma e dell’esposizione”. Ma entrambe sono necessarie, anche se sembra che si escludano: “l’intimità vuole essere segnalata, riconosciuta per essere rispettata; la notorietà vuole che la si intuisca abitata da un segreto”, scrive Jean-Luc Nancy, nel suo saggio L’altro ritratto. Questa tensione insondabile è ciò che il ritratto attraversa ed espone: “Rendere visibile l’invisibile”. 

 

E il mezzo per ottenere questo segreto è la tenacia di uno sguardo che si aggrappa al soggetto, come un oggetto desiderato che si vuole immortalare senza tregua. Philip Roth esprimeva quasi la medesima idea, pensando a se stesso nella foto scattata da Inge e insieme al volto della fotografa: “Inge Morath è il voyeur più attraente, vivace e apparentemente inoffensivo che conosca. Se sei uno dei soggetti che vuole fotografare, senza quasi accorgertene, appena abbassi la guardia, lei afferra il tuo segreto prima che possa essere troppo tardi”. Lo stesso pensava Warren Trabant che per primo l’assunse come giornalista: “Aveva gli occhi più brillanti e intelligenti che avessi mai visto”. E infine lei stessa su di sé: “cerco di esprimere le cose che voglio dire, dando loro forma attraverso i miei occhi”. “La chiusura dell’otturatore è un momento di gioia, paragonabile alla felicità di un bambino” diceva la fotografa. E proprio come quello di un bambino il suo sguardo è insistente. 

La gioia di scattare coincide con la parte oscura, il suo vorace voyeurismo. Inge Morath desidera e scatta. E questo desiderio si spinge oltre la fotografia, poiché la pulsione scopica, ovvero l’irrefrenabile impulso a vedere, coincide con il suo desiderio di conoscenza. 

 

Le sue immagini nascono qui. “Prima di buttarmi su un progetto, voglio conoscere il contesto, immergermi nella civiltà in cui mi devo muovere e conoscere almeno i rudimenti della lingua. In quel momento riesco ad arrivare con grande libertà a quello che Henri Cartier-Bresson definisce l’atteggiamento decisivo del fotografo: scattare la fotografia con un occhio ben aperto, che osserva il mondo attraverso il mirino, mentre l’altro è chiuso e scruta nella sua anima”, racconta Inge. Non è un caso che la mostra si apra con un autoritratto scattato in Israele nel 1958 dove si vede il volto della fotografa accostato alla sua fotocamera e si chiuda con la foto di una foto: il medesimo autoritratto sul quale Inge appoggia una pianticella secca da cui spuntano i suoi occhi vivaci. 

 

Un congedo, si potrebbe dire. Molto diverso da quello di Lee Miller, che invece aveva sepolto i suoi occhi e se stessa dentro il fondo oscuro della guerra e della sua Rolleiflex. Ciò che resta è la consapevolezza che la fotocamera, per entrambe, è stata l’interlocutrice privilegiata con cui rappresentare la propria visione del mondo, oscillatoria, indecidibile, drammatica, per Lee Miller e vorace, gioiosa e insistente per Inge Morath. Sapere, vedere, conoscere, ha coinciso con l’atto di fotografare, e l’atto di fotografare ha permesso loro di appropriarsi del mondo. È questo che per ciascuna ha significato costruire la propria vita con le immagini. 

 

 

Mostre:

 

Surrealist Lee Miller, Palazzo Pallavicini, Bologna, 14 marzo – 9 giugno 2019.

 

Inge Morath. La vita. La fotografia, Casa dei Carraresi, Treviso, 28 febbraio – 9 giugno 2019.

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L'ombra di Levi

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Jillian Edelstein

Jillian Edelstein è una fotografa sudafricana. Vive a Londra e lavora nel mondo della moda. Alterna immagini glamour, come quelle che pubblicano le riviste patinate, ad altre più dure. Ha fotografato nel 1986 Primo Levi. Ne è scaturita un’immagine strana, persino paradossale. Lo scrittore alza gli occhiali sopra la fronte. Probabilmente Jillian Edelstein gli ha chiesto di compiere il gesto di levarseli. Levi molto disponibile con chi lo fotografa, l’ha fatto. Si trova controsole e l’ombra della montatura cade sul suo viso e incornicia l’occhio destro; l’altro occhio non si vede. L’effetto è inconsueto: la mano in primo piano, gli occhiali all’altezza della fronte, e il resto del volto non si scorge. Sembra che naso, bocca e barba appartengano a un altro viso. L’immagine è studiata? Probabilmente Jillian Edelstein l’ha colta al volo. Anche a una brava fotografa capita di catturare l’immagine giusta in modo casuale, basta poi saperla riconoscere tra le altre scattate.

 

Questa fotografia coglie un aspetto decisivo della personalità di Levi: la sua natura centauresca. Il centauro, animale mitologico, è stato assunto dallo scrittore torinese come un emblema a partire da un racconto, Quaestio de centauris, pubblicato nel volume di racconti Storie naturali (1966). Natura doppia dell’uomo-cavallo e doppia identità di Levi: scrittore e chimico, testimone e scrittore, italiano ed ebreo. Due nature nella medesima persona. Un dualismo continuato per decenni, dopo l’esordio del 1947. Ne soffriva Levi? Probabilmente sì, dato che due identità insieme creano, come nel caso di Trachi, il protagonista del racconto, vari problemi. La natura anfibia l’ha costretto a destreggiarsi tra due opposti; tuttavia Levi non li ha sentiti come alternative secche, piuttosto come componenti della propria personalità di uomo e scrittore. In un’intervista del 1963, subito dopo la vittoria al Premio Campiello con La tregua, dichiara: “Io sono diviso in due metà, sono un tecnico, un chimico. Un’altra invece, totalmente distaccata dalla prima, è quella nella quale scrivo, rispondo alle interviste, lavoro su esperienze passate. Sono due mezzi cervelli. Una spaccatura paranoica”. Che quello della scissione in due sia un tema che ritorna spesso nella sua opera, in particolare nei racconti, è evidente.

 

Ci sono personaggi che vivono due condizioni contemporaneamente, come Tiresia, trasformato in donna, dopo essere stato uomo, citato nel racconto in Trattamento di quiescenza, e nel romanzo La chiave a stella; poi nelle varie novelle del signor Simpson in Storie naturali. Lo stesso tema del doppio è ben presente nella narrativa di Levi, forse come proiezione della sua dualità; c’è persino un personaggio, Gilberto, che arriva a duplicare la moglie e poi anche se stesso (Alcune applicazioni del Mimete). Immagino che tutto questo Jillian Edelstein non lo sapesse guardando Levi mentre lo fissava con l’obiettivo della sua macchina fotografica quel giorno del 1986. Ha visto solo ombre e un viso diviso in due. Cosa importa? Le foto parlano sempre di più di quello che il fotografo vede mentre scatta. 

 

Leggi anche:

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Levi e Roth

Primo Levi e la macchina da scrivere

Levi che fuma

 

Per la foto di Jillian Edelstein Copyright Camerapress/Contrasto

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