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Legami. Intimità, relazioni, nuovi mondi

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Se negli anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale il neorealismo si occupò di illustrare una nazione in ginocchio nella crudezza un po’ romantica delle sue condizioni di estrema povertà e arretratezza, il movimento artistico degli anni Settanta esplorò invece, in modo quasi esasperante, la condizione intellettuale del Paese, ponendo il pubblico dinanzi a sollecitazioni visive e sensoriali mai percorse prima.

Fu una rivoluzione per l’ambito del costume borghese dell’epoca tanto incisiva quanto quella del movimento del ’68, forse anche di più. Erano gli anni in cui l’emergente artista serba Marina Abramović e l’artista tedesco Ulay, attraverso l’opera icona dell’arte performativa Imponderabilia (Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, 1977), tanto per citare una delle più forti performance per il cattolico pubblico italiano, misero in evidenza una questione tanto intima quanto pubblica: l’interazione dell’individuo con il “corpo”, il proprio e quello dell’altro: il privato con il pubblico, il dentro con il fuori

 

Nuove figure in un interno, la mostra in corso allo CSAC di Parma, curata da Paolo Barbaro, Cristina Casero e Claudia Cavatorta nell’ambito del Festival di Fotografia Europea di Reggio Emilia “LEGAMI. Intimità, relazioni, nuovi mondi”, si sviluppa attraverso una serie di opere che affrontano proprio la rappresentazione di questa dicotomia che si rivelerà in maniera prorompente e contrastante al tempo stesso. 

L’esposizione appare subito come un dialogo tra l’esterno e l’interno, inteso qui come rappresentazione della relazione tra l’individuo, con tutte le sue apparenti innocue contraddizioni, e la collettività vissuta come condivisione della lotta per il bene comune. 

Due sono gli autori immediatamente visibili al pubblico perché esposti in cornice: Luigi Ghirri con la famosa serie Identikit (1976-78) che ritrae la sua libreria personale e Giovanni Chiaramonte del quale viene proposta una serie di immagini pressoché inedita, Finestre (1978), scattate dall’interno di altrettante abitazioni private.

 

Luigi Ghirri, Identikit, 1976-78, C Print, mm215x299.

 

Giovanni Chiaramonte, S.t., da “Finestre”, 1978, C Print, 240x305 mm.


Carla Cerati, Paola Mattioli, Gianni Berengo Gardin, Guido Guidi, Marzia Malli, Mario Cresci, Luciano D’Alessandro e Giovanna Nuvoletti si trovano invece all’interno delle cassettiere dell’Archivio, le loro immagini sono nascoste alla vista dello spettatore che le deve scoprire aprendo i cassetti contrassegnati dalla figurina di un occhio.

 

Diversi sono gli elementi che già solo attraverso questa modalità di esposizione ci conducono a una analisi del guardare. Innanzitutto le fotografie esposte al di fuori dei cassetti rappresentano due situazioni interne: una biblioteca privata e la veduta di un esterno filtrata da una finestra. Entrambe sono frutto dello sguardo dell’autore il quale mostra una visione intima di ciò che in qualche modo gli appartiene creando una sorta di autoritratto: i libri che delineano l’identikit dell’autore nel caso di Ghirri e ciò che in quel momento sceglie di ritrarre Chiaramonte oltre la finestra dell’ambiente in cui si trova (il fuori da dentro). Entrambi sono autori di genere maschile e questo non è privo di importanza in quanto l’introspezione, il guardare con la propria sensibilità interiore, non è in quegli anni prerogativa del fotografo maschio che si trova piuttosto in prima linea. Abbiamo quindi a che fare con una versione femminile dello sguardo maschile

Le fotografe donne, invece, sono chiuse nei cassetti (anche alcuni uomini per la verità, ma noi qui vogliamo occuparci principalmente delle “fotografe”). Sia Carla Cerati sia Marzia Malli entrano in una situazione che non appartiene loro da un punto di vista personale poiché ritraggono interni (le famiglie che abitano le case di ringhiera la Cerati e la preparazione a un matrimonio la Malli) dove entrambe mostrano il loro punto di vista interiore che osserva fuori da sé. Rispetto ai due precedenti lavori vi è qui la volontà di mostrare cosa avviene in una determinata situazione domestica e privata, dalla quale però le autrici prendono in qualche modo distanza: l’osservazione è esterna, diventa pubblica.

 

 

Carla Cerati, S.t., da Donne di ringhiera, 1977, stampa fotografica in bianco e nero, 398x300 mm.


Marzia Malli, s.t. (matrimonio), 1977-78, stampa fotografica in bianco e nero, 175x238 mm.


La perfetta sintesi dell’elemento esterno (il fuori) con quello interno (il dentro) è data però dal contesto fotografato da Paola Mattioli con il suo famoso lavoro “Le immagini del NO”. Il “NO” del titolo fa riferimento al referendum cardine di quegli anni, quando la maggioranza degli italiani votò affinché la legge che introduceva l’istituto del divorzio venisse mantenuta. Paola Mattioli affronta qui il tema con un doppio registro linguistico, altamente contrastante, utilizzando il bianco e nero per il reportage più classico e il colore per ritrarre le case occupate del quartiere Gallaratese di Milano dipinte con colori primari, opera dell’architetto comunista Carlo Aymonino.

All’interno dei cassetti che racchiudono le immagini di Mattioli, notiamo almeno due diversi livelli di scoperta. Il primo riguarda la consapevolezza intellettuale di usare un linguaggio preciso, il colore, per ritrarre altrettanto consapevolmente una situazione; il secondo mostra come la fotografa riesce a unire l’esterno con l’interno senza dover necessariamente “cercare una storia”, un nesso, ma addirittura cambia stile. 

Dall’analisi che Mattioli stessa fa delle sue immagini attraverso un video esposto in mostra, veniamo introdotti in una lettura molto precisa degli elementi evidenziati nelle fotografie. La bandiera rossa posta all’ingresso dell’abitazione occupata ad esempio riflette il senso non soltanto della lotta collettiva ed esterna (il fuori) è altresì posta a difesa di un interno umano che racconta la quotidianità di una famiglia (il dentro). 

 

Paola Mattioli, s.t., da “Immagini del NO”, 1974, Cprint.


Lo scenario è quindi quello di un esterno collettivo in cui ci si prepara a manifestare e si mostrano i simboli del contrasto elettorale e un interno privato dove il materasso è posto per terra in un angolo, le pareti sono ricoperte di una tappezzeria molto semplice, un bambino piange perché cadendo si è rotto un dente. L’interno diventa quindi “una situazione di occupazione estremamente umana e precaria – dice l’autrice – testimonia l’umanità della lotta”. 

 

Paola Mattioli, s.t., da “Immagini del NO”, 1974, Cprint.


Lo stupore che la fotografa esprime nel descrivere la situazione oggettuale della famiglia qui ritratta indica il carattere ideologico dell’associazione privato/politico (e dunque pubblico); ma la sua capacità di osservare ci fa capire in qualche modo che i due aspetti non necessariamente collidono.

Nel momento in cui il reportage, passando dall’utilizzo del bianco e nero che ritrae le situazioni di lotta collettiva – dove gli individui appaiono “anonimi” (sono il fuori che resta dentro) – giunge a una situazione “privata”, l’uso del colore trasforma gli appartamenti occupati e gli individui stessi in “visibili” (sono il dentro che esce fuori). 

Il fuori generalizzato, seppure identificato chiaramente, diviene così il dentro personale e le due condizioni giungono a sovrapporsi. Ma tale sovrapposizione durerà lo spazio di pochissimi anni. 

 

Il tema della relazione con il corpo attraverso la sua evidenza anonima prima e visibile poi affrontato all’epoca, colloca lo sguardo del fruitore in una dimensione ben precisa e consapevole, quella della posizione dell’essere umano nel contesto collettivo. L’affievolirsi dell’esperienza di quegli anni la cui causa primaria è in massima parte riconducibile all’espansione della TV commerciale e alla caduta dei muri a difesa del comunismo, ben presto partorirà miliardi di immagini impregnate di ipervisibilità provocando l’effetto contrario a quello rivoluzionario d’allora: la capitolazione del senso a favore del nulla. La Fine delle trasmissioni.

 

Nuove figure in un interno, nell’ambito dell’edizione 2019 di Fotografia Europea dal titolo Legami. Intimità, relazioni, nuovi mondi. CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione, dal 13/05 al 21/07/2019.

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Il dentro e il fuori
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Georges Didi-Huberman prende posizione

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La figura è una Madonna con Bambino, e insieme una Pietà. Lei, inquadrata leggermente dall’altro, Lo sorregge ma anche Lo ostende, Lo mostra a chi Le sta davanti. I Loro sguardi divergono: quello di Lei si piega verso l’alto invocando appunto Pietà, mentre quello di Lui è sereno, curioso, forse divertito. In calce alla fotografia, quattro versi: «E molti di noi affondarono nei pressi / delle coste, dopo lunga notte, alla prima aurora. / Verrebbero, dicevamo, se solo sapessero. / Che sapevano, noi non lo sapevamo ancora». Alla pagina a fianco, una didascalia traduce quella che figura in fondo al ritaglio stampa: «Rifugiati senza rifugio. Questa madre ebrea e il suo bambino sono stati ripescati dal mare insieme con 180 altre persone, che cercavano rifugio in Palestina. Ma 200 sono annegate quando il Salvador si sfracellò contro le coste rocciose della Turchia. Il Salvador non era la prima nave. La Patria esplose con a bordo 1771 persone […]. La Pacific fu costretta, con 1062 profughi, a proseguire il viaggio senza sbarcare in Palestina […]. A parte l’odissea dei 500 ebrei su una nave che fu rimandata di porto in porto per quattro mesi. Vengono da tutte le parti d’Europa, ammassati come bestie su carrette incapaci di tenere il mare […]. La quota di immigrazione in Palestina ne prevede 12000 all’anno. Le navi da carico e per il bestiame portano un carico nuovo, una nuova specie di contrabbando umano.

 

 

Nell’ultimo anno 26000 persone sono state introdotte clandestinamente in Palestina. Ma che ne sarà dei sette milioni? Il bambino può giocare con il suo piede – si sente a casa sua in braccio alla madre. Non sa che suo padre è annegato nel mare di Marmara. Solo la madre sa che la morte per annegamento in vista della cosa è doppiamente atroce».

Non è cronaca di oggi, è la storia di sempre. Si tratta infatti della tavola 48, delle 69 che si susseguivano, nel 1955, nell’Abicì della guerra di Bertolt Brecht. Un testo che a sua volta a lungo dovette cercare approdo: ideato nel ’40 durante l’esilio in Finlandia, alcune tavole ne escono nel ’44-45 su una rivista di fuoriusciti in America, ma al ritorno di Brecht in Germania viene rifiutato, nel ’48, dall’editore Desch (allorché lui annota, nel Diario di lavoro, che del passato nazista «niente è stato liquidato anche se quasi tutto è distrutto»); nel ’54 l’Ufficio per la Letteratura della Repubblica Democratica ne deplora le «tendenze pacifiste», poi Brecht viene insignito del Premio Stalin e si trova nell’interessante condizione di dover dare in prima persona l’imprimatur al suo testo; lui stesso, a quel punto, decide di censurarne venti tavole (che verranno pubblicate solo nel 1985, e mancano tuttora dall’edizione italiana: frettolosamente riproposta da Einaudi nel 2002 dopo la bella princeps del ’72, con traduzione di Roberto Fertonani, tre anni dopo stravolta da Renato Solmi per renderla «immediatamente accessibile a un pubblico di giovani e di operai») e finalmente, l’anno dopo, il libro può uscire. Ma senza alcuna eco: e Brecht deve prendere atto (quarant’anni prima del Sebald della Storia naturale della distruzione) della «rimozione insensata», da parte dei lettori tedeschi, di «tutti i fatti e giudizi riguardanti il periodo hitleriano e la guerra».

 

 

Sempre si parva licet, con sensibile ritardo – a più di dieci anni dalla pubblicazione in Spagna e in Francia – esce (per le cure non impeccabili di Francesco Agnellini e il package non accattivante di Mimesis, pp. 289, € 22) Quando le immagini prendono posizione di Georges Didi-Huberman: primo volume di una serie, L’occhio della storia, che da Minuit ha contato, fra il 2009 e il 2016, sei titoli (seguiti da una ulteriore serie di pubblicazioni a partire dalla mostra Soulèvements, che nel 2016 al Jeu de Paume è stata il precipitato di questo suo lavoro storico e teorico); e che proprio al lavoro verbovisivo e iconotestuale di Brecht è dedicato – a cavallo fra l’Abicì (Kriegsfibel), il monumentale Diario di lavoro (Arbeitsjournal, da Einaudi nel 1976 in due volumi, sempre precedenti le edizioni critiche degli anni Novanta) e i Modellbücher dei testi per il teatro. S’è scelto dunque un Virgilio proverbialmente scontroso, Didi-Huberman, per una svolta “politica”, la sua, che non a caso ha lasciato perplessi (non senza impazienze e ingenerosità francamente eccessive) molti degli ammiratori (a suo tempo sfegatati e del pari troppo acritici, magari) dei suoi lavori anni degli Ottanta e Novanta (i quali a loro volta giunsero da noi con un buon decennio di ritardo: da un punto di vista editoriale non porta bene, a GDH, la divisa teorica dell’anacronismo cui da sempre è fedele). Ma, come nei suoi entusiasmanti pindarismi teorici non nasconde, e anzi valorizza, i conflitti di piani temporali, così nell’Œil de l’Histoire GDH non si sottrae, com’è giusto, ai dilemmi e alle vere e proprie aporie cui lo espone, e ci espone, il pensiero, prima che la prassi artistica, di Brecht.

 

 

Questi aderisce infatti, nel 1950, al programma leninista (e alla prassi stalinista) della «pianificazione delle arti» da parte del partito, che deve «proporre agli artisti dei problemi» (anche se non si nasconde che «da persone che siano state costrette a piegare la testa non è facile riuscire ad avere opere non servili»), in vista della «mobilitazione delle nuove masse di lettori»; e già qualche anno prima, negli appunti Sul realismo socialista, faceva venire i brividi il suo elogio dell’«avveduta presa di posizione di Stalin rispetto a Majakovskij, che è un distruttore di forme di prim’ordine, e della sua interessante affermazione che i poeti dovrebbero essere gli ingegneri dell’anima» (ma questa sua posizione era già implicita nelle frasi sprezzanti, rivolte all’incredulo Walter Benjamin che era andato a trovarlo a Svendborg, su Kafka che «ha visto il futuro, senza vedere che cosa è»: nel dopoguerra i comunisti francesi, chiedendosi se non fosse il caso di bruciarlo, Kafka). Eppure è lo stesso Brecht che, nella Kriegsbibel e forse ancor più nell’Arbeitsjournal, pratica un’arte del montaggio che sfida dadaisti e surrealisti sul loro stesso terreno (al punto che Ernst Bloch, in polemica con Lukács, poteva accostarlo oltre che a loro – da Brecht disprezzati, in quanto dilettanti di ebbrezze e misticismi profani – anche a Proust e a Joyce – che invece Brecht apprezza per aver «modificato la concezione del romanzo» –: tutti artefici dell’«epoca caleidoscopica»).

 

 

Ingrandendo le tavole montate da Brecht con l’aiuto della sua amante fotografa Ruth Berlau, e svolgendole come in una sequenza cinematografica – raddoppiando cioè, nella forma saggistica, il principio del montaggio che analizza – Didi-Huberman ci mostra come questo Brecht, davvero, si possa leggere meglio in sintonia con Moholy-Nagy, Ėjzenštejn e naturalmente Benjamin che con l’ortodossia neohegeliana. La verità è concreta– secondo il motto che Brecht aveva scritto sulle tavole del suo studio durante l’esilio –, sì, ma proprio in quanto conflittuale, contraddittoria, obliqua: il lettore della Kriegsfibel non «dispone della “verità”, ma vede piuttosto dei missili, frammenti, schianti di verità che si disperdono qui e là, nella “dis-posizione” delle immagini» (e sono acutissime le pagine di GDH sullo straniamentoVerfremdung– teorizzato e praticato da Brecht, nella sua forma più audace e rivoluzionaria, proprio nei lunghi anni dell’esilio: «come se la sua posizione estetica sull’estraneità andasse di pari passo con la sua situazione poetica di esiliato, di straniero»). Una forma, il montaggio, figlia della guerra. Non la seconda, di cui parla l’Abicì, bensì la prima: come se, scrive GDH, «le trincee scavate in Europa durante la Grande Guerra avessero suscitato, nel campo estetico come in quello delle scienze umane – si pensi a Georg Simmel, Sigmund Freud, Aby Warburg, Marc Bloch –, la decisione di mostrare attraverso i montaggi, cioè per dislocazioni e ricomposizioni di ogni cosa». Il montaggio, irriducibile «presa d’atto del “disordine del mondo”» (splendida formula brechtiana, che pare appunto mutuare quelle del Simmel della tragedia della cultura), diventa così «il metodo moderno per antonomasia».

 

 

In questo modo la maniera iconotestuale della Kriegsfibel può riassumere in sé i modi contrastanti degli architesti specificamente germanici: da un lato il dadaista Deutschland, Deutschland über alles di Kurt Tucholsky e John Heartfield (da poco riproposto da Meltemi, a cura di Maurizio Guerri: ben ne ha scritto su Alias Giorgio Fabre), e ancor più da vicino il precedente Guerra alla guerra dell’anarchico Ernst Friedrich (che Brecht elogia nel 1926); ma anche, all’altro capo dello schieramento politico, il perturbante (e purtroppo formidabile) Ernst Jünger del Mondo mutato (che sempre Guerri ha restaurato da Mimesis), apparso alla vigilia della presa di potere di Hitler, che sulle masse naziste getta il solito sguardo gelido, minerale (stigmatizzandole, si capisce, ma da destra).

 

 

Così davvero le immagini prendono posizione (e non partito, distingue con un filo di volontarismo Didi-Huberman), sia in senso ideologico che nell’architettura della pagina-campo di battaglia. E imprimono, alla carsica tradizione dell’iconotesto, quella natura intrinsecamente conflittuale (anche se non sempre politicamente tale) che le è propria. Nel fotografare una storia tragica, prendono una forma tragica – ancorché modernisticamente tale, per via appunto di montaggio. E così davvero si può parlare dell’occhio della storia: «come si dice l’occhio del ciclone».  

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Brecht nell’occhio del ciclone
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La casa di Levi

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René Burri

Quando nel 1985 il fotografo svizzero René Burri va a trovare Primo Levi per ritrarlo, è membro della agenzia Magnum da venticinque anni. Ha fotografato Che Guevara, Alberto Giacometti, Le Corbusier e altri personaggi della cultura e della politica internazionale. Sceglie di coglierlo in casa sua, nel suo ambiente domestico. Quello stesso anno, in febbraio, è uscita un’opera dello scrittore torinese, L’altrui mestiere. Burri possiede uno sguardo empatico con i soggetti che ritrae, perlopiù persone. Probabilmente non ha letto quel volume. L’altrui mestiere si apre con un testo dedicato all’abitazione dello scrittore: La mia casa. Vi dichiara la sua appartenenza a uno spazio preciso: “Abito da sempre (con involontarie interruzioni) nella casa in cui sono nato”. Si paragona a certi molluschi, le patelle, che dopo un breve stadio larvale, in cui si muovono liberamente, finiscono per fissarsi a uno scoglio, secernono il proprio guscio e non si muovono da lì per tutto il corso della loro vita. Un autoritratto inconsueto, che include anche la descrizione della casa, sia all’esterno che all’interno. Alcuni spazi dell’appartamento gli sollecitano ricordi famigliari: la porta d’ingesso, un angolo fra il muro e il guardaroba, il corridoio. In particolare c’è una stanza che nel corso degli anni ha avuto destinazioni diverse: da salotto buono a ufficio del padre, da dormitorio per i parenti che hanno perso la casa durante la Seconda guerra mondiale a “laboratorio multiplo”.

 

Burri è entrato in quella casa, descritta solo in parte da Levi, e ne ha tratto diverse immagini. Le case degli autori sono sempre state oggetto d’interesse e, quando è possibile, di visita. Suscitano una particolare curiosità, quella che collega la vita all’opera, come se tra le due vi sia un nesso afferrabile. Spesso è così. La casa è il luogo dove l’autore è vissuto e ha scritto. Ecco l’immagine scattata da Burri della stanza dove Levi lavora ai suoi libri. La fotografia abbraccia un ampio spazio, partendo dallo scrittore, seduto dinanzi al suo computer. Davanti a lui c’è il tavolo, su cui sta maneggiando il mouse. Sulla sua sinistra un apparecchio per la climatizzazione, dietro si scorge la libreria; sul fondo un altro tavolo ricoperto da un panno verde e sedie attorno. Due finestre luminose; attraverso la prima s’intravede un edificio di fronte con la sua ampia vetrata. In primo piano, c’è una lampada e sul tavolo la macchina per scrivere ricoperta da un telo di plastica. Siamo in un mese primaverile, o almeno temperato. Lo scrittore indossa una camicia con le maniche corte e un gilet scuro. Tiene lo sguardo fisso allo schermo del suo elaboratore, un Mac. Burri ha voluto ritrarlo mentre scrive.

 

La fotografia fornisce un’immagine di tranquillità, niente che possa collegare questa camera all’autore di Se questo è un uomo, al testimone di Auschwitz. Non so se questa sia l’idea che il fotografo svizzero aveva in testa entrando nell’abitazione di Primo Levi. Nell’articolo lo scrittore spiega che il suo alloggio ha conservato negli anni un aspetto anonimo e impersonale. Lui ha chiesto alla sua dimora solo il soddisfacimento dei bisogni primari: spazio, calore, comodità, silenzio, privatezza. Il rapporto che ha con la sua casa, scrive, è di natura gattesca; non ha mai pensato di abbellirla o arricchirla, precisa. Inoltre, non crede che il suo modo di scrivere risenta dell’ambiente in cui è vissuto, né che questo ambiente traspaia dalle cose che scrive. L’ultima frase del testo aggiunge un dettaglio importante: “Abito la mia casa come abito l’interno della mia pelle”. Ecco cosa ha fotografato quel giorno René Burri: la pelle di Primo Levi. Lui scrive che non la cambierebbe con nessun’altra pelle. Questa è la vera abitazione di questo scrittore, la superficie su cui è inciso un numero: 174517.

 

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Paolo Pellegrin. Gridare con gli occhi

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C’è un verso di René Char in Fogli d’Ipnos che fa pensare alla fotografia contemporanea, e in particolare a quella di Paolo Pellegrin: “Solo gli occhi sono ancora capaci di gettare un grido”. Guardando le immagini che il fotografo romano ha scattato a Lesbo tra i migranti, oppure a Gaza, nei campi profughi del Medio Oriente, negli innumerevoli scenari di guerra intorno a noi, negli slums americani, si è portati a pensare che Pellegrin vuole far gridare i nostri occhi. Non lo fa mettendo in scena lo scempio dei corpi, le violenze perpetuate sulle persone in modo continuato e perverso, bensì fissando pietre, persone di schiena, visi, panni stesi, rotoli di filo spinato, muri, lamiere. 

La fotografia contemporanea, in particolare quella dei fotoreporter e degli inviati di guerra, ha dovuto affrontare un problema che Susan Sontag aveva segnalato anni fa: il contenuto etico delle fotografie appare molto fragile. Forse solo mettendo in mostra i massacri, a partire dal massacro dei massacri che sono stati i Lager nazisti, ovvero esibendo l’orrore, solo così la fotografia può raggiungere e accrescere il nostro senso morale. Tuttavia Susan Sontag è stata perentoria nel suo saggio raccolto in Sulla fotografia: “Il limite della conoscenza fotografica del mondo è che, se può spronare le coscienze, non può essere alla lunga, conoscenza politica o etica. La conoscenza raggiunta attraverso le fotografie sarà sempre una forma di sentimentalismo, cinico o umanistico”. 

 

Persone in fuga dalla Libia durante gli scontri tra ribelli e forze armate pro Gheddafi. Valico di frontiera di Ras Jdir nei pressi di Ben Gardane. Tunisia, 2011. © Paolo Pellegrin/Magnum Photos.


Il pensiero implicito della scrittrice americana riguarda il valore estetico della fotografia, la sua capacità di mobilitare, nonostante tutto, la bellezza, e quindi di elidere il messaggio etico che l’immagine potrebbe o vorrebbe veicolare. Il problema si pone davanti a molte delle immagini che quotidianamente vediamo sui giornali, nelle riviste, nel web, oppure esposte nelle gallerie e nei musei. 

La fotografia sembra aver oscurato la nostra capacità di guardare grazie all’eccesso degli scatti quotidiani di cellulari e macchine digitali. Non siamo più in grado di gridare con gli occhi? No, lo siamo; i nostri occhi continuano comunque a gridare. E questo anche dopo l’immagine del piccolo Alan steso sulla spiaggia di Bodrum il 2 settembre 2015, reiterata in milioni di schermate nei social di tutto il mondo. 

Allora cosa sono esattamente le fotografie di Paolo Pellegrin esposte in questa mostra? Sono descrizioni di tragedie, di avvenimenti dolorosi e luttuosi: un popolo che fugge dalla sua patria devastata dalla guerra, un altro che s’accampa in un lembo di terra di nessuno, un uomo che combatte per la sua libertà, altri uomini e donne che si ribellano, tutte realtà che conosciamo a distanza sul visore del nostro computer o nello schermo del televisore. Paolo Pellegrin fa urlare gli occhi attraverso dettagli, visioni improvvise, attimi colti al volo in momenti irripetibili, eppure salienti: qualcosa è già accaduto e continua ad accadere. Egli ha compiuto il percorso inverso di quello descritto da Susan Sontag: per potere mostrare ciò che non si può mostrare, è ricorso alla bellezza e all’arte. Si è fatto artista, là dove la fotografia ha preso storicamente a proprio carico la funzione del testimone. Per questo Pellegrin non fa vedere, bensì immaginare. 

 

Edifici residenziali si ergono oltre il cancello divelto di un ristorante sul mare. Questa spiaggia era animata da pescherecci e caffè, ma il blocco navale israeliano, i liquami e la carenza di risorse per la ricostruzione hanno avuto conseguenze disastrose. Gaza, 2011. © Paolo Pellegrin/Magnum Photos.


Sappiamo che lo statuto della testimonianza è assai incerto, sia quando è affidata alla memoria e alla voce umana, sia quando è un’istantanea scattata in un momento e un luogo precisi. Un altro scrittore, John Berger, ci ha ammonito circa il potere di testimonianza delle immagini: possono mentire. Le immagini, ha scritto Berger, hanno bisogno di parole per dire quello che vogliono dire. Tra Scilla della bellezza e Cariddi della testimonianza, Pellegrin ha scelto in queste immagini esposte a Pistoia la strada dell’immaginazione. Più che far vedere, queste fotografie fanno immaginare: muovono i nostri sensi in direzione di un fantasma che non c’è. Usano quello che c’è – l’immagine di un gruppo di uomini immersi nell’acqua intorno a un’imbarcazione vicino a riva – per farci immaginare il viaggio di chi è arrivato sin lì attraversando deserti, campi profughi, mari procellosi. Solo l’immaginazione può suffragare tutto quello che precede e segue un’immagine. L’immaginazione muove l’empatia e la compassione. 

 

Queste immagini esposte a Pistoia usano la bellezza per far immaginare e pensare. Cosa sono quelle pietre per terra, la lamiera rinforzata da un palo di legno, lo scudo di metallo tenuto dalla mano aperta, il viso attonito di una ragazza? Sono immagini, appunto, di qualcosa che non vediamo, ma che possiamo immaginare. In questo Pellegrin fa ricorso alla nostra memoria e alla fantasia, cita senza mostrare tutto quello che noi già sappiamo del mondo, della vita, degli oggetti, delle innumerevoli situazioni possibili e impossibili. Fa persino ricorso alla nostra esperienza, per quanto limitata, frammentaria e incompleta. La completa suggerendoci di immaginare a cosa servono quelle pietre o cosa è accaduto a quell’uomo visto di spalle o ai volti degli uomini e delle donne che s’accalcano in una fila scomposta e angosciata in un’isola greca. Sono istanti vissuti che rinviano al nostro vissuto e al nostro immaginario, dove da tempo si sono accumulate altre immagini, sensazioni e pensieri. La bellezza, come ci mostrano ad esempio i quadri di Caravaggio – le immagini di strazio che quel pittore ci ha trasmesso con la sua pittura –, risiede in qualcosa che trascende l’estetico in senso stretto, per proiettarsi in uno spazio altro, dove l’immagine vive di una propria specifica bellezza. 

 

© Paolo Pellegrin/Magnum Photos.


In questo Pellegrin ha scavalcato l’obiezione di Susan Sontag proprio perché non ha cercato di mobilitare il nostro senso etico, e al tempo stesso non si è preoccupato di darci delle belle immagini. Ci ha fornito piuttosto immagini incomplete, frammentarie, sottratte al flusso della vita per farci immaginare cos’è la vita, quella che abbiamo vissuto e quella che abbiamo solo immaginato. La nostra vita e quella degli altri, perché sono sempre gli altri che vediamo raffigurati in queste immagini, gli altri che siamo noi, se solo la vita che avremmo potuto vivere fosse stata la vita degli altri, gli altri che pure non conosciamo e che ora vediamo solo per un istante fissati nel riquadro della fotografia: “Solo gli occhi sono ancora capaci di gettare un grido”.

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Levi e il Golem Mac

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Mario Monge

Nel settembre del 1984 Primo Levi si compra un Golem. Non l’automa di argilla creato da un rabbino-mago di Praga, ma quello che lui stesso definisce un “elaboratore testi”, ovvero un computer. L’analogia figura in un suo articolo, e gli è suggerita dal fatto che, per far funzionare la macchina, bisogna introdurre nella fessura alla sua base, quasi una bocca, un disco-programma, così come il rabbino immette nella bocca del gigante di argilla una pergamena per vivificarlo. Il Golem è un Mac, come si vede in questa fotografia di Mario Monge, fotografo torinese scomparso nel 1999, amico di Guido Ceronetti, che ci ha lasciato bellissime immagini anche di Italo Calvino.

 

Come altri fotografi, nel giugno del 1986 Monge ha fissato Levi al lavoro col suo elaboratore. Una foto inconsueta, per via del profilo controluce dello scrittore, quasi una silhouette: foto al nero. Ricorda una foto segnaletica, seppure senza i dettagli del viso e della testa. Si scorge il pizzetto in basso, gli occhiali a metà e i capelli in alto, al termine della fronte spaziosa. In un articolo pubblicato su “La Stampa” due mesi dopo l’acquisto, Levi spiega a cosa gli serve il Golem-Mac, che paragona a un gadget di lusso: a scrivere, a disegnare, a giocare a scacchi. Primo è coadiuvato dal figlio Renzo, che compare nell’articolo (Personal Golem) sotto le vesti di un giovane che paternamente istruisce il genitore a usare il computer. Gli spiega che lui è ancora un austero umanista, perché vuole comprendere il funzionamento della macchina (“sai forse o ti illudi di sapere, come funziona il telefono o la Tv?”). Col computer bisogna lasciar fare all’abitudine; i manuali, poi, non servono: come si può imparare a nuotare senza entrare in acqua? Il pezzo è ancora attuale oggi che sono trascorsi trentacinque anni, mentre il Mac ritratto da Monge è ora un reperto archeologico. Nell’articolo Levi spiega come la presenza dell’elaboratore testi induca a essere prolissi, dato che tutto è facile e certamente meno faticoso della scrittura a mano, o con la macchina per scrivere. La manualità qui è quasi assente.

 

Un’osservazione interessante: l’essenzialità e la laconicità sono due caratteristiche tipiche dell’opera di Levi. Dopo l’introduzione del computer ha cambiato stile? In realtà l’unico libro scritto, o meglio ribattuto, al computer è I sommersi e i salvati e alcuni capitoli di un libro narrativo rimasto incompleto, cui stava attendendo prima della morte. Ma fa venire in mente un altro dettaglio del “lavoro manuale” di Levi. Quando nel 1956 diede a Einaudi Se questo è un uomo, poi uscito nel 1958, non ribatté a macchina l’intero libro aggiungendo trenta pagine nuove distribuite qui e là nel libro, compreso un nuovo capitolo. Consegnò invece al redattore, che lo seguì fino alla stampa, l’edizione del 1947 uscita da De Silva, quella donata alla moglie (c’è la dedica con matita rossa), e aggiunse dei fogli di carta: alcune cartelle per le parti più lunghe e striscioline per quelle più corte. Il tutto incollato con nastri nelle pagine del volume. Una forma di economia che ben si attaglia alla sua persona, e anche alle cose che scrive nel 1984 in Personal Golem (ora in L’altrui mestiere con il titolo: Lo scriba).

 

Verso la fine del pezzo spiega la sua paura: perdere quello che ha scritto dopo aver faticato tanto a farlo. Il testo su carta può perdersi o finire in un tombino e la cosa “faticata, unica, inestimabile, quello che ti darà vita eterna” può anche scomparire. Però la “carta canta”, come si dice, mentre le parole che appaiono sullo schermo, “nitide, ben allineate”, sono solo ombre: “sono immateriali prive del supporto rassicurante della carta”. Nella foto di Monge si vede lo schermo. Anni fa, mentre lavoravo alla prima edizione delle opere complete di Levi, ho guardato lo scatto del fotografo torinese con una lente d’ingrandimento e mi sono accorto che lo scrittore stava componendo una poesia: Soldato. Era inedita. L’ho trascritta e pubblicata nelle note al volume. Non è completa, ma non si è persa. La scrittura digitale non è durevole come quella incisa su pietra; tuttavia dura nel tempo se diventa a sua volta un’immagine come questa fotografia di Mario Monge.

 

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Tutto quel nero

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Tutte le immagini che abbiamo ospitato nei nostri occhi, da quando siamo nati, si sono accumulate, giustapposte, sovraimpresse, assorbite, sovrapposte, mescolate nella memoria della nostra retina, delle cellule recettoriali o nel nostro cervello? E le immagini di rango superiore cosa hanno mosso nel nostro processo evolutivo? Molte sono state volutamente rimosse, dimenticate, perdute? Anche le idee che arrivano dall’esterno e le questioni concettuali rimangono impigliate nella visione retinica? Immaginiamo un riavvolgimento a ritroso per ripercorrere il loro passaggio in noi. Probabilmente questo viaggio nel sedimentato figurativo dà luogo a una narrazione o a una serie di collegamenti o a una riattivazione di ricordi e di emozioni, o solo a un miscuglio di cose. Oppure, e forse dipende dalla velocità del percorso au rebours, il risultato di queste immagini sovrapposte suggerisce un indecifrabile buco nero o forme astratte. Figuriamoci allora un lento fermo immagine ritmico, una scansione in grado di innescare un’azione catartica. Oppure – visto l’epoca che viviamo in cui la proliferazione su larga scala di materiale visivo disponibile in rete e l’iperproduzione di immagini ci induce una sorta di rifiuto o un desiderio di pace momentanea – proviamo a sacrificare le immagini futili, un numero randomico di figure e fotografie anonime, per dare forma a nuove immagini, selezionate, necessarie, da preservare nell’interiorità. 

E se invece da questo viaggio nella storia delle immagini interiori scoprissimo la presenza di immagini fuori controllo, la trama di pixel che ha lasciato segni e forme astratte, un ritmo cromatico indisciplinato e caotico, le imperfezioni, la microsporcizia, indizi fuorvianti, la polvere o altro? In questi paesaggi immaginali prendono forma anche diverse atmosfere. 

 


Alessandro Calabrese, Untitled 12, 2014.


Abbiamo incontrato Alessandro Calabrese, artista che da anni conduce la sua ricerca in questi stati liminali, sondando la natura ambigua delle immagini, le presenze lasciate e abbandonate in superfici provviste di memoria. In una delle sue mostre erano esposti grandi pannelli, bianchi o neri, – dove, erano poste domande tipo: “What can you remember of your childhood summers?”, “What is the most boring thing you can think of?” – con grafici stilizzati delle possibili risposte che avrebbero potuto dare i fruitori. E quali risposte può dare ora un livello più evoluto della fotografia? Calabrese non prova interesse per le narrazioni e per le opere che raccontano qualcosa, ma cerca di trasformare un momento della realtà in una sorta di azione purificatrice e perturbante al contempo. Proviamo a seguire il suo percorso concettuale, per cercare di comprendere quale possa essere il valore catartico delle immagini e come metterlo in azione nella vita quotidiana.

 

Mauro Zanchi: Proseguendo oltre le teorie di Warburg e le dinamiche della postfotografia, cosa èper te, in questo momento, un'immagine, e come la relazioni con il medium che hai scelto di utilizzare?

Alessandro Calabrese: Questa tua prima domanda mi permette di parlare praticamente di tutto quello di cui mi sono occupato nei primi anni di pratica, da quando ho terminato gli studi fino al 2017, quando ho presentato The Long Thing, in occasione della prima personale nella galleria Viasaterna. 

Ho iniziato utilizzando la fotografia, che per me rimane un mezzo in grado di registrare “qualcosa” (scegliendo il momento, il soggetto, l’inquadratura, etc…) con una macchina fotografica, sottraendola alla realtà che ci circonda, senza particolari artifici. Tutto quello che non passa attraverso un obiettivo e finisce registrato su una pellicola o su di un sensore digitale è “altro” e rientra nel più vasto mondo dell’immagine. Per questo dico sempre che negli ultimi due progetti che ho realizzato, The Long Thing e A Failed Entertainment, non mi sono occupato strettamente di fotografia ma di immagine, e non lo dico per distaccarmi da tutto quello che riguarda la scena fotografica, ma, al contrario, per rispettarla. L’immagine è davvero tante cose: può essere un dipinto, un meme, uno still da video, uno screenshot del monitor, una serie di figure e colori generate da un’intelligenza artificiale, e anche, ovviamente, una fotografia classica.

 

Alessandro Calabrese, Untitled 15, 2014.


Quale èil tuo punto di vista sullo spostamento verso un'altra possibilitàdella fotografia?

La fotografia sicuramente sta cambiando forma. Però se guardiamo alla sua storia, possiamo dire che questo tentativo è stato ciclico fin dalla sua nascita. Ha avuto picchi in alcuni periodi e in altri meno, ma da parte della fotografia c’è sempre stato un sentimento di stare stretta a se stessa (sui motivi potremmo discuterne a lungo). Ogni sistema trova il suo equilibrio per un po’, dopodiché arriva qualcosa a perturbare la stabilità, qualcosa di “punk”. Questo stesso elemento si stabilizzerà a sua volta diventando ordinario/moda, fino al prossimo ciclo. Oggi siamo in un momento particolarmente burrascoso, mi pare, ma credo sia anche perché abbiamo la possibilità di esserne partecipi su larga scala. Siamo tutti in mare anziché sulla costa. Possiamo vedere da vicino quello che combina ogni singola persona al mondo dotata di connessione internet, e più o meno tutti possono potenzialmente sperimentare con l’immagine. Un secolo fa era ovviamente diverso, però oggi guardo i lavori di Christian Schad, Man Ray, Moholy-Nagy, o prima ancora Talbot, e allora mi chiedo quante volte sia già morta e risorta (e quante ancora continuerà a farlo) questa disciplina.

 

In cosa consiste secondo te questo spostamento e l’andare oltre il medium fotografico?

Rappresenta il liberare un proprio punto di vista, inteso come pensiero, per darlo in pasto al mondo, renderlo collettivo, accettando anche il possibile cambio di significato.

E consiste semplicemente nell’abbracciare i cambiamenti del mondo stesso. Tocca alla nostra generazione andare oltre (anche se io direi che stiamo andando un po’ attorno, a lato, più che oltre), perché siamo i primi a fare i conti con questa realtà, radicalmente cambiata di recente, come mai prima. In fotografia è utopico costruire da zero, ma si deve, invece, sempre attingere dal reale. Una volta che quest’ultimo ha qualcosa di nuovo da offrire allora anche la fotografia stessa può mutare. Ho delle riserve sulle modalità, eventualmente, nel senso che mi interessano soltanto quelle derive che hanno come fine principale una riflessione sul mezzo stesso, cioè che si perdono oltre/attorno/a lato, per poi tornare alla base. Stavo ascoltando un’intervista a Edoardo Sanguineti di recente. Sul finale parla di cinema, del quale era molto appassionato, e ricorda la potenza della scoperta nel periodo Lumiere relativa al filmare da un treno, quindi il nuovo punto di vista, non tanto il riprendere un treno in arrivo o in partenza (che comunque in quell’epoca rappresentava ancora il progresso, quindi poteva suscitare un certo tipo di stupore nello spettatore) ma il piegare quel mezzo di trasporto (senza mostrarlo nemmeno) a proprio vantaggio, per innovare il cinema linguisticamente e creare uno stupore più sofisticato. Questo per dire che a me interessa di più quella cosa là, il filmare da un treno anziché filmare il treno.

 

Alessandro Calabrese, 20140104 Mina from A failed entertainment 2015, courtesy Via Saterna.


Nella tua ricerca quanto èimportante il procedimento mentale che porta a risultati illogici?

Direi molto, e conducono all’inatteso, quindi alla sorpresa, che in termini più tecnici credo sia un mio modo di sublimare banalmente il non usare la camera oscura o il saper dipingere, quindi il perdere un po’ il controllo. Questo si contrappone e al tempo stesso va di pari passo con la parte più concettuale/scientifica della mia ricerca, che invece lascia molto meno spazio al randomico. 

 

Lo sviluppo di qualcosa non si puòesaurire in una sola immagine, ma ha bisogno di seguire un ulteriore svolgimento, in una serie o in altre derive?

Recentemente la mia risposta è sempre più affermativa, almeno per quanto riguarda le “altre derive”, nel senso che, se ho capito bene la tua domanda, inizia a non bastarmi più l’immagine bidimensionale, ma sto passando dal dare vita a immagini per riflettere sul mezzo (evitando ogni forma di narrazione come ho fatto fino all’anno scorso) a voler riflettere (anche raccontando) su qualcosa “altro dall’immagine”, utilizzando diversi media. Riguardo invece alla serie, ti dico di no. Io credo che si possa esaurire lo sviluppo di qualcosa anche in una sola immagine. Però questo atteggiamento credo appartenga più alla fotografia che guarda nella direzione dell’arte, se così si può dire, piuttosto che a quella che guarda alla forma “racconto”, che invece oggi si fa con lunghe serie che finiscono tendenzialmente nel “photobook” e in cui ci si mette un ritratto, un paesaggio, uno still life, una foto vernacolare, un’immagine del web etc…

 

Mi interessano molto i meccanismi legati alla sensazione. Quali sono i termini evocativi che ricrei nelle tue fotografie?

Ti posso dire che negli ultimi anni mi sono sempre più interessato al tema della sensazione più che della comprensione. La fotografia classica più si faceva chiara ai miei occhi e meno la trovavo interessante, se non in termini storico-documentativi. La fotografia tradizionale continua a interessarmi, anzi, mi interessa ogni giorno di più, ma da “studioso”, se mi concedi il termine. Invece la questione del sentire, non solo nell’immagine ma anche nella parola, ha iniziato a diventare preponderante: il suggerire piuttosto che il dire, il sussurrare piuttosto che il parlare, il vedere sfocato piuttosto che il vedere nitidamente, il non vedere affatto, il buio, come quando usavo lo scanner, sono tutte questioni che mi intrigano e che si legano alla poesia, all’incomprensione in prima battuta. Penso alla scuola, ho sempre trovato un controsenso parafrasare per comprendere il più possibile a livello linguistico qualcosa che era stato concepito invece per essere percepito. Ad ogni modo tutte queste cose sono sfociate in una mia produzione quasi astratta, per lo più, ma che cerca di non lasciare totalmente per strada il figurativo. C’è sempre un riferimento al reale insomma, che può essere anche soltanto nel punto di partenza, come ad esempio il mondo del lavoro, dell’ufficio, nel progetto The Long Thing.

 

Alessandro Calabrese, 20141118 Sandro from A failed entertainment 2015, courtesy Via Saterna.


Come procedi nell’ideazione di un lavoro?

Passo la maggior parte del tempo a vagliare concettualmente quello in cui mi voglio imbarcare, procedendo a priori. Una volta verificato che più o meno tutto regge, il risultato allora deve uscire nel minor tempo possibile e con uno sforzo pratico, che non sia eccessivo per la mia bassa soglia di sopportazione. Dopodiché, a posteriori, tiro le conclusioni e talvolta sono costretto a tornare indietro e ripartire.

 

Si cela qualcos’altro oltre ciòche sembra apparire in modo chiaro nelle tue opere?

Mi piace parlare in modo abbastanza chiaro allo spettatore, senza prendere in giro. Sono consapevole del fatto che senza un apparato testuale a supporto sia difficile capire precisamente le mie intenzioni, però sono quasi certo che all’osservatore curioso, una volta fornita la chiave di accesso al mio viaggio, non risulti così complicato capirmi. Quindi in realtà, la risposta in versione brevissima a questa domanda potrebbe essere che si cela semplicemente la ragione d’essere di quel che si vede. Dopodiché, per tornare a una risposta precedente, non a tutti interessa arrivare al nocciolo della questione, infatti sono stato abbastanza fortunato finora a trovarmi tra le mani, quasi casualmente, una componente visiva intrigante. 

 

Come ti stai allontanando dai meccanismi percettivi dell’immagine? 

Ora sento davvero che la mia ricerca sulla percezione per il momento si è un po’ esaurita, non mi interessa più molto. Continuo a ragionare in termini visivi ovviamente, ma, come ho detto prima, vorrei aprirmi all’utilizzo di diversi media, per raccontare qualcosa che sia altro dal discorso sul linguaggio. In realtà ci sto già lavorando: è un tema preciso che si può riassumere con il termine empatia, e il caso studio da cui sono partito è l’evento del 9/11/2001 a New York.

 

Alessandro Calabrese, Die deitsche punkinvasion 2015, courtesy Via Saterna.


Come utilizzi l’empatia nei tuoi più recenti lavori?

Più che farne utilizzo mi interrogo su cosa sia l’empatia e soprattutto se esista davvero. Ritengo sia la chiave di molte questioni contemporanee, sia a un livello micro, quindi interpersonale nelle questioni di tutti i giorni, sia, soprattutto, a un livello macro, quindi globale, nelle questioni geopolitiche. Da vocabolario significa essere in grado di mettersi nei panni dell’altro. Va bene, ma quello che mi chiedo io è ad esempio quasi l’opposto, ovvero se sia possibile che il soggetto sofferente percepisca in maniera tangibile la vicinanza dell’empatizzante tanto che si abbia la percezione di soffrire in due, e sinceramente/sentitamente, per la stessa cosa che ha origine in uno solo dei soggetti. Sto vagando attorno a questa cosa, partendo da un saggio di Mauro Carbone, Essere morti insieme: l'evento dell'11 settembre 2001 (Bollati Boringhieri, 2007), passando per la fine del postmoderno, all’utilizzo/rifiuto dell’ironia e ad altri temi a me già cari nei lavori precedenti. Il sottotitolo semplificativo potrebbe essere una cosa tipo: di quel giorno dovevamo capire tutto, ripartire con un passo differente verso la formazione di una società migliore, invece dopo 17 anni pare che non si sia capito nulla, dove abbiamo fallito? Mentre ti rispondo con queste cose sento una vocina dentro di me che un po’ se la ride e mi prende in giro, perché oggi parlare di queste cose può suonare naif o romantico.  Ecco, sto lavorando per metterla a tacere in un certo senso.

 

Nei tuoi progetti hai indagato il linguaggio nelle sue declinazioni visuali, i temi dell’autorialità nell’essere umano e nella macchina, la sovrapproduzione di immagini nell’era dei social media, il rapporto tra figurativo e astratto in fotografia, hai riflettuto riguardo al mondo del web.

Sì, e come ti ho detto, mi sono un po’ stancato di lavorare su questioni legate esclusivamente al linguaggio visivo/fotografico, o a una riflessione sul mezzo. Quest’estate ho realizzato un progetto molto semplice in occasione della residenza Casino Palermo promossa da Viasaterna, utilizzando la scrittura: bel suo piccolo è stata un’autentica rivelazione per me. La cosa che mi ha stupito di più è stato il commento di una persona che mi conosce molto bene. Mi ha detto che per la prima volta ha visto tutto quello che sono solitamente, al di fuori della mia pratica, inserito e messo finalmente a dialogare con quella che è la mia ricerca. Era fondamentalmente una critica che suonava negativa ma che voleva essere costruttiva, mi ha fatto molto riflettere e sto cercando di capire cosa volesse davvero dire in concreto. Per tornare alla tua domanda, tutti i temi indagati in precedenza sono legati a un periodo in cui dovevo capire quanto più possibile riguardo il mondo dell’immagine, prendere le misure in maniera molto clinica, in più una mia ritrosia nel tornare su questioni già trattate mi ha sempre spinto a cambiare quanto più possibile in ogni progetto, però se mi guardo indietro mi sembra di aver comunque mantenuto una certa coerenza. Per tornare all’esempio del treno, credo che in questi anni io mi sia spostato continuamente all’interno del treno guardando sempre fuori, oggi invece mi sembra di essere entrato in una fase in cui la questione del “filmo il treno” o “filmo dal treno” non importa più, mi importa provare a lavorare sul concetto di viaggio piuttosto, ha senso?

 

Alessandro Calabrese, Installation view 1 from The long thing 2017, courtesy Via Saterna.


Ci interessa capire qualcosa di più rispetto al tuo progetto The Long Thing, esposto in Viasaterna, e all’idea di corrompere la struttura dell’immagine fotografica attraverso operazioni effettuate con l’uso dello scanner, rapportandoti a qualcosa di tangibile come la noia, il lavoro d’ufficio, l’automatismo, l’alienazione.

Dopo aver passato del tempo a lavorare a A Failed Entertainement, usando lo scanner in maniera meccanica e noiosissima, per riflettere su questioni legate all’intrattenimento, ho deciso di divertirmi nel progetto The Long Thing usando lo scanner in maniera piuttosto libera e sbagliata, riflettendo invece sul tema della noia, insomma una sorta di positivo-negativo. Avevo ancora un interesse legato prettamente al visivo (quando ho iniziato, nel 2016), alla corruzione dell’immagine, all’eterno camminare in bilico tra figurativo e astratto da parte della fotografia e dell’arte, che in quel periodo avevo trovato spiegato particolarmente bene nel saggio di Deleuze su Bacon (Logica della sensazione, Quodlibet, 2008). Lo scanner e l’uso improprio che ne ho fatto mi ha permesso di muovere un ultimo passo verso l’astratto, che volevo raggiungere o almeno intravedere in quel momento, tenendo però una base di partenza estremamente figurativa. Inoltre l’intenzione era quella di perdere un po’ il controllo, utilizzare un automatismo ma lasciando anche molto spazio al caso. Mi serviva un terreno di battaglia per questa cosa. Ho scelto il mondo del lavoro, dell’ufficio nello specifico, quello da cartellino timbrato allo scadere delle 8 ore, un ambito noioso per eccellenza, con tutti i suoi elementi quotidiani, che vanno da piante finte a “schiscette” per il pranzo, materiali da imballaggio a cartellette per archiviare documenti, etc…, il tutto infilato volta per volta all’interno dello scanner e mosso manualmente, mentre lo scanner è in funzione e legge l’oggetto in questione.

 

Osservando attentamente le tue opere mi sembra di individuare diversi riferimenti alla letteratura. Ci puoi svelare qualcosa rispetto alle tue fonti letterarie, e al passaggio dalle suggestioni letterarie all’idea di svolgere un’intuizione attraverso la realizzazione di un progetto visuale?

La letteratura è una delle tante cose dalle quali mi interessa attingere a livello di riflessione sul mezzo, da tradurre poi in termini visivi o processuali. Negli ultimi anni ho letto soprattutto saggistica, di diverse discipline, che trovo poi molto stimolante provare a piegare ai miei interessi. Spesso sono solo intuizioni. Magari leggo un saggio sulla teoria della musica, della quale non capisco nulla, e credo di vederci cose utili a quello che faccio e procedo per similitudini, probabilmente sbagliando, chissà. Sicuramente tra le varie discipline la letteratura (o per meglio dire la parola, perché mi interessa anche la poesia, che è quasi più importante per la mia pratica, o analizzo parola per parola i testi di molta musica, soprattutto quella rap ben fatta) è la disciplina che più mi sembra influenzare quello che faccio. Nei primi lavori c’è stata una forte influenza di David Foster Wallace, sia per come usa la prosa in maniera quasi poetica (per tornare al concetto di sensazione di cui si parlava prima), nei punti più alti, sia per i temi trattati che uniscono cultura alta e cultura pop. A oggi non credo sia il mio autore preferito da un punto di vista letterario, però è stato sicuramente il più utile per ciò di cui mi sono occupato, quello più facilmente traducibile da un registro letterario a uno visivo, forse perché non sarà stato il miglior scrittore della sua generazione, come spesso si dice, ma sicuramente è stato il più artistico. Per il resto ho gusti molto vari, anche se la corrente postmoderna, soprattutto statunitense, prevale assieme alla poesia italiana del ‘900.

 

Alessandro Calabrese, Installation view 2 from The long thing 2017, courtesy Via Saterna.


Ci puoi parlare della “stand-up comedy” che hai indagato?

La stand-up comedy è davvero difficile da far rientrare tra le discipline di cui sopra, però alcuni utilizzi della parola in pochissimi autori li trovo interessantissimi e di alto livello. Penso a Steven Wright o Eddie Izzard, e poi in riferimento ad A Failed Entertainment ho sempre pensato che quel lavoro, totalmente antinarrativo, mi ricordasse uno spettacolo di un comico one-liner, come si suol dire, ovvero quello che costruisce uno spettacolo intero fatto solo di battute slegate tra loro ma comunque efficace, coerente nell’insieme non per il tema trattato per tutto lo show ma per la scelta stilistica. Azzardo, Guido Guidi sarebbe un comico di questo tipo, per capirci.

 

In questa serie di interviste sulla metafotografia italiana è emersa una questione: La fotografia è una scultura? E mi riferisco, a proposito del tuo lavoro, alla serie di immagini che hai realizzato utilizzando uno scanner e inserendovi all’interno materiali legati al mondo del lavoro da scrivania. Cosa c’è che unisce sottilmente, secondo il tuo punto di vista, la fotografia al medium della scultura (sia secondo il punto di vista tradizionale sia quello che apre alle connotazioni che va vanno oltre gli aspetti della bidimensionalità, e quindi verso le ulteriori dimensioni)?

La fotografia in generale, se stampata, quindi se ha uno spessore (seppur minimo), può essere considerata una scultura, solo che è sempre più o meno la stessa, si ripete nella forma cambiando le dimensioni e le proporzioni, quindi, da un punto di vista tradizionale, è poca cosa. In termini più concettuali, in riferimento al mio lavoro e a quello di tanti altri, quello che succede può essere considerata la sintesi scultorea di un oggetto. Oggi vanno molto di moda le stampe 3D, il mio lavoro può essere visto come una scultura 2D, però se c’è un media di cui capisco davvero poco a livello teorico, quello è la scultura. Dopodiché ci sono immagini che possono prendere derive scultoree in fase di output, soprattutto negli ultimi anni, ma ancora una volta mentre lo fanno ci stanno parlando di fotografia o immagine più in generale. Quello che trovo invece meno interessante, e che non riesco a considerare fotografia autoriale (qualunque cosa questo voglia dire), è la scultura che si fa fotografia, o peggio ancora il design che si fa fotografia, un’altra tendenza che va molto nel contemporaneo, perché per me è semplicemente decoro, o professione (con tutto il rispetto per i professionisti consapevoli di fare comunicazione e non arte), non c’è molto altro.

 

Alessandro Calabrese, Untitled 4 from The long thing 2017, courtesy Via Saterna.


Mi sento un po’ un conservatore da questo punto di vista. Sempre tornando alla storia della fotografia, la scultura è sempre stato un soggetto ritratto dai fotografi sin dagli albori, però o era consapevolmente documento oppure la scultura veniva usata e piegata al volere dell’autore per parlare di fotografia/composizione/aspetti visivi insomma o rari casi che si pongono a metà come un capolavoro, Equilibries, di Fischli & Weiss. La terza via di cui parlo sopra, invece, quella che non mi convince, è un documento travestito da immagine di ricerca, ma il più delle volte non c’è alcuna ricerca. Su queste questioni però mi piacerebbe sapere cosa ne pensi tu, perché io sto ragionando di pancia e poi mi è stato insegnato che quando si risponde a una domanda si deve parlare di quel che piace piuttosto che sottolineare ciò che non piace.

 

Alessandro Calabrese, Installation view 1 from The long thing 2017, courtesy Via Saterna.


Quanto è importante per te sentirti in impasse alla fine di una tua ricerca? 

Credo che più di sentirsi in un’impasse alla fine della ricerca sia importante sentircisi durante, ogni giorno, per tornare indietro e prendere altre vie fino a quando non si conclude un progetto in una maniera coerente. Questo può essere a sua volta un’impasse certo, ma deve necessariamente avere almeno una crepa al suo interno per permettere una via di fuga verso qualcosa di nuovo. È piuttosto astratta come risposta, ma credo che renda l’idea.

 

Cosa pensi dell’anti-autorialità e dell’autonomia tecnologica del mezzo?

Per anti-autorialità intendi la negazione di essa? Non credo sia possibile, se penso ad A Failed Entertainment, la parola fallimento al suo interno non è casuale. Nel senso, quel lavoro parla esattamente del demandare la propria autorialità a una macchina, a lasciare molto spazio al casuale, al procedere in maniera opposta a quella dell’autore, che sceglie tendenzialmente ogni singolo elemento che compone il suo incedere. Cosa succede però alla fine di tutto questo mio negare? Metto in mostra con il mio nome delle immagini nuove, che seppur siano state scelte da un algoritmo sono state influenzate dal mio lavoro in precedenza. E soprattutto ho scelto quali stampare e esporre in uno spazio espositivo, il tutto in maniera molto consapevole. Insomma è stato un fallimento cercato, una dichiarazione di resa, infatti non si può rinunciare a mettere in mostra se stessi, a meno che non si scelga di fare l’eremita, nel vero senso della parola. Ma qui si potrebbe aprire un discorso più ampio sull’essere umano in generale, non tanto sull’artista. 

 

Alessandro Calabrese, Untitled 3 from The long thing 2017, courtesy Via Saterna.


Per quanto riguarda l’autonomia tecnologica del mezzo si stanno facendo passi molto rapidi in quella direzione, penso agli ultimi lavori, che hanno delle tangenze impressionanti tra l’altro, di due artisti importantissimi come Pierre Huyghe e Trevor Paglen. È un tema che mi è importato qualche anno fa. Oggi non seguo moltissimo quello che sta succedendo da un punto di vista strettamente tecnologico e comunque sia non mi è mai importato l’aspetto scientifico in sé e per sé, ma soltanto in relazione a una riflessione sul fotografico. Credo che quando si lavora su certi temi iper-contemporanei si debba essere consapevoli che un progetto si esaurirà brevemente. Sono guerre lampo certe questioni e io la mia, nel mio piccolissimo, l’ho già combattuta.

 

Alessandro Calabrese, John Wayne from The long thing 2017, courtesy Via Saterna.


Mi sembra molto interessante il lavoro che hai realizzato utilizzando lo strumento di ricerca di Google (Reverse Image Search), che permette di operare una ricerca non per parole chiave ma per immagini. Ce ne puoi parlare? Soprattutto anche alla luce delle strade completamente svincolate dal tuo controllo come autore della foto.

Effettivamente abbiamo parlato finora di qualcosa che chi legge probabilmente non conosce a livello pratico se non conosce già il mio lavoro. In A Failed Entertainment ho inserito fotografie realizzate da me durante i primi anni milanesi (fotografie ragionate, a pellicola, sulla città, di dettaglio per lo più) all’interno di Google Immagini, effettuando appunto una ricerca inversa per immagini. Quello che succede è che tu carichi una fotografia nel motore di ricerca e lui risponde fornendoti una serie, spesso molto lunga, di immagini esistenti nel web “simili”, stando a un algoritmo che legge pixel per pixel, a quella da te caricata. Successivamente ho utilizzato un plugin, realizzato da un amico informatico, che scegliesse per me un numero sempre diverso di immagini, sempre casuali tra tutte quelle presenti nel web, che fossero simili alla mia di partenza. Queste venivano stampate nella loro proporzione originale su dei fogli di acetato trasparenti, sovrapposte in un unico blocchetto di fogli, che in ultimo inserivo nello scanner e facevo scansione, dando il la alle immagini che sono visibili oggi.

 

Alessandro Calabrese, Untitled 2 from The long thing 2017, courtesy Via Saterna.


Oltre ai motori di ricerca per immagini e agli archivi d’immagini d’epoca, immagino che tu attinga (consciamente o inconsciamente) alla memoria universale che sta dentro alla memoria del tuo corpo e del tuo pensiero. Mi evocheresti qualche passaggio del tuo viaggio in te mentre stai immaginando le tue visioni?

Sarò molto onesto, forse non dovrei, nel dirti che ho sempre lavorato in maniera troppo cerebrale finora, quindi non ci sono state molte visioni generatrici ma letture dei risultati a posteriori. Infatti, ad esempio in A Failed Entertainment, ogni immagine ha una sigla, che è la data in cui è stata realizzata la ricerca e un nome proprio che ho scelto una volta osservate le immagini finite, nomi propri di persone o cose legate a quelle persone, alle quali pensavo quasi istintivamente guardandole. Quindi non ci sono state visioni che hanno dato vita a qualcosa, ma visioni scaturite da qualcosa che aveva preso forma indipendentemente da me, all’interno delle quali io ritrovo memorie della mia cultura ed esperienza.

 

Alessandro Calabrese, Meme 6 from The long thing 2017, courtesy Via Saterna.


Potresti suggerire qualche immagine che possa collegare la nostra immaginazione a quello che hai pensato tu quando hai creato le tue immagini?

L’unica immagine nitida, più uno stato mentale, che avevo in testa quando ho lavorato ad A Failed Entertainment era quella di me a letto la sera, mentre chiudo gli occhi e mi scorrono davanti tutte le fotografie viste durante il giorno, che si sovrappongono e non si sedimentano mai. È la traduzione visiva di una frustrazione, tutto quel nero.

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Intervista ad Alessandro Calabrese
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Levi, conversazione con signora

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Carla Cerati

Anno 1967. Primo Levi riceve il Premio Bagutta per il suo primo libro di racconti, Storie naturali, uscito l’anno precedente da Einaudi. Il 15 gennaio a Milano Riccardo Bacchelli, presidente della giuria, lo incorona vincitore. A riprendere la serata c’è una fotografa milanese, Carla Cerati, che ha da poco iniziato a lavorare come fotogiornalista. Nel 1966 è a Firenze e fissa con la sua macchina la devastazione delle acque dell’Arno. Proprio lì sono annegate le residue copie di Se questo è un uomo stampate nel 1947 da De Silva in deposito della Nuova Italia. Carla Cerati scatta un intero rullino al Bagutta, da cui trae alcune immagini. L’anno dopo realizza con Gianni Berengo Gardin nei manicomi italiani un reportage che resterà memorabile: Morire di classe, edito da Einaudi.

 

La casa editrice torinese ha stampato il libro di Levi con un altro nome in copertina: Damiano Malabaila. Uno pseudonimo però smentito dalla presentazione nella quarta di copertina, che identifica l’autore dei racconti con chi ha firmato Se questo è un uomo e La tregua. L’uso dello pseudonimo è stato suggerito da Roberto Cerati, direttore commerciale della editrice, marito di Carla. La ragione principale è di marcare una differenza tra l’autore di quei libri sul Lager e colui che ha scritto queste storie di fantascienza. Forse è un indice della scarsa fiducia nel Levi narratore puro, o forse ha giocato la ritrosia dell’autore stesso stretto tra testimonianza e letteratura. Sarà un problema che durerà a lungo, almeno fino alla metà degli anni Settanta, quando escono Il sistema periodico e La chiave a stella. Per la maggior parte dei critici letterari italiani Levi è solo un memorialista, ma non è così. Anche Carla Cerati ha una doppia identità: fotografa e anche scrittrice. Per tutto l’arco della sua vita terrà insieme questi due aspetti della sua personalità artistica. Il suo primo libro narrativo esce nel 1973, Un amore fraterno, presso Einaudi; l’ha seguito Italo Calvino che è anche l’editor di Levi.

 

Cosa racconta questa fotografia di Primo Levi? Per forza di cose appare molto più giovane delle foto che ne hanno fissato per noi l’immagine da vecchio saggio negli anni Ottanta: è senza barba, i capelli sono scuri, e non indossa occhiali. Ha quarantotto anni, scrive da almeno venti; ha pubblicato tre libri, di cui uno due volte; ha vinto un premio importante con il secondo; non è ancora pienamente riconosciuto. Carla Cerati è una fotografa che, non solo guarda il mondo intorno a lei, ma vede anche. Cosa vede? Un Levi curioso, un poco serio – anche se ride parecchio nelle altre foto; poi una signora della borghesia milanese con occhiali scuri, un altro uomo che parla con loro. Il punctum dell’immagine è la mano di lei, in cui è infilato un vistoso anello e gli occhiali neri, da diva, e ancora la sua collana. Lo scatto sembra anticipare quelli di un suo lavoro successivo, Mondo cocktail, del 1974: serata mondana con donne e uomini in conversazione. Inaugurazioni, esposizioni, premiazioni, aperitivi, salotti, ambienti borghesi. La fotografia di Carla Cerati per raccontare usa il nero più che il bianco o il grigio; tende al contrasto tonale, forte, deciso. Il suo sguardo è decisamente femminile, disincantato e ironico. Qui la donna sembra il centro dell’immagine, anche se lei, Carla Cerati, è lì, al Bagutta per riprendere lo scrittore: conversazione con signora. Chi sarà? Nel retro della foto non c’è scritto. Cosa importa. Non sono molte le foto che ritraggono Levi in situazioni simili. Di solito c’è intorno a lui il mondo della letteratura, quello che lui frequenta quasi da clandestino. In un suo racconto poco conosciuto, uscito nel 1977, racconta una serata mondana simile a questa: Cena in piedi. Per farlo non ha trovato di meglio che travestirsi da animale: il protagonista è un canguro invitato a una serata mondana, dove conversa con una signora.

 

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Sciascia a Militello in val di Catania

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Sono trascorsi 30 anni da quel giorno di novembre in cui Leonardo Sciascia ci ha lasciati, trent'anni in cui il paese, che lui ha così bene descritto, è profondamente cambiato, eppure nel profondo è sempre lo stesso: conformismo, mafie, divisione tra Nord e Sud, arroganza del potere, l'eterno fascismo italiano. Possibile? Per ricordare Sciascia abbiamo pensato di farlo raccontare da uno dei suoi amici, il fotografo Ferdinando Scianna, con le sue immagini e le sue parole, e di rivisitare i suoi libri con l'aiuto dei collaboratori di doppiozero, libri che continuano a essere letti, che tuttavia ancora molti non conoscono, libri che raccontano il nostro paese e la sua storia. Una scoperta per chi non li ha ancora letti e una riscoperta e un suggerimento a rileggerli per chi lo ha già fatto. La letteratura come fonte di conoscenza del mondo intorno a noi e di noi stessi. De te fabula narratur.

 

Ricordo una gita, a Militello in Val di Catania. La visita a Militello era motivata dal desiderio di Leonardo di vedere il potente bassorilievo in marmo, scolpito da Francesco Laurana, ritratto di Pietro Speciale, che si trova nella cattedrale. Ci accolse il parroco, padre Sinopoli. Prete spassosissimo e molto anticonformista. In chiesa vedemmo in cima a un’alta scala a forbice il sagrestano che ripuliva una statua della Madonna, probabile opera del Gagini.

 

Ph Ferdinando Scianna.


Il fatto bizzarro è che il sagrestano era in mutande, e persino di precaria stabilità. Padre Sinopoli si accorse della nostra sorpresa e ci raccontò un aneddoto: quando sono andato soldato c’era tra noi una recluta con una gran zazzera di capelli alla quale teneva moltissimo. Un sergente gli intimò più volte di tagliarseli, ma quello non se ne dava per inteso. Una mattina il sergente lo fece condurre a forza dal barbiere, che lo rapò a zero. Il giorno dopo il soldato sparò al sergente. Commento di padre Sinopoli guardando il sagrestano: è testardo, per me può andare nudo.

Per anni quel per me può andare nudo!, diventò un nostro tormentone quando ci si trovava di fronte a personaggi di squilibrata testardaggine.

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Levi e il gufo

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Mario Monge

Chiunque ha visto questa fotografia di Primo Levi scattata da Mario Monge nel giugno del 1986 ha avuto un sussulto. Impressiona. Sembra che indossi una maschera, anche se in realtà non si tratta di una maschera. Come la farfalla appesa sopra la sua testa, è invece una scultura realizzata con il filo di rame. Il materiale lo ricavava dalla Siva, l’azienda chimica dove ha lavorato dal 1947 al 1975. Si trattava di scarti della produzione. Alla Siva si realizzavano vernici per ricoprire i cavi. Le sculture ritraggono per lo più animali: coccodrillo, canguro, formica, civetta, farfalla, camaleonte, gabbiano, pinguino, insetti e altre creature. Philip Roth, venuto a trovarlo a Torino, a casa sua, aveva notato questi animali misteriosi e gli era sembrato anche di distinguere “un ebreo che suonava il suo naso”. Possibile. I destinatari di questa attività sono stati prima di tutto gli amici e i parenti, cui le regalava, e nelle cui case mi è capitato di vederli nel corso degli anni. Gli animali sono uno dei temi ricorretti della sua narrativa e della poesia: citati, analizzati, raccontati. Ci sono tantissimi animali nelle pagine di Levi.

 

Era una passione giovanile, che si è protratta nel tempo, perché la prima vocazione del giovane studente torinese era stata per la biologia; poi, più avanti negli anni, si era interessato di etologia leggendo Konrad Lorenz. Gli animali hanno un valore naturalistico, ma sono anche metafore potenti della relazione degli uomini tra loro. In una pagina memorabile di Se questo è un uomo, parla dell’animale-uomo, quello che è rinchiuso nel Lager e su cui si esercita l’esperimento biologico-sociale dei nazisti. Quello che colpisce in questa immagine è ovviamente il travestimento. La scultura è tridimensionale, ma diventa bidimensionale e ricopre il viso dello scrittore. Gli occhi dell’animale non sono perfettamente allineati con gli occhi di Levi e questo crea un leggero spaesamento, suggerisce un senso di inquietudine. Ma è anche la postura che colpisce, per via delle sue braccia sollevate. Infine, la maschera è “trasparente”: si sovrappone al volto di Levi, lo nasconde e al tempo stesso lo mostra.

 

Il gufo è una figura abituale per lo scrittore. In più di un’occasione ha detto: il gufo sono io. Sulla copertina della prima edizione di L’altrui mestiere figurano tre disegni del gufo realizzati da Levi con il suo Mac, uno sotto l’altro. Monge ha fatto vari scatti con questa scultura; ne esiste uno in cui Levi tiene in mano la “maschera”, a fianco di sé, e non la “indossa”, come qui. Il gufo è un animale simbolico che assume vari significati nelle diverse culture. Prevale spesso quello negativo, che lo collega a qualcosa di funesto, alla malasorte, come in Shakespeare o presso gli antichi romani. Ma è anche il simbolo collegato ad Atena glaucopide, la Nottola di Minerva, simbolo della filosofia e della saggezza. Penso che sia a questo significato che si riferisca indirettamente Levi, quando dice: sono io. A partire da Auschwitz, non gli è mai mancato l’aspetto di preveggenza che appartiene a questo animale notturno; è la sua capacità di anticipare i temi che saranno dopo poco al centro dell’attenzione; la capacità d’indicare le questioni centrali della sua e della nostra epoca.

 

È stato così anche con il disastro della centrale nucleare di Chernobyl, su cui ha scritto un importante articolo sul pericolo che la scienza rappresenta per gli uomini. Che Levi avesse poi un aspetto artistico nella sua personalità a dirlo è stato tra i primi Philip Roth nel corso della sua visita torinese. Ha scritto: “Di tutti gli artisti intellettualmente dotati del XX secolo – e l’unicità di Levi consiste nell’essere più il chimico artista che lo scrittore chimico – lui è probabilmente quello che si è più adattato all’ambiente circostante in tutti i suoi aspetti”. Cosa significa essere “chimico artista”? Non è facile dirlo. Certamente lo scrittore americano coglie nel segno quando indica questa valenza artistica e la collega all’aspetto intellettuale di Levi. Si può desumere che è un artista da queste sculture? Probabilmente no. Un dilettante? Probabilmente sì, e tuttavia, come aveva visto Roth, la sua capacità artistica va ben al di là di questa attività col filo di rame e anche al di là dello scrivere stesso. C’è infatti qualcosa di artistico nel suo sapersi adattare all’ambiente circostante, a partire da Auschwitz. Sopravvivere è un fatto artistico. 

 

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E se? (Arrivasse la fine del mondo.)

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La mostra fotografica Anthropoceneè una iniziativa organizzata dall’Art Gallery of Ontario (AGO) e dal Canadian Photography Institute (CPI) della National Gallery of Canada (NGC) in collaborazione con il MAST, manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia di Bologna. I co-curatori della mostra sono Sophie Kackett, Andrea Kunard e Urs Stahel. Film di Jennifer Baichwal, fotografie di Edward Burtynsky e di Nicholas de Pencier. Fondazione MAST [Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia] di Bologna, fino al 22 settembre. 

 

Edward Burtynsky, Coal Mine #1, North Rhine, Westphalia, Germany 2015, © Edward Burtynsky, courtesy Admira Photography, Milan / Nicholas Metivier Gallery, Toronto.

 

Il progetto fotografico Anthropocene nasce nel 2014 da una domanda della regista Jennifer Baichwal al fotografo Edward Burtynsky durante le riprese sul delta del fiume Colorado a Washington DC per la realizzazione del film Watermark. Baichwall era rimasta colpita dalle condizioni del delta del fiume le cui ramificazioni dei suoi affluenti affioravano dal suolo alla ricerca di un delta che non esisteva più a causa di un accordo che prevedeva la deviazione del fiume per irrigare i grandi raccolti distribuiti tra il Colorado e la California. La scena che si presentava agli occhi di Baichwal, Burtynsky e de Pencier era l’ennesimo esempio di impatto negativo del lavoro dell’uomo sull’ambiente. La domanda su cui gli autori innestarono la loro elaborazione metodologica e progettuale nel dare avvio al progetto Anthropocene che documentasse, nel mondo, gli impatti negativi, è stata: “ E se?”. Già: ese si fosse fatto diversamente, o se non fosse stato fatto per nulla? Sarebbe stato possibile fermare il progresso? O più semplicemente è possibile rinunciare a parte di esso? Ma quanto è costato il progresso in termini di sfruttamento delle risorse naturali ? E quanto ancora dobbiamo togliere alla natura per dare al genere umano? Gli autori si sono basati, rigorosamente, sulle ricerche scientifiche condotte da Anthropocene Working Group (AWG) nel 2009. Anthropocene nasce all'interno della comunità di Earth System Science (ESS), un gruppo di scienziati e geologi che studia la storia della terra attraverso la stratigrafia e i fossili e come questi, una volta sfruttati, vengono dispersi nell’atmosfera.

 

Edward Burtynsky, Phosphor Tailings Pond #4, Near Lakeland, Florida, USA 2012, © Edward Burtynsky, courtesy Admira Photography, Milan / Nicholas Metivier Gallery, Toronto.

 

Anthropocene è infatti un termine della geologia che ha rapporti con la stratigrafia. L’affascinante teoria è stata propugnata dal Premio Nobel per la chimica Paul J. Crutzen. Gli scienziati appartenenti all’Anthropocene Working Group hanno messo a punto un metodo di analisi che si basa, appunto, sulla stratigrafia come potenziale aggiunta formale alle scale temporali geologiche, esso, inoltre si basa sul confronto con altre metodologie scientifiche per lo studio della Terra. In pratica gli scienziati, attraverso le diverse e numerose stratigrafie della Terra che l’uomo modifica profondamente estraendo materie prime come litio, carbone, petrolio, gas naturali ecc. studiano l’accelerazione della fine di un’era, che questi fanno risalire dalla metà del XVIII secolo con l’inizio della Rivoluzione industriale. Rivoluzione che ha avuto una forte accelerazione a causa dei fabbisogni energetici dell’America del Nord e dell’Europa dall’immediato dopoguerra ad oggi. L’impatto è assolutamente negativo e influisce, ad esempio, sullo strato dell’ozono, sulla natura in generale, sul clima, sul futuro delle specie: sostanzialmente sulla vita dell’intero pianeta. La comunità internazionale degli scienziati, in particolare dei geologi, è stata piuttosto critica sull’impostazione di Anthropocene, con la motivazione che non vi sarebbero dati sufficientemente significativi per determinare il futuro della Terra. La teoria Anthropocene appare, ai loro occhi, più una dichiarazione che scientifica e nulla racconterebbe della storia della Terra e del suo futuro.

 

E see se gli scienziati di Anthropocene avessero ragione? E se… la grande accelerazione e dissennata estrazione dei minerali e dei fossili che ha modificato significativamente la morfologia della superficie della Terra decretasse effettivamente uno dei grandi declini del Pianeta, se non il declino definitivo? Stefano Mancuso (La nazione delle piante, 2019) illustra con chiarezza come la natura predatoria dell’uomo condizioni negativamente anche il destino delle altre specie animali e vegetali, senza curarsi del futuro, ma solo della propria sopravvivenza. Mancuso spiega inoltre che la storia della Terra ha subito cinque estinzioni di massa, comprese un numero non definito di estinzioni minori, al termine delle quali il sistema vivente ha determinato una nuova rinascita del pianeta morfologicamente assai differente da quella precedente; in alcune ere, ad esempio, non è stata assolutamente pensabile la vita dell’uomo per le caratteristiche assai nocive dell’atmosfera. L’immagazzinamento del carbonio presente nell’aria in alta quantità per opera delle piante ha prodotto due effetti: l’atmosfera così come la conosciamo oggi e la formazione di immensi giacimenti di petrolio.

 

Nicholas de Pencier and Jennifer Baichwal with drone pilot Mike Reid on location at a clearcut north of Port Renfrew, Vancouver Island, British Columbia, © Edward Burtynsky, courtesy Admira Photography, Milan / Nicholas Metivier Gallery, Toronto.

 

David George Haskell, biologo e naturalista (The forest unseen, 2012, The Songs of Trees, 2017) illustra come la differenza delle specie abbia avuto la capacità di sopravvivere alle numerosi catastrofi, anche quelle arrecate dall’uomo. Haskell ricorda che i grandi mutamenti causati dall’uomo sono avvenuti con la pratica dell’agricoltura che ha comportato grandi deforestazioni e regimentazione delle acque. Il rammarico di Emanuele Coccia (La Vie des plantes. Une métaphysique du mélange, 2016) invece, è la perdita, da parte dell’uomo, della capacità di capire e dialogare con la Natura, di apprezzarne la bellezza, così come faceva l’uomo primitivo e come fanno ancora oggi le poche tribù sopravvissute dell’Amazzonia. Questo dialogo con la Natura ci garantirebbe di vivere con equilibrio oltre che assicurarci il futuro sulla Terra. Anche questi studiosi denunciano con forza il cruento intervento dell’uomo per accaparrarsi risorse per il benessere e per il progresso definendolo “un evento di grande portata come l’inizio di una nuova era di trasformazione” e probabilmente di estinzione. La raccolta dei dati relativi al cambiamento atmosferico, del clima, della qualità dei mari e degli oceani, dell’impoverimento del suolo documentano un trend negativo, di cui non è per niente facile percepire le conseguenze a breve o a lungo termine, benché gli studi da decenni siano numerosi e quelli tacciati di catastrofismo si siano rivelati, in seguito, molto vicini al vero. 

 

Edward Burtynsky, Dandora Landfill #3, Plastics Recycling, Nairobi, Kenya 2016, © Edward Burtynsky, courtesy Admira Photography, Milan / Nicholas Metivier Gallery, Toronto.

 

La ricerca fotografica Anthropocene di Jennifer Baichwal, di Edward Burtynsky e di Nicholas de Pencier è un progetto che desidera censire le macro situazioni denunciate dagli scienziati. Dalle immagini, dai filmati presenti in mostra si possono trarre alcune conclusioni che sicuramente saranno più esplicite e suggestive nel convincere chi ha potere decisionale, rispetto alle statistiche e alle relazioni tecniche redatte dagli scienziati. Gli artisti utilizzano il linguaggio fotografico di documentazione, dando una efficace forma estetica alle forme geologiche naturali, soprattutto a quelle modificate dall’uomo. Edward Burtynsky a partire dal 1985 ha focalizzato la sua attenzione sui paesaggi antropici, in particolare sui siti industriali, fino a documentarne i sistemi di produzione e consumo. Baichwal e de Pensier lavorano invece a stretto contatto con luoghi e paesaggi deturpati e modificati, cercando di capire come queste menomazioni possano plasmare culture e persone. Il paesaggio, così come la Natura, ovviamente, non sono separati dalla vita delle specie. Attraverso fotografie, film, installazioni a realtà aumentata, gli autori svelano non solamente le dimensioni e le caratteristiche dei luoghi più colpiti dall’intervento dell’uomo, ma ne fanno percepire l’entità del problema, l’ineluttabile destino. L’utilizzo, inoltre di fotografie a forte ingrandimento, di installazioni filmiche, di immagini prese dall’altro come dal satellite o dai droni sono presentate come una opportunità di approfondimento non solamente della forma, ma anche dell’entità reale. La veduta dall’alto è stato uno dei principali metodi utilizzati per rappresentare i cambiamenti territoriali o semplicemente un mezzo per controllare il territorio: pensiamo all’utilizzo militare già dalla Prima Guerra Mondiale. Fotografie davvero inusuali per la percezione dell’epoca.

 

Edward Burtynsky, Carrara Marble Quarries, Cava di Canalgrande #2, Carrara, Italy 2016, © Edward Burtynsky, courtesy Admira Photography, Milan / Nicholas Metivier Gallery, Toronto.

 

Margaret Bourke-White scattò nel 1936 le immagini della gigantesca diga di Fort Peck in Montana, immagini che erano di semplice documentazione, ma grazie al loro fascino finirono sulla copertina di Life lo stesso anno e ora sono conservate nei musei d’arte americani. Lo stesso Lewis Mumford scrisse nel 1952 che le fotografie aeree hanno la capacità di contenere un numero inestimabile di informazioni sul rapporto uomo e natura e per questo offrono soluzioni per migliorare quello che l’uomo distrugge sul territorio. Inoltre per il loro impatto emotivo e comunicativo, sostiene ancora Mumford, esse posseggono una capacità di suscitare “abbastanza amore e sentimenti affini verso la Terra […] per riuscire a rendere ogni angolo di questo pianeta una casa permanente”. L’utilizzo della realtà virtuale e di quella aumentata, inoltre, hanno la capacità di trasmettere prossimità per provocare un coinvolgimento emotivo, far scaturire sensazioni da un’esperienza seppur visuale. E se… quello che ci offre Anthropocene, fino al 22 settembre, fosse davvero una storia senza speranza, cosa potrebbe fare l’uomo comune?

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Teatro delle dieci

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“Il teatro mi mette allegria”, così s’intitola un’intervista rilasciata da Primo Levi a Lionel Lingua e Guido Quarzo nel 1986 in occasione della messa in scena della Chiave a stella nella riduzione di Flavio Ambrosini. Non è quindi strano vedere un Levi sorridente. Con lui c’è infatti la compagnia del “Teatro delle dieci” che ha messo in scena tre suoi racconti. Levi è in alto, e sembra dire: Sono qui, cari attori. Lo indica Elena Magoia: Ecce homo. Gli altri, da sinistra, sono: Franco Vaccaro, Wilma Deusebio, Mariella Furgiuele, Gigi Angelillo. Il teatro si chiama così perché recita a quell’ora della sera, diretto da Massimo Scaglione. Siamo vent’anni prima di quella intervista, nel 1966, che poi è l’anno di pubblicazione di Storie naturali. Gli attori hanno portato in scena: Il sesto giorno, La bella addormentata nel frigo e Il versificatore. Levi aveva scritto i tre racconti per una commissione radiofonica, e poi inseriti nel libro. La foto l’ha scattata il marito di Elena Magoia, Aldo Zargani, allora impiegato alla Rai, dove era entrato come dattilografo nell’immediato dopoguerra. Zargani è un ebreo torinese, amico di Levi, scampato alla deportazione grazie al padre musicista. Le peripezie della sua famiglia le ha raccontate dopo il pensionamento in un bel libro, Per violino solo (il Mulino): storie umoristiche e comiche.

 

Elena reciterà anche per Fellini. A Levi il teatro è sempre piaciuto. La ragione la spiega nell’intervista del 1986: “Sono un kibitzer, come dicono in America con un termine yiddisch entrato nell’uso corrente: uno che si diverte a osservare i giocatori durante le partite di carte”. È un grande osservatore di dettagli e anche di caratteri umani. Il teatro è presente già nel suo secondo libro, La tregua. Un capitolo s’intitola così: Teatro. Vi si racconta la rivista messa in piedi nel campo profughi della Casa Rossa dagli internati italiani. Sono sketch, e riguardano vari generi di spettacolo, come ha notato Luca Scarlini: canto corale, teatro leggero italiano (I pompieri di Viggiù), improvvisazione comica, e persino un piccolo musical (Il naufragio degli abulici). Il più interessante è probabilmente Il cappello a tre punte, basato su una filastrocca senza senso, che nella sua ossessiva ripetizione diventa “una liturgia del nulla”. Scarlini vi ha letto una atmosfera beckettiana presente in Aspettando Godot, testo teatrale pubblicato in Italia nel 1958, anno della ristampa di Se questo è un uomo, proprio da Einaudi per la traduzione di Carlo Fruttero, ma già rappresentato nel nostro paese nel 1954. Insomma, nell’intera opera di Levi c’è molto teatro, oltre ai testi messi in scena dagli attori del Teatro delle dieci, e alla riduzione, o “versione drammatica”, del suo primo libro fatta con Pieralberto Marché in quel 1966; opera complessa e assai poco conosciuta e persino poco studiata, per quanto la traduzione scenica costituisca un altro importante tassello della sua opera sul Lager. 

 

Marché poi interpreta anche lui un ruolo nel Teatro delle dieci. Per cinquanta sere la riduzione teatrale del suo primo libro fu replicata a Torino nel 1966 e fece anche un breve tour. Non fu però uno spettacolo fortunato, perché a causa dell’alluvione di Firenze la prima, prevista a Prato, non si tenne. Anche l’accoglienza critica non fu entusiastica. Questo però non tolse a Levi il piacere del teatro, come comunica questa foto a suo modo così teatrale: l’autore sembra chiamato sulla scena e presentato agli spettatori. Lo sguardo degli attori comunica stima e ammirazione, e anche plauso, cosa che invece Levi ebbe a piccole dosi e spesso in ritardo. 

 

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Forma di donna: storia di un libro e di un corpo

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Alla Galleria dell’Incisione a Brescia si possono vedere circa venti delle fotografie che compongono “Forma di donna”, il libro che Carla Cerati pubblica nel 1978. Il tronco dai seni candidi e prosperosi, le cosce lunghe e rigonfie, la schiena arcuata, il busto rovesciato all’indietro con le braccia tese dietro la testa, la curva del ventre leggermente tondeggiante, un ciuffo di peli pubici sono le forme di un corpo a cui la Cerati decide di dedicare un libro. Dieci anni prima, la fotografa aveva realizzato con Gianni Berengo Gardin un libro destinato ad avere un enorme impatto tanto nella società, quanto nella storia della fotografia: “Morire di classe”, un’inchiesta sui manicomi in Italia e nel 1974, con “Mondo Cocktail”, smaschera il vuoto in cui sono immerse le élites milanesi, divise fra eventi mondani e stravaganze.

Eppure non è stato facile giungere alla composizione di “Forma di donna”. Se per i reportages commissionati dai giornali il mondo entra facilmente nel suo obiettivo, per questo libro il processo creativo è più sofferto. “Non amo spiegare, e forse non ne sono neppure capace, i motivi che mi spingono a un lavoro creativo, il suo nascere dentro di me come idea, il maturarsi e crescere fino a cessare di essere semplice progetto; i tentativi di trasformarlo in risultato tangibile, i successivi passaggi fino a quel qualcosa che mi fa dire “ecco, questo è ciò che più si avvicina alla percezione iniziale” ”, racconta la fotografa, fra le pagine del libro. 

 

 

La prima volta ci prova nel 1960: un’amica accetta di farsi fotografare, ma le immagini le paiono piatte, timide, prive di un’idea precisa. “Tutto ciò che avevo visto in quel corpo era svanito, sommerso dalla mia incapacità ad andare oltre, a cercare, a trasfigurare, a inventare”. Ci prova di nuovo. L’occasione si presenta nel 1972, quando un amico pittore, Anselmo Francesconi, le chiede di realizzare delle foto di nudo che avrebbe poi ritagliato e inserito in quadri-collage. Insieme cercano degli esempi a cui ispirarsi.

Come è possibile trovare la forma perfetta di un corpo? Cosa significa davvero coglierne la forma? La risposta giunge all’improvviso: i nudi di Bill Brandt, quei corpi dalle membra smisuratamente lunghe, le cui rotondità assumono una loro autonomia organica, così vicini alle sculture di Hans Arp e Henry Moore, sono un buon punto di partenza. Per pura coincidenza, scrive la Cerati fra le pagine del libro, “avevo capito da tempo che da lì volevo partire”. 

 

Anche questa volta chiede a un’amica. Il corpo dalla pelle chiarissima è perfetto. Le forme non lasciano dubbi: sembrano fatte per essere manipolate. La fotografa si sente pronta. Con sollievo capisce di essersi finalmente impadronita di un lavoro: ha imparato a usare le luci in studio, i diversi obiettivi, i flash, la scenografia. Farà interagire il corpo della modella con le poltrone componibili disegnate da Matta. Ma è davvero tutto qui? Cosa è successo nei dodici anni che la separano dal primo tentativo? 

Il mondo intorno a lei sta cambiando (la legge sul divorzio è del 1974, la riforma del diritto di famiglia del 1975, la legge sull’aborto del 1978), e l’arte ne riflette i cambiamenti. Dipinti, collages, fotografie, ricami, scritture, realizzati da moltissime artiste, finalmente raccontano di un intimo e stretto confronto con il proprio corpo e la sua forma, una scoperta nuovissima ed eccitante, che Lucia Marcucci, protagonista del Gruppo 70, riassume provocatoriamente in uno dei suoi poster: “fare tutti i tentativi possibili per ricondurre a normalità / fare i conti con la realtà / NON C’ È ALTRA SCELTA / non si può perdere tempo / IL DESTINO È NELLE VOSTRE MANI”. E le possibilità sono davvero infinite: le immagini del parto di Lisetta Carmi del 1968, quelle dell’“L’invenzione femminile” di Marcella Campagnano del 1974, le foto che Paola Agosti scatta alla Casa delle donne di Roma nel 1976, quelle di “Sara è incinta/77”, del 1977, di Paola Mattioli.

 

 

Il lavoro di Carla Cerati è immerso in questa fitta rete di corrispondenze. Nei primi anni Settanta anche lei riflette sul suo ruolo di donna, madre e fotografa. “Imboccare, agitare, frullare, solarizzare”, si legge sui pannelli di “Donna professione fotografa”, conservati presso il Centro Studi e Archivio della Comunicazione di Parma (CSAC), in cui la protagonista è un’altra fotografa, Paola Mattioli, ripresa da Carla mentre è intenta ad accudire la figlia e a sviluppare le sue foto. Lo stesso intento la spinge a elaborare il “Percorso. Racconto in dieci stazioni della vita di una donna”, realizzato nel 1977 e messo in mostra all’Expo Arte di Bari nel 1980. È, ancora, la stessa tensione che sta alla base di un altro lavoro in cui la Cerati intervista e fotografa diverse donne che danno il nome ai vari pannelli: “Cristina suonatrice di viola”, “Antonietta collaboratrice familiare”, “Pamela attrice”. Le domande che rivolge loro sono ricorrenti: “Pensi che la maternità sia il momento più importante nella realizzazione di una donna?”, “Come pensi al tuo futuro?”, “Sei femminista?”.

 

“Forma di donna” è il lavoro in cui si possono trovare le risposte. Dopo aver esplorato l’universo femminile attorno a sé, giunge il momento di parlare di sé. Le foto, al loro primo apparire nel 1974, vengono percepite da certi settori intellettuali come formalistiche e pertanto, come ricorda Massimo Mussini nel catalogo della mostra del 2007 tenutasi al CSAC, “spregiativamente definite artistismo”, o come “un presunto sfregio all’identità femminile, causato dalla raffigurazione di corpi privi di teste”, nel giudizio del femminismo militante. Sono considerazioni effimere, destinate a vacillare sotto il peso del lavoro che Carla Cerati ha dedicato alle donne.

 

 

Ciò che si può osservare fra le pagine del suo libro non è solo la perfezione di un corpo, ma il movimento di uno sguardo su un corpo e attraverso di esso. Questo effetto scaturisce dal susseguirsi delle immagini in istanti successivi. Osservando le foto esposte a Brescia, si comprende che il corpo si appropria dello spazio: il fotogramma viene attraversato in diagonale, verticale, orizzontale, Viene colto sia nella sua quasi totalità, sia attraverso i dettagli: i seni, i fianchi, il pube, le natiche, come se l’idea di un tuttotondo tridimensionale proprio della scultura venisse direttamente riversata sulla superficie delle fotografie. La luce si sostituisce alla mano dell’artista, ma ha la medesima funzione: dare forma. Non si deve dimenticare che Carla Cerati avrebbe voluto fare la scultrice e che aveva superato l’esame di ammissione presso l’Accademia di Brera. 

Per questo la perfetta fusione tra forma e contenuto, dove il contenuto è la forma stessa di ciò che appare nell’immagine, cela un moto più profondo. “Vorrei andare oltre ciò che quel corpo esprime, ignorando la sua carica erotica che pure percepisco e amo”. La fotografia mostra il processo di generazione sotteso a quello sguardo: il corpo è nudo, esposto, scoperto, poiché creare un corpo significa generarlo. Il libro contiene anche alcune immagini della figlia Elena. La ragazza ha un corpo magro, scuro, ricoperto di gocce d’acqua, come se fosse appena venuto al mondo. Per la Cerati non è stato facile fotografarlo: “avrei voluto lavorare a modo mio, con calma: ancora una volta muovere un corpo seguendo un’idea, cercando il centro di interesse dentro quella luce dura e tagliente. (…) Dovetti accontentarmi di poche immagini quasi rubate dove l’idea è in embrione”. 

 

 

In questo slittamento, dall’amica che nasce dal suo sguardo, alla figlia che nasce dal suo corpo, slitta anche il senso legato al gesto del creare. Carla Cerati non pone l’accento sull’idea di produzione, ma su quella della generazione, additando il conflitto che attanaglia tutte: essere donna o madre? Ambire alla perfezione di un corpo ideale o sottostare, generando, alla naturale imperfezione di un corpo reale? Non è un caso che il libro sia dedicato a Elena. Forse generare significa anche creare una genealogia di donne. In questo modo l’artista esorcizza quello che sosteneva Susan Sontag, ovvero che fotografare significa appropriarsi della cosa che si fotografa e stabilire con esse una relazione di potere, poiché queste immagini si generano non tanto o non solo dall’osservazione, ma dalla relazione. Tuttavia se la maternità è anche matrice dell’apparire, nel senso di nascere e divenire visibile agli altri e a se stessi, cosa evocano questi corpi? “Miravo alla perfezione come punto massimo di non-corporeità, di astrazione dal corpo-soggetto per trasformarlo in corpo-oggetto soltanto per me; per impedire che diventasse oggetto di consumo per gli altri. Analizzarlo, frammentarlo, eliminare il più possibile ogni relazione con la vita (…) privarlo del senso che fino a quel momento aveva avuto il nudo femminile”, scrive Carla Cerati alla fine del libro. 

 

 

Privare questo corpo della dimensione legata al puro consumo, significa restituire libertà al suo essere semplicemente un corpo. Il passo successivo è la libertà del movimento. I provini a contatto inseriti tra le pagine del libro esprimono esattamente non la consistenza della materia, ma la libertà con cui il corpo si muove, ricerca ed esperienza di attori sovversivi che in quegli anni animavano il Living Theatre o la Comuna Baires, oggetto di coeve e successive ricerche.

“Forme movimento colore” è uno di questi esiti. La protagonista delle immagini esposte nel 1989 è Valeria Magli, che Carla ritrae più volte negli anni Ottanta. Il corpo nudo e scattante è fotografato mentre salta, volteggia, compie passi di danza, tenendo in mano diversi lembi di stoffe, anch’essi in movimento (tre di queste immagini si possono vedere in mostra). “L’idea di queste fotografie mi è nata vedendo Valeria Magli, danzatrice e coreografa, ospite per una sera, entrare nella cabina doccia della mia casa al mare. Il corpo morbido e forte, chiaro, si stagliava sul nitore delle maioliche. Mi colpì il movimento, l’introdursi leggero, bianco su bianco”, racconta Carla Cerati. 

 

 

Lo stesso accade per le immagini della mostra “Momenti di essere”, del 2015, in cui si vede una figura femminile che cammina, corre, sosta, dinnanzi a un edificio in città. Il movimento e la forma sono insiti nella natura del soggetto, sono la sua materia, la libertà di “essere”. Forse è utopico. Essere liberi da chi ti genera come dalla tradizione è impossibile? La madre-donna-fotografa che genera e lascia libero di esistere ciò che rappresenta, consente un distacco dal proprio archetipo? 

Difficile rispondere. Tuttavia essere liberi non è solo un’esigenza che riguarda strettamente la vicenda biografica di Carla, divisa fra i ruoli di madre, donna e fotografa, ma è un bisogno anteriore alla sua volontà (e anche alla nostra), è il diritto di cui essa si fa portatrice, addirittura prima di ogni sua decisione di esserlo. Questo ci insegnano le sue immagini. Il corpo è solo uno dei mezzi per mostrarlo. 

 

Mostra: Carla Cerati. Forma di donna. Galleria dell’Incisione di Brescia fino al 21 luglio 2019. Immagini: credits Carla Cerati; courtesy Elena Ceratti.

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Happycracy. Socrate scontento o maiale soddisfatto

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La felicità è una cosa banale o non è. È così, e il suo valore non è certo sminuito per questo. Può capitare a tutti la “banalità del benessere” di un breve momento, transitorio, evanescente per la sua stessa natura costitutiva di sospensione della dura complessità del vivere. Nasce il tuo bambino, tutto si ferma, ed è una gioia squisita, che diventerà altro. Ti innamori, tutto si interrompe, e sei pervaso di sentimenti di piacere, che diventeranno altro. Sono stupende scintille che di tanto in tanto scoccano tra i fatti della vita, ma la felicità non può essere uno status, a meno che non ci si fermi alle zone epidermiche del nostro essere e lì si cerchi un appagamento relativo e simbolico. Se decidiamo di abitare il nostro mondo un po’ più in profondità le cose stanno molto ma molto diversamente. 

Non ci sarebbe tanto altro da aggiungere a questa riflessione, storia del pensiero a parte, se non fosse che in tempi recenti la nozione di felicità è stata proditoriamente sottoposta a una vera e propria revisione che ha dato luogo a delle precise conseguenze nel vivere quotidiano. Questo è il tema di Happycracy. Come la scienza della felicità controlla le nostre vite (Codice Edizioni, 2019), scritto dallo psicologo spagnolo Edgar Cabanas e dalla sociologa israeliana Eva Illouz. Un libro che smonta, pezzo per pezzo, l’assunto della cosiddetta “psicologia positiva” che sta alla base della “scienza della felicità” secondo la quale il raggiungimento della felicità personale è il fine precipuo dell’uomo contemporaneo. Un enunciato davanti al quale non si può non trattenere le immediate e facili ironie dettate dal buonsenso comune: capirai, la felicità, vaglielo un po’ a dire a… Eppure l’idea che si possa costruire una condizione di felicità ha ormai più di due decenni di vita e, a parte tutto, mostra ancora una certa evidente energia.

 

La parabola fondativa della “scienza della felicità” è quella raccontata da La ricerca della felicità, film del 2006 di grande successo diretto da Gabriele Muccino, in cui il povero Chris Gardner (l’attore Will Smith) vive drammaticamente in povertà con moglie e un bambino di cinque anni nell’America reaganiana. Incantato dai broker di una prestigiosa società finanziaria che escono dal lavoro dice: “Mi sembrarono tutti così, non lo so, così felici. Perché non potevo esserlo anch’io?”. Chris decide di diventare anche lui un broker e fa di tutto per iscriversi a un corso presso quella stessa società finanziaria; la moglie lo lascia, ma lui, con il suo bambino, lotta duramente con tutta la determinazione fino a raggiungere il successo. Il vero Chris Gardner, di cui il film è la storia, ha spiegato che Happyness, titolo originale, viene da una scritta murale vista per strada, con la y al posto della i, dove “La y serve a ricordarci che sei tu [you] il responsabile della tua [your] vita. È inutile che aspetti i rinforzi.

Dipende tutto da te.” (p.6) 

 

 

Cabanas e Illouz mostrano come la psicologia positiva abbia consentito al neoliberismo di spopolare in tutto l’Occidente con l’idea di far diventare l’uomo normale sano, e non più solo quello malato, un nuovo oggetto di indagine. Concentrandosi sulle qualità dell’individuo sano per svilupparle ed esaltarle si permette alle persone di “raggiungere la felicità”. Che cosa questo voglia dire, che cosa sia la felicità per gli psicologi positivi, aiuta a capire perché il loro pensiero sia perfettamente pertinente al progetto neoliberista. Gli autori si chiedono perché la felicità, “e non per esempio la giustizia, la prudenza, la solidarietà o la lealtà”, sia riuscita ad avere un ruolo prevalente nelle società del capitalismo neoliberista, e individuano uno dei motivi di tale successo nel fatto che la felicità è “un concetto saturo di valori individualisti, in base ai quali il sé individuale diventa il bene supremo, e i gruppi e le società si riducono ad aggregati di volontà autonome.” (p.51) 

 

Si tratta di una felicità semplificata fino ad essere definibile e misurabile, c’è persino la formula della felicità, eccola: “H=S+C+V, dove H (Happiness) è il vostro livello permanente di felicità, S (Set range) è la vostra quota fissa, C rappresenta le circostanze della vostra vita e V i fattori che dipendono dal vostro controllo volontario” (p.55). Con questa “scientificità” si pensa di poter mettere a disposizione del sistema economico gente capace in sé, con gli opportuni consigli, di una vita bella e dunque produttiva. Brave persone, soddisfatte di lavorare innanzitutto “per il proprio bene”. E se l’individuo è il cardine del sistema economico, per esserne un fattore di stimolo e di continua crescita deve essere positivo, deve avere assoluta fiducia in sé, in una parola deve essere felice. Questa felicità diventa addirittura il prerequisito perché un uomo felice trasmetta la sua positività al sistema in cui opera, cioè l’azienda. Martin Seligman, fondatore della “scienza della felicità”, presidente della American Psychological Association, la più grande associazione di categoria degli psicologi americani con 117.500 membri, intuisce immediatamente, era il 1998, che le applicazioni della psicologia positiva possono diventare strutturali nella società americana, gli individui positivi, motivati perché soddisfatti, interessano all’industria, ma anche al sistema formativo, e anche agli eserciti: tutti campi di applicazione nei quali l’“uomo a una dimensione, felice” è perfettamente coerente. 

 

 

Peccato, dicono gli autori di Happycracy, che proprio le stesse tecniche della felicità permettano anche “di scaricare sulle spalle dei dipendenti i problemi legati all’instabilità del mercato, alla scarsità delle prospettive d’impiego, all’inefficacia strutturale del sistema e alla concorrenza”. (p.13) Altro che felicità, ha ragione Michel Houellebecq: “Il liberalismo economico è l’estensione del dominio della lotta, la sua estensione a tutte le età della vita e a tutte le classi sociali.” (Estensione del dominio della lotta) “

In una società in cui la contentezza smette di essere un ideale e diventa “un tipo di persona” c’è anche un’“economia della felicità”: siccome tutti siamo perfettibili e abbiamo bisogno di migliorarci, diventiamo “clienti”, quantificabili: a chi non serve un coach, un counselor, per colmare la nostra “fondamentale incompletezza” e per raggiungere l’“autogestione emotiva”? In un mondo in cui incombono “il livellamento del senso e la proliferazione della parvenza”, come dice Alain Badiou (pensando a quanto orrore tutto ciò avrebbe suscitato in Lacan), ci viene offerta una miriade di “emodities” (merci emozionali). Ricordate TheTruman Show? Era proprio il 1998, e da qualche altra parte degli Stati Uniti, qualcuno (Peter Weir con Andrew Niccol) aveva altre intuizioni a proposito della falsificazione della società, che andavano in tutt’altra direzione, su una strada in cui incontreremmo fior di idee più volte dimenticate e riprese (mai sentito parlare di Guy Debord?). 

 

I grandi assenti in tutto questo quadro sono l’inconscio e la collettività, come dire, cosucce da niente. Cabanas e Illouz insistono più volte sulla scarsa scientificità dei teorici, per lo più americani, della “scienza della felicità”. La psicologia positiva, dicono, “si aggrappa a un approccio naturalistico, e vede le “emozioni come intrinseche”, vale a dire come un insieme fisso di condizioni universali. Una concettualizzazione del genere si colloca all’esterno del sociale e della storia e trascura la complessità e la molteplicità del fenomeno, dimostrata invece da diversi studi di carattere psicologico, sociologico e storico.” (p. 147) Per non dire della neutralizzazione della dimensione etica della felicità, e del rifiuto di fatto dello stesso aspetto morale del benessere. Per questo Barbara Ehrenreich, tra le voci critiche del mondo scientifico statunitense più spietate contro la “scienza della felicità”, così titola il suo libro Sorridi o muori: come il pensiero positivo ha ingannato l’America e il mondo intero (Smile or die: How Positive Thinking Fooled America and the World, Granta 2010).

 

 

Ma questa colossale mistificazione è uscita dai luoghi di origine, ormai viaggia per il mondo intero, il singolo individuo, di qua o di là, sembra spesso effettivamente molto invaghito della possibilità di mettere mano da sé al proprio singolo destino, che poi, messo assieme a quello degli altri felici, non potrebbe che portare il popolo, come usa dire oggi, alla realizzazione di un Paradiso in terra. Per vivere bene, dicono i nostri trainer in incessante attività, possono bastare, che so, capacità di sorridere, non stare soli, mangiare sano, dormire bene, dedicarsi del tempo, ascoltare musica, avere una vita di relazione, essere ottimisti piuttosto che pessimisti, arte e bellezza, viaggi… Con varianti più o meno furbe, in libreria c’è come un aggiornamento costante di questo “ovviume” (a caso tre titoli italiani appena sfornati, e non proprio da piccoli editori: Ilaria Gaspari, Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita, Einaudi 2019; Raffaele Morelli, Manuale della felicità. Le dieci regole pratiche che ti miglioreranno la vita, Mondadori 2019; Eliana Liotta, Prove di felicità, La nave di Teseo 2019) che fa il paio con l’altro “ovviume”, quello della politica facile del rovesciamo i tavoli, del pensiero finalmente semplice, “perché noi siamo semplici!” come ci viene insegnato, e il pensiero critico è roba da inutili élites puzzone, cioè gente che in fondo non vuole essere semplicemente felice. La felicità, dice la trainer Liotta in un’intervista al Corriere della Sera, “è un dono che richiede una scelta: va desiderata.”

 

L’idea di felicità occupa la mente umana da sempre (numerose suggestioni si trovano in un articolo di Francesca Rigotti su questo sito), c’è come uno sforzo incessante di catturarla, di definirla, di possederla, un tentativo perenne di avere un qualcosa che non conosciamo, ma di cui si sa che fa bene. Un’astrazione, sì, ma bella e buona. Che tuttavia ci costringe a un martellante rovello: ma saremo felici? Umberto Galimberti ci ricorda spesso che questa visione della vita protesa in un al di là è frutto della cristianità, una prospettiva che gli antichi Greci non avevano. Oggi, dice Galimberti, “l’alienazione è l’andare lontani da sé, in modelli che sono vincenti. Si vuole avere un senso della vita, è il punto di vista cristiano, e oggi il senso dipende dall’adeguarsi al contesto in cui si vive, la performance” (puntata della benemerita rubrica di Radio3 “Uomini e profeti” del 14 aprile 2019). Quanto la “scienza della felicità” sia funzionale al mainstream mercantile della società neoliberista, composta da individui liberi-perché-felici-perché-liberi, è evidente. Possibile che un simile semplicismo scientifico sia riuscito a “bucare” la percezione delle persone e diventare comportamento umano? 

 

 

La realtà è una parete che ci circonda ed è sempre molto difficile da oltrepassare senza conseguenze importanti per chi ci prova. Dicono gli autori: “Non esiste un sé univoco, più autentico e assoluto degli altri, così come non c’è uno scopo supremo nella vita, e questo vale anche per il concetto di felicità. Qualsiasi scelta morale, autonoma o imposta che sia, personale o collettiva, comporta sempre il sacrificio di un bene: un sé degno di essere incarnato, alcuni valori che meriterebbero di essere rivendicati, un progetto sociale che varrebbe la pena attuare. È proprio questa l’irriducibile tragedia della scelta, radicata nella natura stessa dell’esperienza personale, sociale e politica a livello quotidiano. Nemmeno il fior fiore della scienza della felicità può salvarci da quei piccoli e grandi dolori nei quali ci imbatteremo inevitabilmente nel corso della vita.” (p.164)

Ci sono i sentimenti negativi, le emozioni “oblique” che nascono dal male e vanno dirette al bene, le infinite combinazioni tra vissuti personali e ambienti di vita, fisicità monche, inspiegabili potenzialità, imperfezioni e incompetenze, paure, angosce del crescere e dell’invecchiare, odio, invidia, tristezza, noia, nostalgia… Il positivo non può farcela a prevalere se non al prezzo, altissimo, di rinunciare al senso di realtà. La realtà è la normalità, con tutti i suoi tormenti, in mezzo ai quali si cela, banalmente, anche l’ipotesi di felicità che a chiunque può capitare di realizzare. La felicità è banale o non è, appunto (quanta letteratura è fatta di questo!). E la socialità ne è una componente imprescindibile. Come ripetutamente dicono Cabanas e Illouz, non si può buttare via la dimensione collettiva, quella della solidarietà tra gli uomini da cui è nata la civilizzazione. 

 

 

Il filosofo utilitarista John Stuart Mill, a metà Ottocento, per spiegare polemicamente le sue obiezioni alle idee, secondo lui un po’ semplicistiche, di Jeremy Bentham, fondatore dell’utilitarismo, usò la celebre formula “Meglio un Socrate scontento che un maiale soddisfatto”; mi pare che, mutatis mutandis, possa ancora funzionare egregiamente nella nostra società contemporanea. Perché, come dicono in conclusione gli autori di Happycracy, “La conoscenza e la giustizia, e non la felicità, sono e saranno sempre lo scopo morale e rivoluzionario della nostra vita”. O no? 

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Primo Levi e Il monumento ai caduti

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A Canale d’Alba nella Piazza del Municipio domenica 30 settembre 1977 si inaugura un monumento. Si tratta dell’opera di Gino Scarsi, uno scultore locale. È un omaggio ai “Caduti e dispersi delle due guerre mondiali”. L’iniziativa è promossa dai circoli di base, dal movimento non violento, da una comunità cristiana di base del luogo e da gruppi politici locali. La scultura è una struttura in ferro modellata a caldo del peso di circa dieci quintali; raffigura una mostruosa creatura a tre teste su cui stanno tre copricapi che l’identificano: un generale, un fascista e un capitalista; ai loro piedi un soldato morto indossa un elmetto. Ricorda un disegno di Enrico Baj. La scultura sarà poi itinerante, esposta in altri luoghi, dal 1984 è ad Acri. L’autore collezionerà quattro denunce per vilipendio, ma sarà prosciolto in istruttoria. Primo Levi è presente. Il suo nome non c’è sul manifesto che annuncia l’iniziativa, tuttavia la sua partecipazione è gradita al gruppo di giovani che hanno organizzato l’iniziativa.

 

L’hanno invitano a prendere la parola. Paola Agosti, fotografa che ha rappresentato il mondo contadino del Piemonte e anche il movimento femminista degli anni Settanta, è presente e scatta una serie di immagini. Paola ha trent’anni e conosce da tempo Primo, dal momento che è amico dei suoi genitori. A distanza di tempo racconterà che queste sono le uniche fotografie che ha scattato. Aveva pensato di farlo successivamente, ma non è accaduto. Sono immagini molto belle perché ritraggono un Levi sorridente, a proprio agio tra i giovani. Parla al microfono e intorno a lui ci sono i promotori della iniziativa. Apre leggermente le braccia nella tipica posa dell’oratore, anche se non c’è nulla di retorico nella sua gestualità, appare spontaneo. Indossa una giacca e nel taschino ha infilato la proverbiale penna, quella che ha portato per anni quando lavorava come dirigente della Siva, la fabbrica di vernici. L’anno seguente uscirà La chiave a stella, romanzo dedicato al lavoro. Porta il pizzetto, la barba e i capelli si sono imbiancati. Gli ha sempre fatto molto piacere parlare con i giovani. Ha cominciato presto, ogni volta che ne aveva occasione, ma è solo dopo la ripubblicazione di Se questo è un uomo presso Einaudi nel 1958, che è diventato un punto di riferimento per loro.

 

Nel 1959 viene inaugurata a Torino la mostra sulla deportazione realizzata a Carpi quattro anni prima. Levi partecipa alla presentazione dell’iniziativa nella sua città. Ci centinaia di giovani ad ascoltarlo e l’incontro viene ripetuto. Sul quotidiano “La Stampa”, nella rubrica “Specchio dei tempi” una ragazza, figlia di un fascista, chiede se è vero quello che ha visto nella mostra, se davvero le cose orribili raffigurate sono accadute. Il giornale chiede a Levi di rispondere: “No, signorina non c’è modo di dubitare della verità di quelle immagini”. Il testimone vuole parlare ai figli di quegli uomini che hanno collaborato o chiuso gli occhi davanti all’abominio della deportazione e dello sterminio. Dopo anni in cui si è parlato solo della Resistenza in termini eroici, a partire dal 1955 s’affronta finalmente l’argomento della deportazione nazista. Il suo libro passa di mano in mano e si esauriscono rapidamente le varie tirature approntate via via da Einaudi. Il testimone Levi viene invitato nelle scuole.

 

Torna a parlare dopo oltre un decennio dalla sua prima testimonianza scritta. Di più: riceve a casa giovani studenti che stanno realizzando tesine per la maturità sul suo libro. Perciò eccolo qui a Canale d’Alba circondato dai ragazzi dei comitati di base. Sono loro che l’attorniano, come il ragazzo in primo piano che stringe il pacco dei fogli; indossa una giacca di lana a scacchi abbigliamento dell’epoca. Levi sorride anche se sta probabilmente parlando di eventi dolorosi, dei “caduti e dispersi di due guerre mondiali”. La testimonianza non è solo qualcosa di triste. Resa in mezzo a quei ragazzi è animata anche dalla speranza. Probabilmente sta spiegando, come ha risposto alla ragazza, “quali riserve di ferocia giacciano in fondo all’animo umano, e quali pericoli minaccino, oggi come ieri, la nostra civiltà”. Si è recato a Canale per ripeterlo ancora. Per questo, con ogni probabilità, quella è stata una bella giornata.

 

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Levi al naturale

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Mario Dondero

Mario Dondero ha scattato diverse immagini di Primo Levi a metà degli anni Ottanta. Sono tutte immagini prese senza mettere in posa lo scrittore. Catturate al volo, mosse o appena sfuocate, perché questo è il modo di scattare di Dondero. Si può dire che la sua sia una “fotografia naturale”; il contrario dell’“istante perfetto” di Henri Cartier-Bresson, per cui il fotografo cerca di cogliere il momento unico, di fermarlo nel continuum temporale che scorre davanti ai suoi occhi. Dondero amava fotografare in modo imperfetto, per cogliere il flusso medesimo della vita. Sono immagini che somigliano agli istanti di memoria, che non si staccano da ciò che è accaduto, ne conservano un’intensità che sembra perpetuarsi. Quando si ricorda, nulla è davvero totalmente a fuoco, nitido come in una fotografia. Questo scatto, che coglie Levi mentre parla con una persona, non è esattamente una fotografia; eppure lo è, almeno materialmente, poiché Dondero ha premuto il pulsante della sua macchina analogica.

 

Qui lo scrittore è a fuoco, cosa che non si può dire del suo interlocutore, di cui scorgiamo solo la nuca. Anche ciò che si vede sullo sfondo è sfumato, fuori fuoco, confuso. Tuttavia l’espressione di Levi appare perfetta, colta in un momento del dialogo, dell’interlocuzione. Giacca quadrettata, cravatta, penna, o altro strumento, infilato nel taschino. Si scorge persino, dietro gli occhiali che ricoprono parte del viso, un suo leggero strabismo, che non è visibile in altre fotografie che gli sono state fatte.

 

In questa, come in altre immagini di Dondero, sì. Possiamo dire che questo è un Primo Levi al naturale, per quanto non sia proprio un ritratto, bensì qualcosa che appartiene piuttosto alla visione che si poteva avere di lui incontrandolo. Non è sempre facile per un fotografo sfuggire alla messa in posa, alla tentazione di ritrarre il grande scrittore – filosofo o artista o intellettuale – seguendo la sua immagine pubblica. Questo tipo di immagini precede la fotografia che verrà fatta, come se colui che lo ritrae avesse già in mente lo scatto giusto. A un certo punto della sua vita Primo Levi, per via del pizzetto bianco, della fronte ampia, dei capelli bianchi, poi soprattutto per quello che era diventato agli occhi degli altri, dei suoi lettori, della gente in genere, per la fama, il prestigio e la considerazione di cui godeva, era visto soprattutto come un profeta laico, un ruolo che lui rifiutava decisamente. Diceva di sé: sono solo un uomo di buona memoria. Ecco che il ritratto di Mario Dondero ce lo restituisce così com’era: un uomo di buona memoria.

 

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Letizia Battaglia. Fotografia come scelta di vita

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In questi giorni, a Venezia, presso la Casa dei Tre Oci,  si può vedere “Fotogafia come scelta di vita”, una mostra dedicata a Letizia Battaglia. Trecento immagini raccontano una città, Palermo, per una volta non sovrastata dal marchio “mafia”. Piazze, mercati, parchi, quartieri, talvolta affollati, talvolta deserti, si susseguono di immagine in immagine, mostrando le contraddizioni di una città che la fotografa ha scelto come luogo in cui vivere e lavorare. “Consiglio di fotografare tutto da molto vicino, a distanza di un cazzotto o di una carezza”, afferma convinta. 

 

Il suo sguardo non ammette esitazioni. Fotografare per il quotidiano l’Ora, dal 1974 al 1992, ha significato correre sul luogo del delitto, essere tempestiva, non avere il tempo per prepararsi allo scatto. I corpi senza vita che stavano sull’asfalto o che venivano estratti dalle auto crivellate di colpi, dovevano essere fotografati immediatamente. È davvero questo l’istante perfetto di Letizia Battaglia? 

Per capirlo bisognerebbe guardare un’immagine, che il compagno e fotografo Franco Zecchin le scatta nel 1976, sul luogo di un omicidio. È vestita di nero, accucciata di fronte a un cadavere. Tutti gli altri sono in piedi, c’è persino un uomo che sembra stia sbadigliando. Il suo sguardo è l’unico rivolto a quel cadavere. È il punctum della foto.  Solo la Battaglia pare dedicargli attenzione, perché per lei fotografare non è solo immortalare un istante, bensì fronteggiare la morte, forte della consapevolezza, che ogni cadavere ha innanzitutto avuto una vita. 

 

Letizia Battaglia, La ricamatrice, 1987, Montemaggiore Belsito.


C’è un’altra immagine che lo spiega. Un bambino che giace in una enorme pozza di sangue. La sua colpa è aver visto i killer. Letizia Battaglia non riesce ad esporla. Cosa può voler dire questa autocensura? Forse è il nucleo di un conflitto irrisolto tra pudore e amore, tra il dovere di mostrare la morte e il desiderio di rappresentare la vita. In questo caso non è possibile schierarsi, giustizia e giustezza non collimano. Il pudore è forte come l’amore. Forse l’immagine del bambino è il vuoto entro cui la fotografia come scelta di vita mostra il suo limite, nonostante la Battaglia trovi il coraggio di raccontarlo. 

Tutto il resto emerge con una forza sbalorditiva. Da una parte le fotografie che mostrano un interminabile numero di  cadaveri: persone comuni, giudici, poliziotti, politici, dall’altra le immagini di una città che sopravvive. “Io sono una che ha fatto reportage rimanendo nella città dove vive. Per me significa andare al cuore delle cose, di un luogo, di una città, di un gruppo di persone”, afferma la Battaglia. 

Le fotografie esposte a Venezia mostrano le persone che festeggiano il giorno di Pasquetta al parco della Favorita, i mercati affollati, i comizi politici, le lotte sociali. E soprattutto si possono vedere  moltissime donne: madri, figlie, sorelle. Una lunga linea che scorre parallela alle morti e narra la storia di una città completamente diversa. “La Sicilia è la mia terra. E Palermo qualcosa in più di una casa. Di Palermo sono stata figlia, un tempo. Di Palermo, oggi, mi sento un po’ madre. Come figlia le ho disobbedito a volte, sempre rimandovi legata. Come madre, oggi, provo a prendermene cura sapendo che non è affatto facile”, racconta la fotografa. 

 

Letizia Battaglia, Lunedì di pasquetta a Piano, 1974.


Le figure della madre e della figlia danno forma al suo sguardo. Sono il passato della città e il suo futuro. Le madri che ha fotografato sembrano rispondere all’immagine mai esposta di quel bambino ucciso. Sono il volto che protegge, che perdura, che purifica. Il dolore della madre sopravvive al conflitto. Il suo pianto trascende tutte le differenze, ingloba l’ingiustizia. Una madre tiene fra le sue mani la foto del figlio scomparso a Mazzarino (1984), Felicia Bartolotta Impastato siede sul divano di casa, con le mani intrecciate e la foto del figlio Giuseppe dietro di lei (2001) e ancora un’altra madre siede mesta, con il capo coperto da un velo, nell’aula di un tribunale. E poi si vede l’immagine della Madonna, che sembra includerle tutte. In queste rappresentazioni si comprende che più del Cristo stesso è la figura dell’Addolorata a commuovere. La madre è viva. Il suo dramma è terreno e carnale. La Madonna a Marsala (1984), le donne velate per i misteri pasquali a Gangi (1985),  la statua di Maria con Gesù fra le sue braccia nel duomo di Cefalù (1981), le donne che vegliano il Cristo morto a Marsala (1988) o il padre morto nell’androne di casa a Palermo (1986), sono solo alcuni esempi che provengono dal suo sterminato archivio. 

 

Letizia Battaglia, Vicino la chiesa di casa Professa, 1991, Palermo.


Si tratta di immagini in cui il tema della femminilità si rapporta alla negatività violenta e omicida di un mondo maschile e patriarcale, che scioglie il proprio dramma nel momento liberatorio in cui la presenza materna si eleva e diviene antidoto contro la morte. Cos’è la fotografia se non  “presenza”, ovvero un esserci nella storia, un modo per dare fisionomia al patire, per oggettivarlo e trasformarlo in luogo della memoria e degli affetti? 

Le fotografie di Letizia Battaglia rievocano per certi aspetti i lamenti funebri, esorcizzano tanto la crisi della presenza quanto quella del cordoglio, poiché valgono come testimonianza e memoria di una interiorizzazione del morto e come ristabilimento del diritto dei vivi a volgere il proprio sguardo verso il futuro. Forse è per questo che le immagini legate alla vita sono inseparabili da quelle che ostentano la morte. Poiché se le prime mostrano un orizzonte che contempla la possibilità di un futuro migliore, le altre, con i cadaveri riversi per le strade, si trasformano nel  simbolo di una permanenza o di un ritorno, da cui scaturisce il desiderio di un rinnovamento. 

 

Letizia Battaglia, Domenica di Pasqua, festeggiamenti per incitare l'uscita della statua di San Michele, patrono di Caltabellotta, 1984.


Le immagini  infrangono impotenza, omertà e silenzio. Le bambine che lei fotografa incarnano questo passaggio: dal tempo della permanenza a quello della trasformazione. Sono la speranza nel futuro, la volontà di divenire soggetti liberi, autonomi e responsabili. Si collocano davvero nello spazio prossimo all’obiettivo e ci guardano in maniera diretta. “Le bambine sono io a cercarle, con molta emozione: quando incontro la ragazzina imbronciata, sulla soglia dell’adolescenza, magra con le occhiaie, i capelli lisci, sono io. E quando la fotografo è come se facessi un incontro di bambina con bambina”. 

Letizia Battaglia guarda Palermo nello stesso modo. Per questo non esita dinnanzi al dilemma che affligge molti fotoreporter, e che consiste nel dover scegliere fra testimonianza fotografica e azione diretta. O meglio lo interpreta a modo suo. Diventa dapprima consigliere comunale e poi deputato. Le sue immagini nascono nell’istante della consapevolezza e della mancanza di rimpianti. Può fotografare i morti, riservare loro uno sguardo pietoso, perché è conscia che ha fatto tutto ciò che poteva per impedirlo. Si è occupata anche della loro vita. Per questo riesce a fotografare senza alcuna mediazione. La realtà si appiccica al suo obiettivo come una seconda pelle, poiché lei stessa incarna la complessità del luogo in cui vive. Le sue immagini non producono nessuna assuefazione al dolore e non corrono il rischio di essere giudicate grondanti di estetismo compiaciuto, per una ragione innegabile: non sono semplici immagini, ma immagini delle sue scelte di vita. 

 

Letizia Battaglia, Il tempio di Segesta, 1986.


Esattamente come accade con gli aspetti strettamente connessi alla tecnica. “Io non uso il teleobiettivo. Con il teleobiettivo non creo l’impatto e l’emozione tra me e l’altra persona. Mi allontano da ciò che racconto” afferma la Battaglia. E ancora: “Mi è capitato di fare fotografie a colori. (…) Non c’entra niente con me. Perché forse io sono un poco drammatica. (…) Il bianco e nero ti permette di vedere cose che il colore non rivela”.

La fotocamera non è altro che un’estensione di sé. Per questo fotografare le vie di Palermo significa desiderarle perennemente libere dai cadaveri, mentre puntare lo sguardo verso i morti equivale a dare loro un ultimo attimo di pace. Fotografare la città ha significato non abbandonare Palermo. “Non era la felicità il traguardo. (…) Ma qualcosa che aveva a che fare con la felicità” ricorda. “Quale fu la tesi iniziale? Ci furono tesi, programmi o fu tutto un vivere, un sentire forte e complicato dall’inizio fino ad oggi?”. Un vivere, si potrebbe dire. Questa è stata la vera scelta.  

 

Mostra: Letizia Battaglia. Fotografia come scelta di vita, a cura di Francesca Alfano Miglietti, Venezia, Tre Oci,  dal 20/03 al 18/8/201

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Levi umorista

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Paola Agosti

Primo Levi che sorride. L’ha colto con il suo obiettivo fotografico Paola Agosti nel settembre del 1977 a Canale d’Alba. Una bella foto. Non sono molte le immagini che ritraggono Levi sorridente. Basta cercare nel web per accorgersi che prevalgono quelle che lo ritraggono serio o riflessivo, se non proprio corrucciato, come se a lui fosse toccato in sorte il destino di assumere l’eterno ruolo del testimone dell’Olocausto, parola che Levi non usava quasi mai, così come non utilizzava Shoah. Un destino che lo ha inchiodato a uno stereotipo. Però come in tutti gli stereotipi qualcosa di vero c’è. Levi è stato il testimone dello sterminio ebraico, e non solo, perché i nazisti hanno mandato a morte milioni di persone ad Auschwitz e negli altri campi della morte insieme agli ebrei: omosessuali, rom, russi, slavi, oppositori politici di innumerevoli paesi e nazioni. Tuttavia Levi non era solo seriosissimo, sapeva anche sorridere e ridere. Era spiritoso e amava l’umorismo. Quando è morto nel suo ricordo sul quotidiano torinese “La Stampa” Massimo Mila, musicologo, come lui amante della montagna, ha scritto: “Parrà una enormità, ma se mi chiedessero di definire con una sola parola lo scrittore, direi che era un umorista”.

 

La definizione di Mila ha fatto fatica a imporsi per via della tragica morte, e per il portato di dolore che la sua testimonianza recava con sé. Del resto, Levi stesso aveva detto che se c’era una cosa su cui gli esseri umani potevano fondarsi non era certo il Cogito, ergo sum di Cartesio, ovvero la ragione umana, bensì il dolore che ogni creatura sperimenta nella propria esistenza. L’aveva scritto in un racconto in cui un cavadenti dà le proprie istruzioni testamentarie al figlio (Un testamento), un testo che fa riflettere per la sua sensibilità, intelligenza e capacità di sintetizzare in forma narrativa lunghi e complicati discorsi sul dolore medesimo. Levi era anche un umorista. Il primo ad accorgersene non è stato Mila, che pure l’ha scritto il giorno dopo la sua morte, bensì Italo Calvino. In una lettera del novembre del 1961, in cui dà a Levi il suo parere sui racconti che poi usciranno cinque anni dopo nel libro Storie naturali. Tra le varie cose che Calvino dice al riguardo dei racconti, che Primo gli ha dato in lettura, c’è anche l’umorismo, e lo mette insieme al garbo. Una lettera di grande acutezza critica, che sarà molto utile a Levi negli anni seguenti per orientarlo nella scrittura. Nello specifico Calvino si riferisce a un racconto che ha per protagonista una tenia e un assiriologo che riesce a decifrarne il messaggio segreto, e anche alla storia del centauro, un testo basilare per la comprensione dello scrittore e dell’uomo Levi.

 

Calvino lo reputava un vero scrittore, e questo sin dal suo esordio con Se questo è un uomo, che aveva recensito nel 1948 su “L’Unità”. Parlando il giorno stesso della lettera inviata a Primo agli altri einaudiani riuniti nel rituale incontro del mercoledì, Calvino riferisce di aver letto i racconti di Levi, ma che il libro ancora non c’è. L’avverbio “ancora” indica che se non c’è, però ci sarà. Calvino fa capire di essere ottimista, e quando il libro ci sarà ne riferirà al consiglio editoriale. Dovranno passare vari anni e, per quanto uscito inizialmente con lo pseudonimo Damiano Malabaila e non con il suo vero nome, il libro rompe decisamente con la sua identità di testimone. All’epoca è il testimone antifascista per eccellenza, poi diventerà, nonostante lui, il testimone della Shoah, e a questo resterà fissato per almeno un trentennio. L’umorismo è una chiave importante per capire la sua opera. Non è solo nei racconti che fa sorridere e a volte persino ridere. Anche in Se questo è un uomo ci sono momenti così, pochi, ma ci sono. Il suo umorismo è particolare; somiglia a quello di uno dei suoi maestri, Alessandro Manzoni, ammirato ma anche criticato a proposito dei gesti di Renzo in un articolo, come si usa con i maestri.

 

Un umorismo sottile, non perché da intellettuale, ma perché innervato da quella pietas che per Manzoni ha a che fare con il credo religioso, mentre per Levi è parte del proprio bagaglio di ebreo laico, quindi disposto a ridere degli altri e di sé stesso. Umorismo ebraico? Sì, ma non è solo quello. C’è in Levi una forma di empatia che gli permette di intuire cosa accade nella testa degli altri e questi altri, per lui e per noi lettori, sono i suoi personaggi, creature autonome, come si renderà conto quando scriverà il suo unico romanzo, Se non ora, quando?, in grado di muoversi e agire quasi in modo indipendente dall’autore. In quell’articolo di congedo Mila, amante delle montagne che scalava e di cui scriveva con perizia, lo descrive così: “Cortese, affabile; ma con quel fisico magro, con quella barbetta scattante, con quegli occhietti vivaci, aveva qualcosa del camoscio, un animale che ispira tanta simpatia, ma che si lascia avvicinare poco”. Sembra un perfetto commento per questa bella fotografia di Paola Agosti: il camoscio Primo Levi che sorride.

 

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Gli alberi e le parole di Tiziano Fratus

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Il primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell’albero proclamata quest’anno al Parlamento francese recita: “L’albero è un essere vivente fisso che, in proporzioni comparabili, occupa due ambienti distinti, l’atmosfera e il suolo. Nel terreno si sviluppano le radici, che catturano l’acqua e i minerali. Nell’atmosfera cresce la corona, che cattura l’anidride carbonica e l’energia solare. Per questo, l’albero svolge un ruolo fondamentale nell’equilibrio ecologico del pianeta”. Di questo miracolo della natura è appassionato Tiziano Fratus, scrittore, fotografo, naturalista, cercatore d’alberi.

Guardo le sue fotografie, tutte realizzate in un severo ma luminoso bianco e nero. In un mondo sull’orlo del precipizio di cambiamenti climatici forse irreparabili, i suoi alberi, i suoi saggi e le sue poesie sono una salvifica distrazione per la mente, un universo parallelo, da esplorare senza fretta. 

 

 

Nei libri annoda conoscenza naturalistica, evidente nei saggi, con un meditare che al sapere aggiunge profondità, coscienza e responsabilità. Dalle pagine e dalle fotografie traspare l’invito ad andare a vedere, a camminare e riflettere in mezzo ai pini cembri del Bosco dell’Alevé, in Val Varaita, e del Passo Manghen, fra Val di Fiemme e Valsugana, o nei boschi di larici e abeti che attorniano il Monte Pelmo o sotto il faggio del Pontone, il maggiore d’Italia per circonferenza del tronco, vicino al Passo Godi in Abruzzo.

Fratus sarebbe felice se un suo lettore, stimolato da foto e parole, andasse per quei luoghi, provando le sue stesse emozioni e sensazioni. Questa raccolta di immagini non è solo un’esposizione, è una ricerca di condivisione. 

 

 

“Quando non riesco a parlare vado a prendere la legna nel bosco e accendo le mie speranze”, così scriveva Alda Merini. Questo aforisma mi pare colga bene il senso di Tiziano per gli alberi.

Scorrendo il sovrapporsi di fotografie e di versi, ripenso a tutte le volte che nella mia vita ho incrociato alberi e poesia. Luoghi e scrittori che ricorrono anche fra le pagine di Tiziano Fratus. 

La mente va alla distruzione dei boschi dell’altipiano dei Sette Comuni, lo scorso anno, alla fine di ottobre. Protagonisti di tanti racconti di Mario Rigoni Stern, soprattutto del libro Arboreto salvatico, sono stati schiantati da una violenta bufera di vento; più di 300mila gli alberi abbattuti. Spezzato anche l’acero del suo arboreto salvatico, del gruppo di alberi che aveva piantato uno alla volta nel corso degli anni intorno alla sua casa, sul limitare del bosco. Quel giorno furono distrutte anche molte foreste del Bellunese e del Trentino. Triste accostare i magnifici scatti di Fratus, i grovigli di foglie, di rami e di radici, le alte colonne che sfidano il cielo e il tempo, alle distese orizzontali di tronchi abbattuti viste in altipiano. 

 

 

Ampio e complesso lo scenario che si apre ripensando all’antico rapporto tra gli alberi, la storia e la cultura. Nelle immagini di Fratus emergono la fragile bellezza ma anche la resistenza e la longevità di quello che Carlo Emilio Gadda definiva il ‘popolo degli alberi’. 

Nell’altipiano dei 7 Comuni, sotto l’ombra del ‘faggio di Gadda’ correvano le trincee e la postazione del gran lombardo. Pare sia stato piantato alla fine del Quattrocento in occasione della scoperta dell’America, di certo c’è la sua magnificenza di colori autunnali, struggente in ottobre. Alla sommità del tronco una mente desolata aveva inciso una svastica, l’avevo vista nell’ottobre del 2005 e avevo avvertito Rigoni Stern che a quel luogo era affezionato; lui poi aveva chiesto a un amico di rimuoverla. 

Penso poi al tiglio di Dino Buzzati in Valpiana non lontano dalla villa San Pellegrino dove era nato e poi sempre tornato, di dubbia individuazione purtroppo, e al liriodendro, alto quasi trenta metri, che lo scrittore ammirava dalle finestre e che chiamava ‘l’alberone’. Più volte citato nei suoi racconti e anche dipinto. E poi il suo ‘bosco vecchio’, tra le Dolomiti, con le cime degli abeti sparigliate dal vento Matteo.

Vado a ricordare i grandi platani di Chiavenna, presso la zona storica dei crotti: quaranta metri di altezza e sei metri di circonferenza, cari al ‘poeta delle Alpi’ Giovanni Bertacchi, spettatori dell’ultimo scontro per liberare la cittadina dal presidio fascista, nell’aprile del 1945.

E poi i larici e i pini cembri del lago Bianco, presso il rifugio Barbustel, un luogo che a Primo Levi ricordava Jack London e l’Alaska: vi si arriva salendo dalla valle di Champorcher o attraversando il Parco naturale del Mont Avic. 

 

 

Se penso ai larici mi emoziona ricordare quelli di Forcella Lerosa, negli altipiani sopra Ra Stua, un mondo di bellezza naturale ricordato soprattutto nelle pagine di Giovanni Cenacchi, climber e scrittore di montagna troppo presto scomparso. Sfinito dal cancro in un letto di ospedale, tormentato dal pensiero della malattia, ebbe la lucidità emozionata di scrivere nel suo diario: “Anche dal fondo dell’orrore, non posso non ammettere che il mondo sia uno spettacolo meraviglioso. Un pomeriggio di pioggia su un pascolo in alta montagna. Luce a drappi e a festoni, a colonne e a statue; luce a fiammate, a fontane, in grumi, in polvere iridescente per le stanze del bosco”.

Ho camminato anche nel Bosco delle castagne sopra Belluno, dove il 10 marzo del 1945, i tedeschi impiccarono per rappresaglia nove partigiani e un soldato francese. La guerra era ormai alla fine, le sorti del conflitto già chiare, e quelle giovani vite si spensero tra rami e cielo.

 

È lunga la storia dei legami tra alberi e cultura, letteraria e civile. Scrive Rigoni Stern: “Quando gli uomini vivevano dentro la natura, gli alberi erano un tramite di comunicazione della terra con il cielo e del cielo con la terra”. 

A Ferrara sono rimasto incantato a guardare i cedri del Libano all’ingresso del parco Massari, un luogo che ispirò Giorgio Bassani nel descrivere il giardino dei Finzi Contini. A guardarli, le sensazioni divergono: si ammira la loro forza e resistenza e si avverte una sottile malinconia, legata alla vicenda narrata da Bassani. 

 

 

Queste sensazioni contraddittorie sono frequenti: i grandi alberi monumentali esibiscono un passato secolare, quasi eterno e al contempo passibile di scomparire in fretta per le ingiurie del tempo e degli uomini. Una fragilità che diventa tristezza se osserviamo gli anelli degli anni in un tronco abbattuto. Quanti avvenimenti avrà visto quest’albero? Quante persone saranno passate sotto le sue fronde? 

Tra le foto di Fratus ho visto quel che resta dell’Avez del Prinzipe, un tempo l’abete bianco più alto d’Europa: un prato e un grande faggio che potrebbe raccoglierne il testimone. Il vento lo fece schiantare nel novembre del 2017: era una presenza discreta, un abete chioccia circondato dalla vegetazione, lo si poteva ammirare e valutarne gli anni solo guardandolo dal basso.

“Gli alberi fermano il tempo”, scriveva il naturalista inglese Roger Deakin. Forse, certo ci aiutano a capirne il senso e la misura. 

Il camminare in mezzo a loro, magari in un lariceto come quello di Gwengwiesen presso San Candido, ha invece a che fare con la felicità, con la consapevolezza di aver vissuto stagioni buone e altre meno buone. Ma vissute. Che è già un dono. 

 

 

Chiudo questa breve introduzione alla dendrosofia, alla passione per gli alberi di Tiziano Fratus, con le parole del filosofo Immanuel Kant: “Sublimi sono le alte querce, le ombre solitarie in un bosco sacro; belle sono le aiuole, le piccole siepi, gli alberi potati a figura. La notte è sublime, il giorno è bello. I temperamenti dotati di un sentimento del sublime, dal calmo silenzio di una sera d'estate, quando la luce tremolante delle stelle si rifrange in mezzo alle brune ombre notturne, e la luna solitaria campeggia sull'orizzonte, vengono a poco a poco innalzati a un elevato sentire di amicizia, di disprezzo per il mondo, di eternità. Il giorno radioso ispira fervore di opere e un sentimento di allegria” (da Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, del 1764).

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Esistere, resistere, fotografare

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Libuše Jarcovjáková  vive a Praga. Studia all’Accademia del cinema (FAMU), ma le sue immagini sono troppo eccentriche. Non riesce a trovare luoghi dove esporle. Le comunità di lavoratori marginalizzati, i bar degli omosessuali, gli amici e gli amori, che fotografa dal 1970, non si possono mostrare. Questo vale anche per sé, quando si ritrae nuda o si masturba. La Primavera di Praga è stata poco più di un’illusione, e la caduta del muro di Berlino, è molto distante. Praga è una prigione e la fotocamera è il solo mezzo per evadere. L’insostenibile leggerezza dell’essere, e l’incontenibile vitalità del corpo, invade anche le immagini della fotografa. Il pube dell’amica Eva sdraiata su un letto che afferra un bicchiere posato poco sopra gli slip abbassati, dalla serie Killing Summer (1984), è una sorta di manifesto programmatico. La fotografa entra con il proprio corpo dentro l’inquadratura. È sua la mano che abbassa gli slip all’amica. Corpo e sguardo coincidono. Lo sguardo tocca, afferra, interviene. Sesso e alcool  sono tra i pochi mezzi consentiti con cui opporsi a un potere repressivo che ha ridotto l’essere umano a un essere mutilato. L’ebbrezza e l’abbandono ne costituiscono la trama visiva. Se ne riempie lo sguardo della fotografa che è  allucinato come la luce del flash che  spara sui soggetti, e ne viene stravolto, come un corpo che si abbandona, allo stesso modo dei contorni sfocati e sgranati di molte delle sue immagini. “Ho potuto esprimermi con la fotografia come volevo, perché non avevo nulla da perdere in questo contesto di repressione”, racconta la Jarcovjáková. E le centinaia di foto nella sua mostra, persino troppe, lo testimoniano con una forza espressiva che avvolge tra le sue forme notturne e ambigue anche lo sguardo dello spettatore.  

 

Libuše Jarcovjáková, David, Prague, 1984. Courtesy of the artist.


Libuše Jarcovjáková, From the T-club series, Prague, 1980s. Courtesy of the artist.


La mostra Evokativ di Libuše Jarcovjáková è una delle tre che raccontano meglio questa edizione dei Rencontres, nella quale vengono celebrati i cinquant’anni dalla sua fondazione. Le altre, che fanno parte della sezione  Mon corps est une arme. Exister, résister, photographier  sono  Les libertés intérieures. Photographie Est-Allemande 1980-1989 e La Movida. Chronique d’une agitation1978-1988.

L’incertezza, la mobilità, l’inquietante provvisorietà della sua storia sembra giungere anche a un’altra città: Berlino. Non ci sono dubbi. La Germania divisa diviene il segno visibile di una lacerazione che taglia la storia e l’Europa, e che rimane inciso sui corpi. Una città divisa è sinonimo di un’identità divisa. I sedici fotografi che vivono a Berlino Est incarnano questa frattura. Come è possibile esprimere la propria individualità in una società dove il singolare viene sacrificato al collettivo? Con la libertà interiore. Se il muro è impenetrabile, il corpo riesce comunque a insinuarvisi.  Le fotografie diventano la forma di un’arte struggente che assomiglia all’adolescenza per la sua mescolanza di artificio e ingenuità, sentimenti e intellettualismo intransigente, violenta contestazione e disarmante abbandono. Ognuno di loro cerca di sopravvivere a una città, la cui storia pare innaturalmente bloccata. Una delle reazioni, a questo senso di tempo immobile e immutabile si percepisce appieno nelle immagini di Tina Bara. In particolare nel film Lange Weile del 2016, composto da 400 immagini che testimoniano la sua vita e quella del gruppo di amici, dal 1983 al 1989. Lange Weile significa noia, letteralmente “lungo mentre”. Resistervi è una strategia. Significa resistere alla lentezza che il potere impone al tempo. Mostrare il corpo significa spezzare l’uniformità di un tempo monocorde e omologato. La noia, quindi, non è solo una presa di distanza da qualcosa a cui non si sente di appartenere, ma anche ciò che induce Tina Bara e gli altri fotografi a rientrare in sé, ad ascoltarsi, vedersi e trovare una possibile via di fuga. È un confine labile tra esterno e interno. Nelle sue immagini, l’immobilismo muta il suo segno. Sembra,  infatti, che in quella interminabile sequenza visiva  si possa vivere in anticipo il futuro. Le fotografie prefigurano dunque una vita che si spinge oltre il lungo istante di noia che hanno messo in scena. A Berlino Est si può vedere, udire e sentire la possibilità di un cambiamento.  

 

Gundula Schulze Eldowy, Berlin, 1987, from the Berlin on a dog's night series. Courtesy of the artist.


Gabriele Stötzer, Mirror reflexion, 1984. Courtesy of the artist.


I quattro fotografi della movida spagnola lo gridano. La Madrid degli anni Ottanta è un’esplosione di eccitazione e vitalismo. Franco muore nel 1975, ma la dittatura sembra porsi a una distanza siderale. La reazione è potentissima. “Là  dove tre persone dividono la voglia di fare qualcosa insieme, c’è una movida”, afferma il fotografo Pablo Pérez-Minguez. I  corpi  fotografati sono compiaciuti, gaudenti, androgini, autosufficienti, esuberanti. Le fotografie esprimono una presenza e una disponibilità assolute. Sono insieme eccesso e perfezione. Il corpo si affida completamente all’immagine. 

 

Alberto García-Alix, Eduardo y Lirio, 1980. Avec l’aimable autorisation de l’artiste et VEGAP. (Exposition La Movida).


Miguel Trillo, El Calderón, Concert des Rolling Stones. Madrid, 1982. Avec l’aimable autorisation de l’artiste et de VEGAP (Exposition La Movida). 

 

La fotografia  è un accumulo di tensioni, idee, esperienze. In esse si ribalta completamente l’idea per cui niente sembra interessante quando ti appartiene. Qui è tutto interessante, perché è tutto posseduto. Vita, musica, corpi esibiti, travestimenti: tutto è mobile. Il volto di Pedro Almodóvar, truccato da donna, con il petto villoso, simboleggia una libertà riconquistata e vissuta pienamente. Ma l’essenza della movida sta tutta nelle immagini di Ouka Leele, pseudonimo di Barbara Allende Gil de Biedma. Le sue fotografie sono coloratissime, vivaci, ironiche. Sono parodie. L’immagine di una donna che tiene fra le labbra una cannuccia, in capo un’immensa aureola di limoni, è l’icona dei Rencontres. Tutto è assimilabile al sogno. Mystique Domestisqueè il titolo della sua mostra. La libertà interiore è straripata oltre l’immagine. Ed il corpo l’ha rivendicata, come un desiderio che per lungo tempo ha dovuto celarsi. 

 

Mostre:  

1 giugno – 22 settembre 2019 (https://www.rencontres-arles.com/) direttore Sam Stourdzé

Evokativ di Libuše Jarcovjáková, a cura di Lucie Černá

Les libertés intérieures. Photographie Est-Allemande 1980-1989 a cura di Sonia Voss

La Movida. Chronique d’une agitation1978-1988 a cura di Antoine de Beaupré, Pepe Font de Mora, Irene de Mendoza.

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I Rencontres di Arles
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Nino Migliori. Oltre le strutture del reale

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In Venezia (1958), un manifesto pubblicitario mostra in primo piano una giovane donna in abito da sposa, posta accanto alla scatola del detersivo Persil, che “lava presto, bene e tutto”, per un bucato lampo. E nello schema concettuale della fotografia, questa immagine nell’immagine è messa in dialogo e in rapporto semantico con il reale bucato, steso tra due case sul canale, visibile in secondo piano. In Gente dell’Emilia (1955), quattro bambini stanno “sentendo” messa in modo distratto. Dietro di loro, sul lato sinistro, un’apertura rettangolare lascia vedere invece un gruppo di pie donne nel matroneo, ispirate dal rituale cattolico, completamente rapite dalla discesa dello spirito santo in quel luogo sacro. Anche qui la finestra apre al rapporto tra superficie del reale e rimando a significati altri suggeriti dall’immagine dentro un’altra possibilità interpretativa dell’immagine. Ciò che si muove al di là delle vetrine, all’interno dei bar, e in primo piano, nei due scatti delle serie Gente del Nord (1950) e Gente dell’Emilia (1959), rappresenta la coesistenza di più livelli e piani nella stessa ripresa fotografica, con diversi silenzi, attese, aspettative, luci, ombre, sguardi, con un interessante travaso di collegamenti tra i vari registri.

Dentro lo scatto dove bambini saltano da un muretto, in Gente dell’Emilia (1957), cosa vibra e che armonici rifrangono, soprattutto nell’ombra intera di un corpo, in sospensione sul muro, proiezione di un balzo? Nella fotografia nessun bambino ha ancora toccato terra.

 

Nino MIgliori, Il tuffatore, 1951.


Tutti stanno volando in quell’istante, nella loro gioia infantile. In quello stato di sospensione e nelle ombre sul muro qualcosa rimane in attesa di essere compreso, a un livello più profondo, al di là della sua prima apparenza di matrice neorealista. Nel libro Nino Migliori. Forme del vero, Corrado Benigni si addentra in un viaggio coraggioso, anticonformista, per condurre il lettore/fruitore di immagini oltre il diaframma della prima lettura di queste fotografie. Benigni condensa tutta la poetica di Nino Migliori (Bologna 1926) nell’atto del fotografare per abitare il tempo, come in una estesa e diffusa esplorazione del visibile, dove “le istantanee non hanno nulla di istantaneo” dentro il flusso sempre anacronistico della ricerca artistica, perché il senso sta in perenne sospensione “tra il vero e l’immaginario, tra il certo e il possibile”. Viene indagata la profondità di campo di ciò che sta in superficie, nel suo aldilà evocativo; si cerca di oltrepassare le fitte maglie della mera realtà, per fare affiorare l’ulteriore possibilità della percezione, ipotizzando anche qui il superamento della sola visione retinica, per dilatare lo sguardo dentro la dimensione del non ancora visto e/o dell’invisibile.

 

Nino MIgliori, Venezia, 1958.


Questa indagine ricorda la tecnica del passo indietro per spiccare un balzo più lungo in avanti. In vari periodi storici è stato in qualche caso tentato – soprattutto da artisti geniali e incompresi nel tempo in cui sono vissuti, poi rivalutati però nei secoli successivi –, sfidando ogni sorta di movimento avanguardista e di critica, per cercare di spingere un po’ più in là la ricerca del vero e dell’inedita lettura. Nella sua lunga e feconda carriera, Migliori è stato un pioniere degli sconfinamenti, autore metamorfico, singolare e inclassificabile, e ha tentato continuamente nuove strade e soluzioni formali. Ha sperimentato molteplici possibilità espressive: immagini sociali di matrice neorealista dell’immediato dopoguerra – antropologiche e identitarie allo stesso tempo, testimonianze visive di un’Italia ormai scomparsa –, fotografie di graffiti murali, pirogrammi, ossidazioni, cellogrammi, clichés-verres, idrogrammi, sovrapposizioni, istogrammi di Photoshop, riuso di fotografie scartate o abbandonate dalla gente, e altro ancora. Nel suo rapporto espressivo polisenso con la fotografia – ovvero in rapporto parallelo col reale tra neorealismo, informale e concettuale – Migliori ha espresso con varie declinazioni la sua indagine del confine tra il caso e la gestione consapevole del casuale: “Un giorno stampavo i miei bambini, le mie vecchie col fazzoletto, e il giorno dopo mescolavo acidi e carte e inventavo le ossidazioni, i pirogrammi, i cliché-verre. Poi magari uscivo e tornavo a fare i reportage. Potevano sembrare due atteggiamenti antitetici e invece erano paralleli”. Quindi le sperimentazioni non furono posteriori ai reportage socio-antropologici fra la Gente dell'Emilia o la Gente del Sud, ma in contemporanea e a volte anche precedenti. Molte sue opere sono nate da sperimentazioni “off camera” su linguaggio e materiali, direttamente con sviluppo, fissaggio, fogli di carta sensibile. Ha ideato immagini direttamente con la luce, senza necessariamente passare attraverso lo scatto fotografico.

 

Nino MIgliori, dalla serie Gente dell'Emilia, 1955.


Dal 1948 a oggi ha anche documentato le scritte sparse sulle pareti delle città, intendendo i muri come un mezzo di comunicazione, dal periodo in cui non c’era la televisione fino all’era di internet e dei telefoni cellulari. È sempre stato affascinato da come viene usato il muro per esprimere stati d’animo, convinzioni e slogan politici, tifo e affezioni sportive, questioni amorose, il vario repertorio delle tracce segniche, fonti di racconto nelle stratificazioni di carta dei manifesti strappati. Nell’arte combinatoria dei muri coglie gli effetti cromatici, gli incontri casuali tra immagini dei manifesti sovrapposti e strappati, i rapporti semantici tra le parole, le forme e i colori, la sedimentazione dei tempi, degli eventi atmosferici e quelli della storia. 

Nella mostra Forme del vero, in corso nel Complesso monumentale di Astino fino alla fine di settembre, curatore e artista hanno selezionato fotografie del periodo neorealista (1951-1963) e quelle delle serie Manifesti strappati (1950-1973) e Muri (1950-1973). Il giorno dell’inaugurazione abbiamo incontrato Nino Migliori per porgli alcune domande, anche a proposito dei suoi lavori che hanno anticipato questioni e modalità indagate in anni più recenti dalle nuove generazioni di artisti in Italia.

 

 

Nino MIgliori, dalla serie Gente dell'Emilia, 1959.


Quali sono le contraddizioni legate al concetto di fotografia, inteso come una forma espressiva che si può definire “ambigua” e “bugiarda”?

Quando la fotografia nacque (quest’anno si celebra il 180esimo compleanno) venne ritenuta fedele rappresentazione del reale e si pensava che lo strumento stesso ne sottolineasse l’oggettiva meccanicità. Pensa che, pochi anni dopo la sua invenzione, un medium – che era stato accusato di circonvenzione di incapace da parte dei parenti di una donna, alla quale faceva credere che durante le sedute spiritiche si palesava il fantasma di un caro defunto – fu assolto, perché a testimonianza della veridicità di ciò che sosteneva accadesse portò come prova fotografie che ritraevano “spiriti”. Che meravigliose bugie e possibilità di intervento ben prima di Photoshop! Comunque, la fotografia è sempre un’interpretazione dell’autore. In questo senso è bugiarda. Di conseguenza è ambigua, perché senza dubbio presenta una porzione della realtà, ma solo quella che il fotografo ha scelto di inquadrare, escludendo tutto il resto. Di seguito un esempio che spesso mi piace fare. Siamo negli anni Settanta, mi trovavo alla finestra di un palazzo sopra il Pavaglione ed ero testimone della scena seguente: c’era stata una manifestazione di studenti sul sagrato di San Petronio e la polizia li stava inseguendo, disperdendoli verso via Rizzoli. Nel frattempo, un gruppo di spazzini, giunto prontamente, puliva la piazza piena di volantini e carta, perché il vescovo stava uscendo dalla cattedrale per la benedizione della Madonna di San Luca. Avevo una widelux e l’ottica rotante mi permise di fare una fotografia a 180 gradi, che riprendeva l’intera scena. Se avessi tagliato il negativo in 3 parti ognuno avrebbe raccontato la verità, la sua verità di quello che era accaduto in piazza: studenti che hanno dimostrato e bivaccato, città che viene pulita in modo efficace e pronto, polizia che attacca studenti, vescovo che benedice la città. Pensa quanti messaggi diversi, eppure “veri”, secondo la visione che ipotetici fotografi avrebbero potuto dare. Nel 1978, ben prima dell’avvento del digitale, ho realizzato Segnificazione, un lavoro che dimostra come si possa manipolare la realtà, avvalendosi di due elementi tra i tanti che contribuiscono a costituire il linguaggio della fotografia. Utilizzai, in un certo senso analizzai, l’ingrandimento e il contrasto, elaborazioni comuni da camera oscura, che tutti i fotografi hanno usato senza porsi il problema, che rappresentano un intervento di interpretazione.

 

Nino MIgliori, da Gente del nord anni '50.


Dalla posizione autorevole della tua lunga esperienza sul campo, e visto che hai sperimentato numerose declinazioni legate alla fotografia, ci potresti parlare dello pseudo dilemma che da una parte individua il fotografo e dall’altra l’artista che utilizza il medium della fotografia? Quale è il confine tra le due possibilità, ovvero, dove finisce una e inizia l'altra? È la qualità dell’idea che sta a monte dell’immagine o lo spessore a livello concettuale di chi utilizza il medium della fotografia a determinare la differenza, o c’è dell’altro?

Hai ragione, è uno pseudo dilemma, che ha preso piede quando la fotografia è entrata prepotentemente nel mercato, per cui bisognava vestire con un’aura di artisticità un linguaggio che dipendeva da un mezzo meccanico e che era alla portata di tutti, condizioni che probabilmente venivano ritenute di inferiorità rispetto alle altre forme espressive. Sembra che ci si vergogni o sia sminuente dire: sono un fotografo. Forse c’è un “complesso da inconscio tecnologico”. In realtà quello che conta è l’idea. Se il progetto è valido credo che poco importi quale linguaggio si sia scelto di utilizzare. Per esempio, a nessuno è mai venuto in mente di kdire scultore-artista o artista-scultore, per cui se vuoi sapere la differenza dovresti chiederlo a chi pratica questi binomi. Posso anche aggiungere che ritengo che l’artisticità possano attribuirla solo gli altri e poi è la storia che fa da setaccio.

 

Nino MIgliori, dalla serie Gente dell'Emilia, 1957.


In alcune interviste ho letto che ipotizzi la possibilità futura di trasmettere il pensiero dell’immagine direttamente dal cervello, con i neuroni, attraverso due sensori applicati alle tempie. Come vedi l’utilizzo poetico e artistico di queste immagini, pensate e successivamente trasmesse? Mi spiego meglio: la storia della fotografia testimonia che lo strumento stesso utilizzato dall’autore ha influenzato la tipologia dell’immagine (il tipo di macchina fotografica, la pellicola, lo sviluppo in camera oscura, la postproduzione, i tempi, le misure, etc.). Come immagini queste “fotografie” ideate nella mente senza l’ausilio di una strumentazione o di una macchina fotografica?

Sì, ad Atlanta, anni fa hanno scoperto che attraverso dei sensori il cervello è in grado di trasmettere il bianco e il nero. Se è vero, e provato scientificamente, allora sarà altrettanto possibile trasmettere immagini, fotografie. Quando evolveranno ulteriormente gli studi neurologici e la tecnologia informatica, inizierà una nuova fase dell’arte visiva. Fin dall’inizio della mia ricerca ho praticato la fotografia off-camera, cioè senza macchina, utilizzando tutti gli altri elementi del linguaggio fotografico: carta sensibile, ingranditore, sviluppo, fissaggio, luce, calore, tempo. Si tratta di alcune tecniche che fanno parte della storia della fotografia e della grafica, come fotogrammi, cliché-verres e altre inventate da me, come ossidazioni, pirogrammi, idrogrammi. Sono sperimentazioni che possono dare esiti informali, ma in ogni modo sono rappresentazioni della realtà, tangibilità di un gesto, indici. Esattamente come avverrà e di che tipologia sarà la trasmissione dell’immagine lo potranno dire gli esperti, gli ingegneri, gli informatici, ma si stanno facendo studi in questo campo e credo si arriverà alla possibilità di inviare e poter concretizzare un pensiero, interpretare quello che è stato visto, tradurre una emozione, una riflessione, un concetto. La fotografia ha solo 180 anni e pensa come dal dagherrotipo è cambiata in un tempo così breve. 

 

Nino MIgliori, dalla serie Gente dell'Emilia, 1957.


Quali sono state, mentre sperimentavi nuove possibilità, le rivelazioni legate all’errore? Dall’errore sono nate interessanti intuizioni nella tua ricerca?

Certamente l’errore costituisce uno stimolo e apre nuove possibilità. Quando nelle indicazioni di un prodotto viene precisato cosa non fare per evitare sbagli, il divieto rappresenta una spinta alla trasgressione e accende la curiosità di sapere cosa può succedere. Quando fu immessa sul mercato la Polaroid 600 si diceva che non bisognava toccare la superficie finché l’immagine non si fosse sviluppata per evitare che si segnasse; io la incisi volutamente e mi resi conto che potevano esserci delle possibilità espressive e così continuai la sperimentazione giungendo a controllare quello che veniva considerato errore. Così iniziai il ciclo delle polapressures, dalle quali sono successivamente derivate tutte le ulteriori ricerche dai polaori, dalle sinopie alle trasfigurazioni.

 

Alcune tue intuizioni sono state “profetiche”, hanno anticipato questioni che sarebbero diventate attuali molti anni dopo, nella ricerca dell’arte contemporanea. Ci puoi parlare di Checked one year under control?

Una bella faccia in realtà può essere una maschera che nasconde altro. Era da tempo che mi frullava l’idea che certi nostri comportamenti legati a una “facilitazione” di azioni, per esempio pagare con le varie carte, accedere all’autostrada con il Telepass, avere il telefono sempre a disposizione, scrivere mail e navigare in internet, solo per farti alcuni esempi, potevano essere controllati da un ipotetico Grande Fratello orwelliano. A un certo punto, come associazione di idee, mi venne in mente Photobiographemi, un mio lavoro del 1985 derivato da un aneddoto della vita di Buffalmacco raccontata dal Vasari, composto da lucigrammi off-camera, che rappresentavano il percorso biologico di certi insetti. Così decisi che per un intero anno, il 2002, avrei scattato una fotografia nel luogo in cui mi fossi trovato ogni volta che la mia azione era ipoteticamente tracciabile. Era in un certo senso la rappresentazione del mio percorso biologico di un intero anno sottoposto a un possibile controllo. Ne risultò una installazione composta da circa 1200 fotografie. E pensa che allora i cellulari non erano macchine fotografiche e in tasca portavo una piccola Olympus a uovo.

 

Nino MIgliori, dalla serie Gente dell'Emilia, 1957.


Mi sembra molto interessante anche l’installazione Scattate e abbandonate, costituita da migliaia di fotografie scartate, non più ritirate nei laboratori a cui erano stati consegnati i rullini per essere sviluppati e stampati. Scegliere di non andare a ritirarle dallo stampatore corrisponde al desiderio di cancellare il ricordo, di rimuovere qualcosa dalla memoria? Ci parleresti dell’aspetto concettuale legato prima al gesto di rifiutare e rigettare fotografie e poi invece al tuo recupero con l’intenzione di dar loro una nuova collocazione e vita? 

Frequentavo lo Studio Villani, una importante realtà fotografica che iniziò l’attività nei primi anni del Novecento a Bologna, dove convergevano una buona parte dei rullini provenienti dai vari negozi di ottica della città e della provincia. Quando vidi che uno scatolone pieno di fotografie stava per essere mandato al macero, mi stupii, chiesi la ragione e saputala immediatamente mi offrii di ritirarle io. Così dalla fine degli anni Settanta per qualche anno mi furono consegnate centinaia e centinaia di immagini rifiutate. Le ragioni che avevano spinto le persone a ripudiarle, a rinnegare la storia che rappresentavano, penso siano state le più varie, e qui ci si addentrerebbe in un campo che non mi appartiene, perché la cosa più semplice, ma evidentemente non ovvia, sarebbe stata ritirarle per distruggerle. Da subito pensai di esporle, ridare vita come dici tu a momenti che invece erano stati destinati all’oblio; mettere in mostra un ricordo rimosso, una delle funzioni che la fotografia rappresenta, ma non c’era nessun interesse da parte di musei, istituzioni, gallerie, l’operazione non era considerata di valore. Per cui ho conservato per quasi 40 anni quei sacchetti colmi di racconti, di sentimenti, e nonostante traslochi, dispersioni, vicissitudini di archivio non mi hanno mai voluto lasciare. Continuavo a parlarne, ma solo nel 2012, in occasione di una mia mostra personale a Forma, a Milano, feci la prima installazione, una stanza ricoperta di foto applicate su strisce di Domopack, tra le quali si poteva camminare e vedere. La seconda installazione la feci nel 2013 a Palazzo Pepoli, Museo della Storia di Bologna; in questo caso progettai una grande struttura a forma di rullino, che, ricoperta di fotografie, entrava ufficialmente attraverso una porta in un museo: le immagini rifiutate avevano la dignità di essere esposte in una sede prestigiosa. 

 

Nino MIgliori, da Gente del sud, 1956.


Come ti immagini il tuffo nel mare del futuro?

Se si pensa che sono passati solo poco più di cento anni dall’arrivo della luce elettrica nelle case e adesso un blackout bloccherebbe la maggior parte delle attività, diventa difficile immaginare il futuro. Anzi, ti dico che, se avessi a disposizione un viaggio andata/ritorno nel tempo, andrei certamente nel futuro, non tanto in là, un centinaio d’anni, ma sono certo che vedrei un mondo rivoluzionato dai giovani, che avranno saputo invertire la barra e impedito la distruzione del pianeta, aiutandosi coralmente, superando le barriere di etnia, censo e lingua. Come può l’uomo rinunciare a essere tale?


Paolo Conte, in una sua canzone, dice: “il maestro è nell’anima, e dentro all’anima per sempre resterà”. Quali sono i maestri che sono ancora attivi nella tua anima e ti aiutano ad avere buone idee originali?

Grazie per il complimento. Spesso dico che la cultura di una persona, cioè la lente interpretativa della realtà, è tutto ciò che rimane dopo aver dimenticato tutto, per cui ognuno di noi è tutto quello che ha provato, visto, letto, ascoltato e metabolizzato. Ma certamente tutti abbiamo dei modelli ai quali ci ispiriamo, per me sono Lucrezio, Leonardo, Duchamp. In poche parole, Lucrezio per la sua visione della vita, l’amore per la natura e i suoi cicli, Leonardo per la curiosità, la continua sperimentazione che spinge a cercare strade nuove e non sentirsi mai arrivati, Duchamp per la provocazione intesa non a stupire o a creare scandalo, ma come riflessione e superamento dei luoghi comuni, a non accettare la sicurezza del conformismo.

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